Editoriale: Forse un mese tragico, forse no

di Paolo M. di Stefano -

Settembre si chiude tra titoli a tutta pagina dei quotidiani che sottolineano eventi intrisi di orrore e minacce orripilanti. E servizi dedicati dai media di tutti i tipi, senza eccezioni apparenti, sostengono che il mondo è in ansia, il livello di guardia altissimo a causa di una strategia del terrore in pieno svolgimento e probabilmente lanciata verso vette inimmaginabili.
E prendono atto, anche, che ormai le nostre coste sono invase da centinaia di migliaia di profughi e che migliaia di essi muoiono in un mare che diviene sempre meno fonte di speranza.
Tutto vero, e forse anche senza eccezioni.
E in materia possono legittimamente essere elaborate – e di fatto così avviene – considerazioni le più diverse, di ordine etico, giuridico, sociologico, geopolitico, economico e altrettanto legittimamente le conclusioni possono essere comunicate attraverso tutti mezzi possibili e immaginabili e ai fini più diversi.

Io credo, però, che su di un punto non siano stati dedicati spazio e approfondimento opportuni: la (involontaria? inconsapevole? Lo spero!) complicità della comunicazione e quindi dei comunicatori con gli strateghi e i tattici del terrore. Questi – i materiali fabbricanti e distributori di terrore – utilizzano la comunicazione relativa alle azioni di cui sono responsabili come vera e propria arma per raggiungere gli obbiettivi che si sono prefissati. Ogni volta che un medium fa da cassa di risonanza, la campagna pubblicitaria in atto da parte dei terroristi guadagna efficacia, e questo fa senza costi aggiuntivi alla produzione ed alla distribuzione dell’evento. Così che si potrebbe anche sostenere che la comunicazione ed i comunicatori siano complici dei terroristi e più e meglio comunicano, più e meglio lo sono.

Né vale sostenere che “la stampa” ha il dovere di informare e che il pubblico ha “il diritto di sapere” in nome di un concetto di libertà che, probabilmente, non è corretto.
Io credo che quando ci si accorga che la comunicazione è nella realtà elemento essenziale, costitutivo del fatto terroristico, il dovere del comunicatore “di parte avversa” sia quello di tacere.
Quando ad un “prodotto” – nello specifico, il terrore – manca un elemento essenziale – nel caso in esame, la conoscenza da parte dei destinatari –, il prodotto non raggiunge il proprio obbiettivo che, sempre nello specifico, è costituito dalla soddisfazione del bisogno di creare paura al fine di conquistare potere impiegando il minimo possibile di risorse.
Cosa possibile concretamente, questa, perché il terrore genera insicurezza, e i bisogni di sicurezza sono alla base della piramide dei bisogni disegnata da Maslow, appena un soffio dopo i bisogni di sopravvivenza fisica.

E neppure vale la considerazione che ogni gestore di scambio relativo ad ogni prodotto è chiamato a fare, che il terrorista, pur di far parlare di sé, aggredisce i comunicatori direttamente, per esempio uccidendo un giornalista. E’ possibile che questo accada perché il terrorista sa perfettamente che, uccidendo un giornalista, i colleghi si lanceranno come un sol uomo sul fatto per trasformarlo in notizia dalla massima evidenza, anche nella certezza di guadagnare punti di immagine dalla uccisione di quello che può esser venduto come “eroe” o, quanto meno, “martire del dovere”, sempre e comunque nell’esercizio del proprio lavoro.
E non è vero che un giornalista è “parte terza”: lo è fino al momento in cui non sia strumentalizzato.
E non è forse senza importanza ricordare che un giornalista per cultura professionale non può essere inconsapevole, e se si lascia strumentalizzare diviene complice.

