Editoriale: Grandi temi come piogge d’autunno, allagamenti, esondazioni e danni

di Paolo M. Di Stefano -

Migranti: qualcosa sembra muoversi e in direzione per più di un verso creativa. Leggo a pagina 58 del “Venerdì” di “Repubblica” del 9 ottobre: “Prelevare i migranti scavalcando gli scafisti. Sembra un piano impossibile e invece sta per decollare. I profughi in fuga? Andremo a prenderli con gli aerei grazie all’8 per mille.”
E poi: “Corridoi umanitari in Marocco, Libano ed Etiopia. Voli regolari per l’Italia. Mille profughi da portare in salvo entro Natale. E tutto a spese della Federazione delle Chiese Evangeliche e della Comunità di Sant’Egidio. Mentre l’Europa resta impantanata a discutere di quote di migranti e centri di smistamento, c’è chi prova ad accelerare. (…) Il progetto è in questi giorni all’esame dei Ministeri dell’Interno e degli Esteri per arrivare in tempi brevi a stendere un protocollo d’intesa per la sua realizzazione (…)” Lo scrive Vladimiro Polchi.
A me fa particolarmente piacere.
Sono anni che sostengo che esiste più di una concreta possibilità di risolvere buona parte dei problemi relativi ai migranti. Tra queste, è senza dubbio l’organizzazione del trasferimento dagli Stati di provenienza, e in questo senso ho anche cercato di delineare un possibile sistema che, tra l’altro, avrebbe il non trascurabile vantaggio di abbattere buona parte dei costi della attuale attività di intervento a tutti i livelli. Ho parlato di navi da crociera (per esempio, da ultimo nella rubrica Cattedra di Storia in Network di maggio 2015) e non di aerei, ma la cosa è in buona sostanza indifferente.
L’ho fatto in più riprese e attraverso i mezzi di cui dispongo, ovviamente. I quali mezzi sembrano avere in comune l’incapacità di attirare l’attenzione dei fratelli maggiori, più grandi e in più importanti faccende affaccendati. Ma non importa. Ciò che interessa è che qualcuno si muova, e forse è la volta buona.

Il monsignore gay è intervenuto a gamba tesa in occasione della apertura – allora imminente – del sinodo sulla famiglia. “Sono gay – ha denunziato – ed ho un compagno”. Pare che l’Autore della esternazione in questione sia tra i così detti “preti diocesani”. Se così è, ha emesso tre promesse, al momento della ordinazione: promessa di celibato, promessa di obbedienza al Vescovo e promessa di preghiera e santificazione, a differenza di quanto accade per i preti “religiosi”, così chiamati perché appartenenti ad una famiglia religiosa (salesiani, francescani, gesuiti e via dicendo), per aderire alla quale sono tenuti ad emettere i voti di castità, di povertà a di obbedienza, e ciò fanno prima di diventare preti. (fonte il blog di don Ugo Quinzi)
La dichiarazione del Monsignore in questione ha sostanzialmente descritto la situazione di un sacerdote cattolico apostolico il quale, conscio di aver fatto voto di celibato (ma non di castità), sostiene che la convivenza con qualcuno non essendo tecnicamente “nozze”, il voto stesso è rispettato. E, d’altro canto, egli neppure ha fatto voto di castità, se è prete “diocesano”, come sembra sia. Dunque, non ha violato (sempre a suo dire) alcun principio. Almeno, non direttamente. Perché, in fondo, in via mediata sembra aver voluto affermare che per i preti è possibile aver rapporti sessuali e relazioni più o meno rilevanti e durevoli indipendentemente dalla etero o dall’omo sessualità, purché non legati dal vincolo matrimoniale.
Che apre vastissimi orizzonti alla discussione.

Correlata, la questione della pedofilia. I media si sono scatenati e il gioco della interpretazione ha occupato più di uno spazio sulla dichiarazione di un sacerdote il quale, parlando di pedofilia, ha messo in evidenza come (cito a memoria) “bisogna capire i preti e quei bambini soli, indifesi e bisognosi di affetto…”
Apriti cielo: “la stampa” ha comunicato tutto lo sdegno possibile e immaginabile, dal momento che l’intervistato avrebbe sostanzialmente sostenuto che la pedofilia sarebbe colpa dei bambini! E se, invece, quel sacerdote avesse soltanto voluto dire che il contatto con quei bambini bisognosi di affetto costituisce per qualcuno una vera e propria tentazione alla quale quello stesso qualcuno non è capace di resistere? Il che potrebbe anche non significare altro che una constatazione, senza alcuna giustificazione per quei preti che esercitano la pedofilia: sono deboli e forse anche viziosi che non resistono alla tentazione, e che magari la cercano e se la procurano. E i bambini sono per loro soltanto un oggetto e una occasione. Senza altra colpa che essere bambini e dunque deboli e bisognosi di affetto.

