Editoriale: Calcio e automobilismo italiani, di che parliamo?

di Paolo M. Di Stefano -

George Bernard Shaw pare abbia affermato che “il ballo è il modo più stupido per muovere i piedi”. Personalmente, in qualche modo condivido. Forse non a livello stupidità, ma a quello del ridicolo qualcosa di vero mi pare ci sia. Ricordo un balletto classico e notissimo, alla Scala, con un primo ballerino celebrato che – sempre a mio parere – atteggiamenti più comici non avrebbe potuto assumere. Due ore di sofferenza, per me, appena temperata dalla grazia (e dalla bravura) di Carla Fracci e dalla splendida musica di Tchaikovsky. Dei balli diversi non so che dire. Non li amo.
Per il calcio – oggi da noi certamente più popolare e noto del balletto – io provo in fondo la stessa benevola repulsione: mi è sempre parso uno dei modi più stupidi per muovere i piedi. Quarantaquattro piedi che si agitano per colpire un pallone di cui liberarsi subito dopo e per cercare di infilarlo il maggior numero possibile di volte in una rete difesa da un atleta il cui compito è sostanzialmente di abbracciarlo amorevolmente, per subito dopo lanciarlo il più lontano possibile. Quarantaquattro piedi, per non parlar degli arbitri e dei guardialinee. Senza contare i piedi in panchina.
Naturalmente, non è proprio così. Dietro tutti quei piedi ci sono strategie e tattiche e formazioni descritte a forza di numeri, l’invenzione più intelligente del genere umano, i numeri. Non per il calcio giocato dai ragazzini, improvvisatori quasi per definizione, ma per quello dei professionisti certamente sì.
Il tutto, in genere, in stadi strapieni di un popolo urlante, strepitante, armato di trombe, trombette, triccheballacche e putipù, abbigliato di sciarpe, magliette, cappellini dai colori accostati nei modi più improbabili. In genere, due fazioni divise da tutto, meno che dalla capacità di ingiuriare l’arbitro – sempre – e gli avversari molto spesso.

Ovviamente, tutto può dirsi di me salvo ch’io sia un esperto di questa cosa chiamata calcio e che la gente si ostina a qualificare sport. La sola partita l’ho seguita in uno stadio di paese; il solo momento in cui mi sono divertito è stato quando il pallone ha raggiunto il giocatore che correva verso la porta avversaria, colpendolo dietro la testa tanto violentemente da farlo cadere, mentre un giocatore dell’altra squadra sopraggiungeva in tempo per calciare il pallone e fare goal.
Distorsione e incompetenza – da parte mia – certamente.
Ma al di là di tutto, come è possibile, oggi, continuare a pensare che il calcio, quello professionale almeno, continui ad essere uno sport?

Un tifoso del Napoli è morto a metà giugno, ucciso dai colpi di pistola di un ultrà della squadra avversaria. E’ vero che anche il tiro al bersaglio è un’attività sportiva, ma se lo è quello alla persona, non si potrebbe concludere che anche la guerra lo sia? E che gli ultrà siano veri e propri eserciti soldati di un esercito atipico ma non poi più che tanto? Armati lo sono, e organizzati anche, e animati da quello spirito di parte, dal desiderio di distruzione e di rivincita, dall’aspirazione alla vittoria che sono l’essenza di ogni guerra e lo spirito d’ogni soldato.
E perché mentre abbiamo messo, almeno a parole, fuori legge la guerra, non riusciamo a fare lo stesso con gli ultrà? O bella: proprio perché si tratta di un esercito atipico. Così è ripudiata la guerra ma non lo sono gli eserciti, e dunque neppure gli ultrà. A favore di questi, tra l’altro, gioca una diffusa opinione secondo la quale le esplosioni di tifo negli stadi dovrebbero essere considerate come accadimenti atti ad evitare il ricorso alle guerre guerreggiate, quelle vere che si svolgono sui campi di battaglia. Un salutare scarico di parte, almeno, di quella aggressività che, se non diversamente scaricata, potrebbe indurre a forme più o meno gravi di guerre e guerriglie.
Sempre a parole, negli stadi è proibito portare armi proprie e improprie. Forse, lo è anche fuori dai cancelli, ma la realtà è che le armi sembrano circolare sostanzialmente indisturbate.
Tanto che ogni tanto ci scappa il morto.
Il che ancora una volta porta ad assimilare gli ultrà (almeno!) agli eserciti: la guerra è rifiutata, ma gli eserciti è giusto e comunemente accettato che siano armati. Non è una buona ragione per chiudere un occhio sui bastoni e i coltelli e le armi da fuoco degli ultrà? Ovviamente no, ma la tolleranza non è sempre buona consigliera e neppure ispiratrice di buona cultura.

