DALLAS 1963, IL COMPLOTTO IN FUMO (II)

di Roberto Poggi -

Chi era l’assassino di John Kennedy? Un fanatico comunista o una marionetta manovrata da poteri occulti? In realtà Lee Owald era uomo mentalmente disturbato e un assassino solitario, così come Jack Ruby, il “giustiziere” che lo freddò pochi giorni dopo l’arresto.

Oswald non fu una marionetta manovrata da una mano occulta, ma un giovane tormentato e solitario, spinto all’esaltazione da confusi ideali antisistema attraverso cui sperava di trovare un senso alla propria esistenza. L’instabilità, la frustrazione, la disperata ricerca di una rivalsa furono il filo rosso della sua vita e il movente delle sue scelte più enigmatiche.
Suo padre, Robert Edward Lee, un assicuratore reduce della grande guerra, morì improvvisamente per un attacco cardiaco nel 1939, un paio di mesi prima della sua nascita, sua madre, Marguerite Claverie, non seppe offrirgli né affetto né serenità. All’età di appena tre anni Lee raggiunse il fratello Robert junior e il fratellastro John, nato dal primo sfortunato matrimonio di Marguerite con Edward Pic, in un orfanotrofio luterano di New Orleans. Le condizioni economiche di Marguerite migliorarono quando sposò il suo terzo marito, Edwin Ekdahl, un ingegnere originario di Boston più anziano di lei. Il matrimonio però entrò ben presto in crisi. Pur mostrandosi premuroso verso i figliastri, Ekdahl non riuscì a sopportare a lungo la gelosia morbosa di Marguerite e si vide costretto a chiedere il divorzio adducendo come motivazione la crudeltà mentale della moglie.
Lee che aveva sperato di trovare in Ekdahl il padre che non aveva mai avuto, stentò ad accettare il divorzio e iniziò a chiudersi in sé stesso. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza sballottato da una città all’altra per assecondare il ritmo convulso e disordinato della vita di sua madre, sempre alla ricerca di un nuovo marito e di un impiego meglio retribuito come infermiera. Già durante il periodo scolastico Lee diede segni di squilibrio rendendosi protagonista di episodi di aggressività. Una perizia psichiatrica disposta dalla scuola che frequentava a New York lo giudicò sofferente di una grave carenza affettiva che lo induceva a comportamenti maneschi e sociopatici. Nonostante la diagnosi allarmante, la madre si rifiutò di sottoporlo ad un adeguato percorso terapeutico e per sottrarsi alle ingiunzioni del giudice trasferì per l’ennesima volta il suo domicilio.