Un complotto contro Papa Francesco in Vaticano a questo (e ad altri) propositi è stato evocato da più di qualcuno, e non senza qualche parvenza di verità. Francesco è un Papa scomodo così nell’azione come nel linguaggio.
Nell’azione, poiché sembra determinato a rinnovare profondamente una struttura – la Chiesa e il Vaticano – che appare ancora oggi abbondantemente immersa nel mondo del potere e della economia e per la quale non è privo di significato il disporre, da parte di alcuni Cardinali, di appartamenti principeschi, per esempio, e di frequentazioni dei salotti e delle stanze del potere e comunque di simboli di uno status che, seppure è di questo mondo, non lo è certamente per quel Regno di Cristo che di questo mondo non é. Per definizione e per esplicita dichiarazione di Cristo stesso (Giov. 18, 33-37).
E nel linguaggio, che Francesco utilizza in modo semplice, diretto, comprensibile e dunque senza possibilità di equivoci o di interpretazione distorte. In modo definibile anche come “non politico”, con ciò mettendo in crisi secoli di retorica, di espressioni rotonde, di periodare oscuro diretto a stupire e stordire, a dire e non dire, ed anche (soprattutto?) a ridurre al minimo qualsiasi obiezione da parte di quella “gente” che dovrebbe essere il popolo di Dio, e non il servo della gerarchia.
E se in aereo Francesco ha detto con chiarezza estrema e non senza una punta di irritazione di non aver invitato il Sindaco di Roma a seguirlo oltreoceano, intendeva dire esattamente questo, anche per impedire qualsiasi strumentalizzazione in una questione, quella del Comune di Roma e del suo sindaco, non priva di lati che definire oscuri significa usare un eufemismo.

Il Sindaco di Roma per me è un illustre sconosciuto, come professionista e come politico. Mi dicono si tratti di persona professionalmente in gamba, probabilmente in politica e nell’amministrazione della Capitale autore di qualche gaffe di troppo, ma nulla di più. E forse anche chiamato ad un compito più grande di lui: risolvere problemi più che annosi, riconducibili tutti a quell’intreccio tra politica ed economia, interessi pubblici e interessi privati che a Roma trovano da sempre terreno più che fertile, proprio per essere stata caput mundi, un giorno, e capitale d’Italia oggi.
La vicenda mi ha riportato agli anni della mia gioventù, quando ero profondamente convinto che si può essere onesti anche se si fa politica e se si amministrano le città e se si dispone di capitali e di potere. Ogni occasione, allora, era buona per me per sostenere come fosse possibile combattere la corruzione con annessi e connessi, e dunque amministrare “bene e onestamente” la cosa pubblica. Ricordo anche, però, che più di qualcuno già da allora si preoccupava di togliermi ogni illusione. “Non ti accorgi” – dicevano – “che il sistema è tale per cui, se muovi una carta qualsiasi del castello, tutto il castello crolla? E il castello costruito dalle connivenze tra politica, economia, burocrazia, mondo degli affari e della imprenditoria, non essendo costruito da inanimate carte da gioco, ma da agguerriti portatori di interessi, si difende. Per cui tu, chiamato ad amministrare un Comune (per esempio) se non entrerai a far parte del sistema verrai espulso.”
Posso pensare che il sindaco di Roma, Capitale d’Italia, sia il concreto esempio, oggi, di quanto mi dicevano troppi anni or sono? È proprio impensabile che abbia cercato di tirar via qualche carta dal castello, e per questo sia stato ritenuto pericoloso da parte del sistema?
Un sistema – ricordiamolo sempre! – di cui la Politica e le politiche fanno parte integrante, e del quale i partiti portano più di qualche responsabilità.