Si potrebbe stabilire, intanto, di chiudere gli stadi di entrambe le squadre a seguito di episodi di violenza. Di entrambe, perché, esattamente come accade nelle guerre, non è detto che la violenza non sia scatenata dai sostenitori della squadra che sembra subirla, al fine di provocare un danno all’altra.
Così come si potrebbe assimilare qualsiasi associazione di tipo ultrà o supporter ad un’associazione per delinquere, e dunque proibirla e punirne fondatori ed adepti, in una con la squadra cui si fa riferimento. Si tratterebbe di una presunzione juris et de jure, assoluta, senza eccezioni di sorta. Che non significa proibire il tifo, bensì la sua organizzazione che ha dimostrato di avere quale fine ultimo la violenza fisica e verbale.
E dunque, anche, la negazione dello sport come veicolo di educazione e di buona cultura.
E in questa missione di ineducazione e di non cultura mi pare di poter dire che il calcio sia in primissima linea.

Che il calcio sia uno sport mi pare sia tutto da dimostrare, come mi sembra accada per il ciclismo, per il tennis, per il basket, per l’automobilismo e per tutte le attività qualificate come “sport professionisti”. La definizione di “sport” è (forse è meglio dire era) “attività che impegna sul piano dell’agonismo oppure dell’esercizio individuale o collettivo le capacità fisico-psichiche dell’individuo in connessione o meno con intenti ricreativi” (Devoto-Oli); il Nuovo Zingarelli, richiamata l’origine inglese di un lemma – sport, appunto- che significa divertimento, definisce lo sport come “l’insieme delle gare e degli esercizi compiuti individualmente o in gruppo come manifestazione agonistica o per svago o per sviluppare la forza e l’agilità del corpo”.
Sono caratteristiche che, intanto, a tutti possono essere riferite tranne che agli spettatori di una partita di calcio o di una gara automobilistica o ciclistica o di pallavolo o di tennis o di quant’altro, i quali sono, sì, definiti sportivi, ma per i quali bisognerebbe immaginare una categoria dello sport direttamente riferita al “guardare” ed al manifestare con azioni e movimenti più o meno scomposti i propri sentimenti nei confronti dell’evento cui si assiste.
Poi, si tratta di caratteristiche che insieme a quelle del “divertimento, diletto, passatempo” facevano e fanno riferimento ad una serie di valori, a un tempo ispiratori e fini, di onestà, lealtà, educazione, rispetto per sé e per gli avversari, e che hanno fatto dello sport un momento di esaltazione delle migliori qualità dell’essere umano.

Oggi, sembra che il valore fondamentale di quello che continuiamo a chiamare sport siano divenuti l’economia e il profitto.