Oswald durante la ferma nei marine

Oswald durante la ferma nei marines

Dopo aver abbandonato la scuola, Lee, seguendo l’esempio del fratello Robert, si arruolò, nell’ottobre del 1956, nel corpo dei marine. Completò con successo il suo addestramento, distinguendosi nell’abilità nel tiro. Nel dicembre del 1956 all’esame finale sull’uso delle armi ottenne la qualifica di tiratore scelto, il livello intermedio tra quello più elevato di tiratore esperto e quello inferiore di tiratore. In occasione di un altro esame di tiro effettuato al termine della sua ferma nel 1959 non confermò il punteggio che aveva totalizzato tre anni prima, tuttavia appare indubbio che Oswald avesse le capacità sufficienti per centrare un bersaglio mobile da una distanza di meno di cento metri.
La vita militare non migliorò l’equilibrio mentale del giovane Lee che mostrò di adattarsi faticosamente alla disciplina. Finì al cospetto della corte marziale due volte, prima per essersi sparato accidentalmente ad un gomito maneggiando una pistola calibro 22 che deteneva nel suo armadietto in violazione del regolamento e poi per aver aggredito verbalmente uno dei suoi sergenti.
Con l’incarico di addetto radar fu assegnato a diverse basi aeree in patria e all’estero, tra cui quella di Astugi in Giappone, da cui decollavano gli aerei spia U2 per monitorare i cieli della Cina. Contrariamente a quanto spesso lasciano intendere i complottisti, Oswald non fu depositario di alcun rilevante segreto militare, ebbe soltanto le abilitazioni di sicurezza normalmente associate alla sua modesta mansione, che svolse, a detta dei superiori, con competenza. Durante la sua permanenza in Giappone più che ai segreti degli U2 Lee parve interessato alle donne, come testimonia una diagnosi di gonorrea contenuta nella sua cartella sanitaria.
Nel dicembre del 1958 fu trasferito presso la base aerea di El Toro in California, dove la sua infatuazione per la cultura russa e il sistema sovietico si fece di giorno in giorno più ostentata. I suoi commilitoni interrogati dalla commissione Warren tracciarono il ritratto di un ragazzo solitario, incapace di integrarsi in un gruppo, incline ad assumere atteggiamenti apertamente provocatori. Non faceva mistero del suo credo marxista, affermava di coltivare il sogno di trasferirsi in Unione Sovietica, si rivolgeva agli altri marine chiamandoli “compagni”, ascoltava dischi di canzoni russe a un volume così alto da infastidire più di una camerata, guadagnandosi il soprannome di “Oswaldovitch”. Dedicava il tempo libero alla lettura del Capitale e della Fattoria degli animali, al gioco degli scacchi e allo studio del russo. A El Toro sostenne un esame di lingua russa, ottenendo una valutazione piuttosto scarsa che tuttavia non lo indusse a desistere dal sogno di abbandonare gli Stati Uniti per la patria del socialismo reale. Nell’estate del 1959, adducendo la necessità di assistere la madre inferma, presentò una domanda di congedo anticipato, che gli fu concesso in settembre.

Oswald (al centro, con gli occhiali) con alcuni colleghi di lavoro a Minsk

Oswald (al centro, con gli occhiali) con alcuni colleghi di lavoro a Minsk

Dopo aver dismesso l’uniforme dei marines, Lee non trascorse più di tre giorni con la madre in Texas, poi raccolse i suoi magri risparmi e si imbarcò per l’Inghilterra con l’idea di iniziare una nuova vita e lasciarsi alle spalle un sistema sociale iniquo e disumano. Dall’Inghilterra passò in Svezia, dove attraverso il consolato sovietico di Helsinki ottenne un visto turistico di una settimana per Mosca. Alla guida dell’agenzia turistica statale che lo accolse a Mosca manifestò subito il desiderio di diventare cittadino sovietico. Alle dichiarazioni di intenti non esitò a far seguire gli atti formali, inviando una richiesta scritta al soviet supremo. Il KGB si incaricò quindi di valutare la sua buona fede, finendo per esprimere un parere negativo a cui Oswald reagì con un gesto estremo: si incise il polso sinistro e lo immerse in una vasca di acqua calda. Un’ora più tardi fu rinvenuto privo di sensi e soccorso.
Dopo un breve ricovero in un reparto psichiatrico, Oswald ottenne il permesso di rimanere a Mosca, le autorità sovietiche gli imposero però di rinunciare formalmente alla sua cittadinanza americana prima di considerare l’eventualità di accoglierlo nel novero dei cittadini dell’Unione Sovietica. Tale ricatto aveva lo scopo non solo di testare la sua determinazione, ma anche di dare il massimo risalto mediatico al suo gesto. Oswald non si sottrasse, di fronte al personale incredulo dell’ambasciata americana denunciò le colpe dell’imperialismo capitalista ed elogiò appassionatamente la patria del socialismo reale. Come il politburo si aspettava, la notizia della sua esibizione fece rapidamente il giro del mondo. Mentre la burocrazia sovietica taceva, Oswald non si risparmiò, concedendo alcune interviste a giornalisti americani per ribadire le profonde motivazioni ideologiche del suo gesto.
Tanto zelante impegno profuso nella propaganda anticapitalista fu ricompensato, non troppo generosamente, nel gennaio del 1960 con la concessione di un permesso di soggiorno illimitato, corredato da un documento di identità che lo definiva apolide, e con il trasferimento a Minsk, dove gli fu assegnato un impiego in una fabbrica di componenti elettronici. La concessione di un appartamento spazioso e di un lavoro leggero e ben retribuito gli fece ben presto dimenticare la delusione per non aver ottenuto la tanto agognata cittadinanza. Nel primo periodo della sua permanenza a Minsk annotò sul suo diario parole di soddisfazione per la svolta repentina che era riuscito a imprimere alla propria vita. La cordialità dei colleghi, l’ampia disponibilità di tempo libero da dedicare alla caccia, e soprattutto la gratificante sensazione di essere una volta tanto al centro dell’attenzione, circondato dalla stima per il coraggio e la coerenza ideologica che aveva dimostrato, contribuirono ad alimentare il suo ottimismo. Tuttavia con il passare dei mesi incominciarono ad affiorare sulle pagine del suo diario i primi segnali di disillusione di fronte alla cruda realtà del sistema sovietico: lo squallore della quotidianità, la scarsità di cibo, l’inefficienza produttiva, l’oppressione burocratica del partito, la vuota ritualità delle riunioni politiche e sindacali, l’onnipresente controllo poliziesco su ogni più minuto aspetto della vita dei cittadini.