La ripresa economica appare ad ottobre quasi una certezza. Da più parti si sottolinea l’esistenza di indicatori positivi che vanno dalla riduzione della disoccupazione alla ricostruita fiducia degli italiani – e soprattutto dei commercianti – in un futuro che non sembra più nero, e via dicendo fino all’impegno del Presidente del Consiglio nel presentare al mondo un’Italia nella quale vale la pena di investire. A dispetto, anche, di una burocrazia che sembra pagata per far danni e di una corruzione endemica, almeno in apparenza elemento costitutivo del nostro DNA.
Certo è che i prezzi al dettaglio sembrano risalire, e l’inflazione è da sempre una argomentazione molto ben venduta alla gente: se i prezzi aumentano, significa che l’economia gira. La stagnazione dei prezzi, al contrario, denuncia una grave malattia del sistema economico.
Che è ovviamente tutto vero: il continuo movimento dei prezzi verso l’alto significa che il danaro “gira” – come sul dirsi. E se gira il danaro, l’economia si sviluppa. Proprio a voler essere pessimisti, si potrebbe sostenere che il danaro che “gira” è quello utilizzato da chi lo ha, e chi ha danaro è colui che si arricchisce a scapito di qualcun altro. O, anche, che il danaro gira in un circuito chiuso, in un certo modo violando la legge della forza centrifuga, dal momento che più gira, più tende ad aggrumarsi al centro.
“La quale – avrebbe detto il Peppone di Guareschi – c’è chi diventa sempre più ricco e chi invece diventa sempre più povero.”
E il vero problema della ripresa economica non consiste nel ricostituire il sistema, bensì nel modificarlo in modo che quel danaro “giri” sempre più velocemente rispettando la legge centrifuga, e dunque andando “anche” verso l’esterno, in misura equa, corretta, “fisicamente” coerente con la velocità di rotazione. E’ un modo per descrivere la re-distribuzione della ricchezza.
Sull’argomento, sia pure in via mediata, torniamo in “cattedra” a proposito di EXPO, che ha chiuso con successo e che pare abbia consentito la riconquista da parte di Milano della qualifica di Capitale morale d’Italia.
Non solo: sembra sia stato merito di EXPO se l’Europa – forse finalmente unita – ha segnalato la possibilità di portare sulle nostre tavole ragni, scorpioni, vermi e insetti vari. Che è bello ed istruttivo e ci lancia verso quella globalizzazione “fisica” che completerebbe i mondi virtuali dei quali siamo ormai cittadini, e che, forse, potrebbe essere un suggerimento concreto per debellare la fame nel mondo: se c’è gente che di fame muore, non potremmo attivarci per fornire i nostri simili meno fortunati di cavallette, formiche, vermetti e insetti vari? Ciascuno di noi, con personale sacrificio, rinunciando a dieci vermi, tre cavallette e due scorpioni al giorno potrebbe strutturare un sistema di cattura e di distribuzione verso Paesi meno ricchi e fortunati. Certo, la raccolta, l’imballo, la spedizione e la distribuzione sarebbero un costo… Ma chi ha detto che i vermi li dobbiamo regalare?
A proposito, qui soltanto l’accenno ad un possibile ragionamento: se grazie ad EXPO Milano è di nuovo la “capitale morale”, dal momento che il successo di EXPO pare innanzitutto economico, non è pensabile che tra economia e morale un legame dovrebbe pur esserci?

Per quanto riguarda le imposte sulla casa, pare si tratti di materia che interessa anche l’Europa, ma che certamente per gli italiani appare centrale. Sempre, naturalmente, perché tutto è riportato all’individuo, alla persona, al singolo ed al suo interesse.
Peccato che, una volta ancora, il legislatore le cui idee sono ovviamente assolutamente chiare, sembra non riuscire a far sì che quelle idee siano altrettanto chiare per il comune mortale.
Il quale comune mortale ha una residenza stabile in una qualsiasi città (paese, villaggio) nella quale abita in un appartamento dietro il pagamento di un canone di affitto non di rado sproporzionato, e per pagare il quale più che qualche volta è costretto a rinunziare ad una parte della qualità di vita.
È questa, la sua “prima casa”. Quella eventualmente ereditata o acquistata in un qualsiasi altro luogo, sia pure solo tre strade più in là o nel villaggio più sperduto e povero e scomodo della penisola, è “seconda casa”, anche se si tratta dell’unica proprietà posseduta.
E su questa, io proprietario pago fior di balzelli proprio perché “seconda” casa.
Significa che le tasse e le imposte relative non riguardano la proprietà in sé, ma la mancata residenza nella casa di proprietà. Se sei proprietario e residente, il concetto di “seconda casa” non opera. Giustamente. E se sei proprietario di una casa che non abiti, paghi proprio per il “non abitare”. Altrettanto giustamente? Forse che sì, forse che no. Io posso solo confessare che il mio odio ancestrale per il diritto tributario, concretatosi prima nello sforzo di strappare un voto decente all’Università e poi nella incapacità di fare il tributarista, ancora una volta non mi mette in grado di tentare una spiegazione.
Da uomo assolutamente della strada, posso solo pensare che una imposta “sulla proprietà” degli immobili e quindi anche delle case destinate ad abitazione sia configurabile e debba essere assolutamente progressiva, legata alla posizione, alle dimensioni, ai concetti di “lusso” o di “popolare” ed al numero delle case di cui un soggetto è proprietario. Mi pare lo dica la Costituzione.
E da uomo assolutamente della strada, penso che il proprietario della casa nella quale abito e stabilmente risiedo, per il principio della traslazione dell’imposta mi faccia pagare ciò che egli deve allo Stato a titolo di imposta sulla proprietà.
Non ne sono sicuro, ma forse significa che il tema delle imposte sulla casa andrebbe riesaminato in una con quello dell’intero sistema tributario, che pare quanto di più confuso e complesso si possa immaginare.