E dunque, esso diviene impresa a fine di lucro basata sulla produzione e sulla vendita della competizione tra squadre e tra individui.
E allora ecco che la qualifica di “sport” si restringe a quelle “ gare ed esercizi compiuti individualmente o in gruppo come manifestazione agonistica o per svago o per sviluppare la forza e l’agilità del corpo”, senza alcuna implicazione economica.
Se questo è vero – e lo è – il calcio (e non solo) cessa di essere sport, per divenire un’impresa che, come tale, ha il compito di vivere in un mercato e, per far questo, necessita di professionisti della produzione, della comunicazione e dello scambio, con riferimento ad una “categoria merceologica costituita dalla produzione, dalla comunicazione e dalla vendita di attività agonistica”, a sua volta costituita dalle sub-categorie del calcio, dell’automobilismo, del ciclismo, del tennis, del motociclismo, del nuoto, della pallavolo, e via dicendo.
Conseguenza immediata: così come ogni altra impresa, anche quella sportiva, può fallire e sparire dal mercato.

E il calcio italiano sembra aver fallito. Certamente nel mercato internazionale, probabilmente anche in quello nazionale. Ed è immorale ed antieconomico sopperire alla incapacità “gestionale” dei responsabili d’impresa ricorrendo ai soldi pubblici. Facendolo, tra l’altro, senza provvedere a quella “spending review” così tanto citata in politica e dai politici, oltre che in economia. Qualcuno saprebbe spiegare il perché, mentre si cerca di ridurre al minimo i salari ed al massimo la produttività, gli “operai” del calcio continuano ad esser pagati cifre astronomiche? E perché giocatori, allenatori, commissari tecnici, presidenti, assistenti, cuochi, massaggiatori…tutto il variegato e non di rado corrotto mondo che gira attorno al calcio continua a percepire compensi al di là del bene e del male? E qualcuno potrebbe spiegare perché le trasferte debbono avere come “location” alberghi a cinque stelle, come mezzo di trasporto pullman di lusso e business class in aereo, quando non si tratta di mezzi privati?

Par l’automobilismo (e il motociclismo e qualsiasi altra impresa sportiva) dovrebbe valere la stessa regola: se gli imprenditori e i manager si dimostrano in grado di gestire correttamente l’impresa, bene. Altrimenti, fallimento. E a me non pare un caso che si siano sentite voci di ritiro dalle corse da parte della Ferrari. La Casa una volta esempio di un luminoso made in Italy non sembra in grado non solo di opporsi, ma neppure di raggiungere il livello delle Mercedes, per esempio. Non è più in grado di vincere. E la vittoria è l’argomento principe nel settore. Tutto questo, nonostante investimenti di tutto rispetto e un flusso di danaro tutt’altro che trascurabile proveniente dalla Federazione.
Il che sembra dimostrare che il problema è negli uomini e nella loro capacità di progettare e realizzare macchine vincenti. Ed anche di costruire una squadra in grado di imporsi. Che vuol dire capacità di scegliere i tecnici e i piloti.

E uno degli elementi che in qualche modo appaiono comuni al calcio e all’automobilismo (e non solo) mi pare sia l’insistenza a ricorrere all’apporto di personale non italiano a tutti i livelli.

La mancanza di vivai concretamente in grado di consentire la formazione di piloti e di calciatori provenienti dai nostri giovani è certamente una ragione della presenza, per esempio, di piloti e tecnici stranieri nell’automobilismo e di giocatori non italiani nel calcio.
Che è un altro elemento che accomuna le nostre imprese: la formazione perseguita solo a parole, in realtà trascurata e realizzata – quando lo è – in maniera del tutto dilettantistica e improvvisata.
La formazione è elemento essenziale per qualsiasi impresa. Perché consente di costruire il corpus dell’impresa stessa e perché ne forgia, con la cultura, la capacità di competere sui mercati. Su tutti i mercati, anche quello dei così detti sport. E dunque dell’automobilismo come del motociclismo, della palla a canestro come del ciclismo e del pugilato e del calcio e…