Lee e Marina a Minsk

Lee e Marina a Minsk

Nel gennaio del 1961 le autorità sovietiche si dichiararono finalmente disposte a valutare la sua domanda di acquisizione della cittadinanza, ma Oswald aveva ormai smarrito tutto il suo iniziale entusiasmo, anziché esultare per la notizia si affrettò a contattare l’ambasciata americana a Mosca affinché lo aiutasse a fare ritorno negli Stati Uniti. Pur ottenendo dall’ambasciata la risposta positiva in cui sperava, Oswald dovette rassegnarsi a sopportare un lungo periodo di attesa dovuto alla resistenza della burocrazia sovietica a concedergli il permesso di lasciare Minsk per recarsi a Mosca e avviare le pratiche per il suo rientro in patria. In questo periodo di crescente insofferenza verso il sistema sociale che appena un anno prima gli era sembrato un paradiso, Oswald conobbe a un ballo, organizzato presso il palazzo della cultura, un’avvenente ragazza di diciannove anni, Marina Prusakova, che rimase affascinata dai suoi modi cortesi.
Per entrambi fu amore a prima vista, meno di un mese più tardi decisero di sposarsi. La loro vita coniugale inizialmente fu felice. Lee non nascose a Marina il suo desiderio di rientrare al più presto in patria e lei, priva, dopo la morte della madre, di forti legami famigliari, ansiosa di conquistarsi quel benessere materiale che a Minsk le sembrava irraggiungibile e quella felicità che le era stata negata durante l’infanzia e l’adolescenza, gli offrì il suo incondizionato appoggio di fronte alle infinite complicazioni poste sia dall’amministrazione sovietica, sia dal dipartimento di stato americano. Frutto dell’armonia di questo periodo fu la nascita di una bambina di nome June.
Dopo un calvario burocratico durato più di un anno, la famiglia Oswald poté finalmente raggiungere, nel giugno del 1962, gli Stati Uniti. Al suo arrivo in patria Lee fu interrogato dall’FBI per stabilire se potesse costituire una minaccia per la sicurezza nazionale. A parte l’atteggiamento arrogante dell’intervistato, gli agenti del Bureau non segnalarono nulla di preoccupante. Si accontentarono della promessa di Oswald di contattarli prontamente qualora funzionari del governo sovietico lo avessero avvicinato.
Seguendo il consiglio di suo fratello Robert, Lee decise di stabilirsi in Texas a Fort Worth, non lontano da sua madre. Il calore famigliare e il benessere materiale che Marina aveva sperato di trovare negli Stati Uniti si rivelarono un’illusione. Suo marito odiava la madre e mal sopportava le sue intromissioni nella loro vita, limitava anche i contatti con il fratello, aveva difficoltà a trovare un lavoro stabile e a provvedere ai bisogni più elementari di sua figlia. Le ristrettezze economiche finirono per minare l’armonia della coppia, nel comportamento di Lee riaffiorarono la frustrazione e l’aggressività. Gli episodi di violenza ai danni di Marina prima sporadici si fecero via via più frequenti.