Sulla questione, il pericolo maggiore mi sembra quello di pensare che i “terroristi” attacchino i giornalisti per evitare il pericolo che “informino e istruiscano” sulle reali intenzioni, i retroscena, i mezzi di cui dispongono, i nomi dei capi e di coloro che contano, e così via. Qualcuno lo ha detto, intervistato dalla Caramore il 28 settembre su RADIORAI 3.
In proposito, io ho il dubbio che quelli che chiamiamo “terroristi” siano più colti di quanto si possa non credere, e quindi in grado di non sopravvalutare “la capacità di pensare e ragionare” della gente così detta “comune”. Sanno perfettamente che le distinzioni in materia di terrore (che è, poi, il livello forse più alto della preoccupazione di non poter soddisfare i bisogni più elementari relativi alla sopravvivenza fisica) se proprio non stanno a zero, certamente sono appannaggio di pochi.
E quei pochi non sempre sono in grado di convincere.
Per loro, l’importante è che il prodotto chiamato “terrore” sia distribuito al massimo livello, e il modo perché questo accada è proprio il parlarne, parlarne, parlarne…
Perché dal punto di vista degli autori, se della decapitazione di un turista o della violenza sulle donne oppure della lapidazione o dei rapimenti o della distruzione di monumenti che raccontano le tradizioni e la storia e la cultura di un popolo non si parla, tutto diviene inutile.
E dal momento che il parlarne sempre è un fattore di possibile assuefazione, il prodotto “terrore” va continuamente elevato di grado e “creativamente” modificato e rinnovato e riproposto.
Contro il silenzio, invece…

In Italia, l’articolo 18 sembra divenuto un alibi della Politica e del sindacalismo. E il settembre appena concluso lo ha più che ampiamente dimostrato. Ed a mio parere nella faccenda c’è qualcosa di stupefacente: si litiga (o si finge di farlo) sulla norma, dimenticando che c’è ben poco da licenziare per cause diverse da quella della mancanza di lavoro, e quando manca il lavoro non è certo un articolo di legge – e dunque men che meno questo ormai celeberrimo articolo 18 – a crearlo, il lavoro.
Non c’è dubbio che l’imprenditore (il datore di lavoro) abbia teso e tenda in ogni tempo e sotto ogni cielo a perseguire il proprio interesse e dunque anche a far sì che il costo del lavoro (in senso ampio) sia il più basso.
La schiavitù non era e non è il frutto di una deviazione della morale (per lo meno, non solo questo), bensì una risposta all’esigenza della massimizzazione dei profitti da raggiungersi anche operando sul costo del lavoro. E in una economia il cui obbiettivo unico è descritto come massimizzare i profitti, produrre a costo vicini allo zero e vendere a prezzi crescenti è il mezzo per ottenere il risultato. E non credo sia a caso che si parla ancora oggi dell’economia come di una realtà libera da vincoli etici e anche in gran parte giuridici.
Un equivoco consapevole che tutt’ora si perpetua e che intralcia l’azione degli imprenditori ignari e degli altrettanto ignari politici, e che è assunto dai sindacati come rilevante giustificazione della loro azione “a difesa dei diritti dei lavoratori”.
Perché nella realtà il problema è culturale.
Un qualsiasi imprenditore “mediamente colto” si rende perfettamente conto che l’impresa non è soltanto “una grande famiglia” ma è soprattutto una entità dalla vita autonoma che si deve avvalere, e non può fare altrimenti, della collaborazione di tutti coloro che ne fanno parte. E quindi anche di coloro che sono generalmente indicati come “risorse umane” i quali, proprio per questo, “lavorano bene” soltanto se la loro vita in azienda è soddisfacente. Un imprenditore non può non fare tutto quanto è necessario perché i suoi collaboratori contribuiscano alla vita dell’impresa, e questo è possibile solo se “il lavoratore” trova nell’impresa la propria realizzazione professionale e individuale.
Esattamente come accade per lui imprenditore.
Ma questo tipo di “cultura” di collaborazione e condivisione alla gran parte degli imprenditori italiani è estranea.
E lo è sia in forza dei principi generali del nostro tipo di economia, sia in forza dell’erronea convinzione secondo la quale, dal momento che l’impresa gli appartiene, ciò che lui fa è fatto bene.
Che non è vero, ma che alimenta la leggenda italiana di imprenditori capaci costretti al fallimento da una politica costrittiva e perciò limitante e dunque anche esiziale.