E torniamo al calcio, almeno qui da noi sport professionistico per definizione e, sempre per definizione, sport praticato da tutti a tutti i livelli. Anche quello mentale costituito dall’essere tutti commissari tecnici, in particolare della Nazionale e tutti arbitri e giocatori. Una sorta di paradigma dello sport e degli italiani.
Che fare?
Agli “operai del calcio” – i giocatori – andrebbe immediatamente stabilito un limite ai compensi, così come un limite va fissato per tutti coloro che lavorano, assistono, dirigono e consigliano le squadre; tutti i privilegi (ville ed auto incluse) vanno aboliti. Chi non adempie con professionalità, scrupolo, onestà al compito assegnatogli e per il quale è pagato va licenziato.
Con un vantaggio a mio parere non di secondo momento: un livello più ragionevole dei compensi (ingaggi e stipendi) dei professionisti potrebbe contribuire a migliorare la cultura e l’educazione di quei padri che incitano i piccoli figli in campo a spezzare le gambe dell’avversario e dunque anche la cultura “comportamentale e sportiva” dei ragazzini.

“Gli aiuti di Stato” andrebbero cancellati. Esattamente come non dovrebbe essere possibile oggi finanziare le imprese private, non dovrebbe essere ammesso il finanziamento, sotto qualsiasi forma, alle imprese sportive.
Al più, si potrebbe pensare al potenziamento della “istruzione sportiva” creando scuole pubbliche di sport nelle quali insegnare le basi del comportamento dello sportivo così negli sport di squadra come in quelli individuali, magari anche con successiva specializzazione in una qualsiasi delle discipline, fino all’ingresso dei giovani in una squadra di calcio o in una squadra automobilistica oppure motociclistica oppure di basket (…)

Si potrebbe immaginare di invertire quello che a me sembra il ragionamento di oggi, e che una sua logica (e non secondaria) la possiede: la RAI e gli altri network acquistano il diritto a trasmettere gli eventi. E lo acquistano a caro prezzo e, se ho ben capito, dopo un’asta più o meno trasparente.
Non solo. La “vendita” è effettuata dalla Federazione, che esercita un mandato a vendere rilasciato da ogni singola squadra.
Secondo le regole del mercato e secondo la legge, mi pare si nasconda qualcosa di poco chiaro. E’ come se la vendita dei panettoni fosse effettuata non dalle singole imprese in concorrenza, ma da una “federazione alimentare e dolciaria”, che tanto somiglierebbe ad un trust, per giunta monopolista.

Ma non permesso dalle leggi vigenti perché contrario alla libera concorrenza.

Se veramente il calcio risponde ad un “bisogno pubblico”, non è possibile impostare il ragionamento in modo diverso? Almeno per quanto riguarda l’emittente pubblica, la RAI, a suo carico dovrebbe riconoscersi il diritto-dovere di rispondere agli interessi e di soddisfare i bisogni dei cittadini. Esattamente come accade per quella che chiamiamo “cronaca” e che è universalmente riconosciuta come materia di un diritto di libertà. Il che potrebbe comportare da parte dei club l’impossibilità di opporsi alla trasmissione degli eventi sportivi.
Inoltre, il tempo di trasmissione è uno spazio di comunicazione e pubblicitario, che il network potrebbe e forse dovrebbe farsi pagare a prezzo di mercato.
E allora, una possibile via di mezzo: la RAI trasmette gli eventi, così esercitando un diritto ed adempiendo ad un dovere, senza esborsi di nessun tipo, in cambio dello spazio impegnato; i club ne beneficiano, anche organizzando la “comunicazione visiva” di pertinenza in modo tale da poter se del caso chiedere agli sponsor un contributo a titolo di “pubblicità” o di “promozione”.
Corollario: forse il canone RAI potrebbe addirittura essere abolito.

E via così.

Attenzione: i provvedimenti – questi e gli altri necessari o comunque opportuni e qui non considerati anche per ragioni di spazio – vanno pianificati e perseguiti e realizzati a livello europeo, almeno.
E’ possibile, non solo perché le federazioni sportive dei diversi stati potrebbero accordarsi tra di loro, ma anche perché così sarebbe comunque quando l’Unione Europea dovesse acquistare un senso, e disporre dunque di una “rete” di squadre e di società sportive assolutamente omogenea.
Infine: non potrebbe essere questo un modo per realizzare quella Unione che appare ancora di là da venire?