I coniugi Oswald con la figlia June

I coniugi Oswald con la figlia June

L’unica valida protezione contro l’emarginazione e l’indigenza fu offerta agli Oswald dalla comunità russa di Fort Woth e di Dallas che quasi li adottò. Più dei vestiti, dei generi alimentari e del denaro che riceveva Marina apprezzava l’opportunità di sfogare nella sua lingua la propria profonda infelicità. I De Mohrenschildt furono tra i più solleciti nel prestare assistenza e sostegno alla giovane coppia. A George De Mohrenschildt, un benestante ingegnere petrolifero nato nella Russia zarista da una famiglia della piccola nobiltà, poi emigrata per sfuggire alla persecuzione comunista, Marina parve un’anima persa che non conosceva una sola parola d’inglese e la piccola June una bambina dall’aspetto malaticcio, costretta a vivere in un ambiente orribile. Persino per Lee, un ragazzo scostante ed introverso, privo di cultura e di prospettive, provò una certa compassione, nonostante sua moglie portasse talvolta addosso i segni evidenti delle percosse subite. Riconosceva a Lee l’attenuante della provocazione, Marina infatti non perdeva occasione per farsi beffe del marito, rinfacciandogli pubblicamente, con grande imbarazzo della signora De Mohrenschildt, il suo scarso interesse per il sesso.
Nell’ottobre del 1962, Lee lasciò Marina a Fort Worth presso una famiglia di amici di origine russa e si recò a Dallas dove trovò un impiego presso una tipografia. La breve separazione tuttavia non giovò alla coppia. Non appena tornarono a vivere insieme a Dallas i litigi si fecero più frequenti e violenti di prima, tanto che De Mohrenschildt si sentì in dovere di intervenire per aiutare Marina ad allontanarsi nuovamente dal marito.
Nel febbraio del 1963 in occasione di una cena organizzata dai De Mohrenschildt Lee e Marina conobbero Ruth Paine. Da poco separata dal marito Michael, un ingegnere impiegato presso la Bell Helicopter, con due figli in tenera età e un vivo interesse per la lingua e la cultura russa, Ruth trovò in Marina un’amica e una confidente. Ad avvicinarle non fu soltanto la lingua comune, ma anche la solidarietà tra mogli deluse dai propri mariti.
Mentre tra rotture e riconciliazioni il suo matrimonio attraversava una crisi sempre più profonda e irreversibile, Oswald sembrò trovare un conforto nelle sue ossessioni rivoluzionarie. Divorava la stampa socialista, le opere di Marx e di Lenin, oltre alle biografie di leader come Mao, Chruscev, Hitler e persino Kennedy, idealizzava la Cuba di Castro come la più pura applicazione dei principi del comunismo. L’idea di fuggire all’Avana e risolvere così d’incanto tutti i problemi che lo opprimevano gli appariva ogni giorno più seducente.