Più o meno la stessa cosa può dirsi del sindacalismo nostrano il quale sembra aver esagerato nel disegnare quei “diritti dei lavoratori” spesso degenerati in privilegi tra l’altro costosissimi per l’impresa, e che oggi non è in grado di proporre soluzioni al problema della creazione di nuovi posti di lavoro. Esattamente come la Politica.

Mi chiedo: è proprio impossibile preparare gli imprenditori e i sindacalisti italiani a ragionare in termini di “gestione degli scambi” nel medio periodo, almeno? E’ proprio impossibile far comprendere che una cosa è il capitale, altra ben diversa e forse mortale se non vissuta correttamente, il capitalismo? E’ anche impossibile far riconoscere ai sindacati italiani gli errori compiuti, e tra questi l’arroccamento su posizioni che non possono più aver senso? E dar loro la nozione del limite, e soprattutto spingerli a fare proposte concrete e praticabili perché si crei lavoro?
E ancora: è proprio impossibile pensare che uno Stato, in quanto persona e quindi soggetto attivo anche nel mondo dell’economia, possa divenire imprenditore? E che i collaboratori e dipendenti dell’impresa chiamata “Stato” abbiano un trattamento del tutto identico a quello dei collaboratori e dipendenti delle cosiddette imprese private?
E che le promesse e gli impegni presi “dallo Stato” vadano mantenuti? Soprattutto, raggiungano lo stadio della “pianificazione operativa”, quella che, se correttamente elaborata, garantisce la vita alle così dette imprese private.

Provocazione, ma non tanto: ma siamo sicuri che sia vero che i prezzi debbano essere in costante aumento? E che nel nostro sistema economico non esista alternativa praticabile? Ma non si potrebbe immaginare una politica aziendale che a prezzi più contenuti riesca a fatturare di più ed a realizzare profitti operando sulle quantità?
Dice: ma la deflazione…
La deflazione è la conferma che il sistema economico è malato. E lo è perché un sistema che per vivere deve per forza contare su prezzi sempre crescenti è un sistema che ha in sé la malattia che lo condurrà alla morte. Solo che la fine di un sistema economico è in genere lunga e dolorosissima, e allora si cerca di voltarsi dall’altra parte, sperando che il tempo accomodi le cose.
Ed è una morte lentissima e dolorosa perché, soprattutto, coloro che continuano ad arricchirsi ed a conquistare potere a spese della generalità a tutto pensano meno che a modificare il sistema. Così, l’economia restringe il potere ad un gruppo sempre più esiguo di possessori della ricchezza, e questi sembra non si rendano conto che, spogliati “gli altri”, la “massa”, la “gente comune”, essi stessi saranno costretti, per mantenere ricchezza e potere, a cannibalizzarsi.
Nel frattempo, sarà raggiunto il limite della sopravvivenza e il seme della violenza germoglierà alla grande.

Settembre ha comunque mostrato una nota di ottimismo: la Scozia ha dato prova di altissima civiltà respingendo la proposta di secessione dal Regno Unito. L’antica cultura ha dimostrato di fondarsi anche sulla consapevolezza che insieme è più facile e più probabile raggiungere traguardi comuni di benessere e di sicurezza.
E poi, una lezione per noi: vogliamo scommettere che le strida dei secessionisti di casa nostra in Scozia non sono neppure arrivate? Meglio: la loro eco è stata ampiamente e clamorosamente snobbata.
Io non scommetto, ma spero che, se conosciute, abbiano strappato solo qualche sorriso di commiserazione.
Perché anche da questo l’immagine del nostro Paese – al quale non resta che vantare un’antica e gloriosa cultura – esce impoverita più che mai.
E si badi: le strida dei secessionisti di casa nostra sono anche quelle di chi vorrebbe far uso della forza per respingere coloro che rischiano la vita per conquistare qualche opportunità traversando il Mediterraneo.