La fotografia in cui Oswald esibisce le sue armi

La fotografia in cui Oswald esibisce le sue armi

Non appena la sua situazione finanziaria migliorò, dopo l’estinzione del debito contratto con il dipartimento di stato che gli aveva prestato il denaro necessario al rientro in patria, Oswald tornò a coltivare la sua passione per le armi. Per aggirare i possibili controlli dell’FBI si fabbricò, mettendo a frutto le conoscenze acquisite durante un periodo di apprendistato presso un laboratorio fotografico di Dallas, una falsa carta d’identità, intestata ad Alek James Hidell, storpiatura del nome di battesimo di Castro, con cui acquistò per posta prima un revolver Smith & Wesson e poi un fucile Mannlicher-Carcano, residuato bellico dell’esercito italiano. Orgoglioso delle sue armi e ansioso di ostentare il suo credo rivoluzionario, Oswald si fece fotografare da Marina nel cortile della loro casa di Dallas con il revolver infilato nella fondina, brandendo in una mano il suo fucile e nell’altra copie di giornali di estrema sinistra: The worker e The militant.
La scarsa qualità di quelle fotografie, in cui si notano una riga sotto il mento di Lee ed ombreggiature apparentemente incoerenti tra loro, ha suggerito ai complottisti l’idea che esse fossero dei goffi fotomontaggi concepiti dai cospiratori per dimostrare la militanza estremista di Oswald e il suo legame con le armi che avevano ucciso il 22 novembre 1963 a Dallas. In verità non possono sussistere dubbi sull’autenticità di quelle fotografie. Una di esse riporta sul retro una dedica in russo che recita: “Cacciatore di fascisti, ha, ha, ha!”. Marina dichiarò alla commissione Warren di averla apposta lei. Una perizia disposta dall’HSCA confermò successivamente la compatibilità tra la grafia di Marina e quella della dedica. La riga ben visibile sotto il mento di Oswald non è il risultato di una sovrapposizione del suo volto al corpo di qualcun altro, ma un difetto prodotto dallo scadente apparecchio fotografico utilizzato da Marina per immortalare il marito. Fotografie di prova scattate con lo stesso apparecchio hanno prodotto lo stesso difetto. Le ombre discordanti sono invece da attribuire a un normale effetto della luce pomeridiana. Nelle stesse condizioni di luce, l’ombra del naso cade perpendicolarmente sul viso, mentre quella del corpo si allunga in obliquo rispetto al suolo.
L’esaltazione ideologica convinse Oswald a trasformare la dedica scherzosa di Marina in realtà. Per qualche tempo studiò la casa e le abitudini del generale Edwin Walker, un esponente dell’estrema destra segregazionista, poi una sera di aprile si appostò nel suo giardino e gli sparò attraverso una finestra. Un proiettile sfiorò la testa del generale, lasciandolo illeso. Oswald, che paragonava Walker a Hitler, confessò il suo gesto alla moglie che sconvolta gli fece promettere di non tentare altre folli imprese del genere, altrimenti lo avrebbe denunciato. Dal canto suo De Mohrenschildt sospettò che Lee fosse implicato nell’attentato, ma non riuscì a trovare alcuna prova se non l’espressione singolare che gli vide dipinta sul volto quando per provocarlo gli chiese se avesse sparato al generale.

Oswald intento a distribuire volantini a favore del regime di Castro

Oswald intento a distribuire volantini a favore del regime di Castro

Poco dopo il fallito attentato a Walker, Marina confidò a Ruth Paine di essere nuovamente incinta e lei si offrì di ospitarla a casa sua insieme alla piccola June finché Lee, che progettava di trasferirsi a New Orleans per trovare lavoro e allontanarsi dalle indagini della polizia di Dallas, non fosse riuscito a trovare una sistemazione adeguata.
A New Orleans Oswald fu ospitato da sua zia, Lillian Murret. Qualche settimana più tardi l’assunzione come manutentore dei macchinari in una fabbrica di caffè gli consentì di affittare un piccolo appartamento e di riunire la sua famiglia. Per un breve periodo gli Oswald sembrarono ritrovare una certa armonia. Marina declinò l’invito di Ruth Paine a trasferirsi a casa sua per tutto il tempo della gravidanza, preferì rimanere accanto a suo marito che per quanto si sforzasse di apparire ottimista circa il futuro aveva frequenti crisi depressive e non riusciva a rinunciare al sogno ossessivo di ricominciare una nuova vita a Cuba. Per realizzare tale chimera mise in atto una strategia così cervellotica e in apparenza incoerente da far ritenere ai teorici del complotto, in particolare al procuratore Garrison, che il suo comportamento fosse ispirato da nuclei deviati dei servizi di intelligence, interessati a trasformarlo nel capro espiatorio su cui far ricadere la responsabilità dell’assassinio di Kennedy.
Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, Oswald, utilizzando lo pseudonimo di Lee Osborne, fece stampare tessere e volantini con lo slogan “Giù le mani da Cuba” con cui creò una fittizia filiale del Fair Play for Cuba Committee. Scrisse alla sede centrale del comitato a New York lettere fantasiose in cui dichiarava di aver raccolto attorno a sé nella nobile battaglia a difesa del regime di Castro decine di iscritti.
Al tempo stesso, Oswald tentò di infiltrarsi in gruppi anticastristi, probabilmente con l’intento di raccogliere informazioni da offrire al governo cubano come prova della sua fede rivoluzionaria. All’inizio di agosto si presentò nel quartiere francese presso il bazar gestito da Carlos Bringuier, un feroce anticastrista, leader del Directorio Revolucionario Estudiantil, dichiarando di voler mettere a disposizione della lotta contro il regime di Castro la sua esperienza nella guerriglia, acquisita durante la ferma nei marine. A dimostrazione della propria buona fede gli donò la sua copia del manuale addestrativo del corpo dei marine.
Il maldestro tentativo di improvvisarsi spia tra le fila degli esiliati cubani ebbe vita breve. Pochi giorni dopo il loro incontro, Bringuier sorprese Oswald in Canal Street mentre era intento a distribuire volantini del Fair Play for Cuba Committee. L’alterco degenerò in una colluttazione che richiamò l’attenzione della polizia. Oswald, Bringuier e un paio di altri esuli furono arrestati. Le accuse contro i cubani furono ritirate, Oswald invece fu condannato a pagare una multa di dieci dollari per disturbo della quiete pubblica dopo aver passato una notte in cella. All’agente dell’FBI con cui chiese di conferire, dichiarò, probabilmente per consolidare la sua immagine di marxista militante, di appartenere alla sezione di New Orleans del Fair Play for Cuba Committee, presieduta da A. J. Hidell, la falsa identità che aveva utilizzato per procurarsi le armi di cui andava così fiero.

Il volantino in difesa del regime di Castro distribuito da Oswald per le strade di New Orelans

Il volantino in difesa del regime di Castro distribuito da Oswald per le strade di New Orelans

Uno degli argomenti più seducenti a sostegno della tesi secondo cui Oswald sarebbe stato una marionetta nelle mani di astuti cospiratori è fornito da un timbro a mano apposto sui volantini distribuiti in Canal Street. L’edificio al 544 di Camp Street, indicato dal timbro come sede del Fair Play for Cuba Committee, presentava un secondo ingresso su Lafayette Street che conduceva all’ufficio di un investigatore privato: Guy Banister, un ex agente dell’FBI, leader della lega anticomunista dei Caraibi, implicato nell’organizzazione di campi di addestramento per i guerriglieri anticastristi. La coesistenza tra le stesse mura di una fasulla sezione del Fair Play for Cuba Committee e di una reale organizzazione anticastrista, finanziata dalla CIA, è per i complottisti una prova inoppugnabile della direzione occulta del bizzarro comportamento politico di Oswald a New Orleans. In assenza di solide prove del legame tra Oswald e Banister non si può tuttavia escludere la casualità per spiegare il mistero dell’indirizzo posto in calce ai volantini. Oswald, che lavorava presso la Reily Coffee Company, situata nelle vicinanze dell’ufficio di Banister, potrebbe aver scelto del tutto casualmente di collocare al 544 di Camp Street la sede fittizia della sua velleitaria organizzazione pro Castro che aveva un solo militante: lui stesso.
Di fronte alla commissione Warren i massimi dirigenti di CIA, FBI e Secret Service giurarono che le loro rispettive agenzie non avevano mai reclutato né direttamente né indirettamente Oswald come agente o confidente. Certamente potrebbero aver mentito, la menzogna e la disinformazione fanno parte da sempre dell’arsenale dell’intelligence, a maggior ragione dei suoi spezzoni deviati, ma rimane inverosimile che un gruppo di congiurati ai vertici delle istituzioni americane abbia deciso di affidare le sorti di un ambizioso disegno eversivo a un individuo fragile, instabile e psicotico come Oswald. I fatti provano che un solo tiratore sparò in Dealey Plaza, dunque se congiura vi fu ebbe come unico esecutore Oswald e non una o più squadre di efficienti killer a cui un capro espiatorio dalla mente debole avrebbe garantito fuga e impunità.
Secondo la testimonianza di Silvia Odio, una giovane esule cubana, figlia di due oppositori incarcerati dal regime di Castro, l’approccio con Bringuier non sarebbe stato l’unico tentativo di Oswald di infiltrarsi nel movimento anticomunista. Una sera di settembre del 1963 avrebbero fatto visita alla Odio, presso la sua abitazione nei dintorni di Dallas, tre militanti anticastristi. Uno di essi si sarebbe presentato con il nome di Leon Oswald, successivamente avrebbe appreso che si trattava di un ex tiratore scelto dei marine, che si era guadagnato la stima dei suoi compagni dichiarandosi disposto a uccidere il presidente Kennedy per punirlo del suo tradimento della causa cubana. Dopo l’assassinio del presidente la Odio riconobbe in Lee Harvey Oswald quel misterioso Leon che aveva conosciuto qualche settimana prima. Lo stato emotivamente disturbato della donna, sottoposta a cure psichiatriche per una grave forma di isteria, indusse l’FBI a considerare inattendibile il suo racconto.

La mite condanna inflittagli a New Orleans fu probabilmente accolta con soddisfazione da Oswald in quanto contribuiva a qualificarlo come un perseguitato politico, fornendogli, almeno così si immaginava, un prezioso viatico per Cuba. Con altrettanto compiacimento dovette accettare l’invito di una emittente televisiva locale a partecipare a un dibattito con Bringuier, nel corso del quale fece sfoggio della sua fede marxista e del suo entusiasmo per Castro.
La maniacale determinazione di Oswald a lasciarsi alle spalle lo sfruttamento capitalistico da cui scaturivano tutti i suoi fallimenti allentava ogni giorno di più i suoi contatti con la realtà, impedendogli di valutare razionalmente le conseguenze dei suoi atti. Marina riferì alla commissione Warren che nell’agosto del 1963 il marito le confessò di progettare il dirottamento di un aereo su Cuba. Al netto rifiuto di Marina di diventare sua complice in un’azione così folle e disperata, Lee reagì elaborando una nuova contorta strategia.
Per mettere in atto il suo piano attese che Marina, ormai prossima al parto, si trasferisse a Irving, non lontano da Dallas, presso Ruth Paine. Alla fine di settembre incassò l’indennità di disoccupazione che aveva maturato e salì su di un autobus diretto a Città del Messico, munito di un visto turistico, di ritagli di giornale riguardanti il suo arresto e la sua fantasiosa militanza per la rivoluzione castrista e di alcuni documenti rilasciati dal governo sovietico durante la permanenza a Minsk. Sperava di ottenere dall’ambasciata sovietica il visto per tornare a Mosca insieme alla sua famiglia. Con quel visto si illudeva di poter strappare all’ambasciata cubana l’autorizzazione a transitare all’Avana durante il viaggio verso l’Unione Sovietica. Una volta giunto all’Avana era certo che avrebbe trovato il modo di rimanerci per sempre. Non intendeva infatti tornare nella tetra e opprimente Unione Sovietica, ma cominciare una nuova vita illuminata dal sole di Cuba, sotto la guida ispirata di Castro. L’attuazione del piano si rivelò però più complicata del previsto.
A Città del Messico Oswald fece la spola tra l’ambasciata sovietica e quella cubana, presentando ogni volta le sue credenziali di devoto militante comunista, senza tuttavia riscuotere troppo credito. Le autorità sovietiche presero tempo prima di concedere un visto a un soggetto che aveva lottato un anno intero per abbandonare la patria del socialismo reale, che si era mostrata generosamente disposta ad accoglierlo. Di riflesso le autorità cubane rifiutarono di assumersi la responsabilità di rilasciare un visto di transito per un viaggio che Mosca non sembrava affatto intenzionata ad autorizzare tanto presto.
Il breve soggiorno a Città del Messico costituisce uno degli episodi più intricati e controversi della vita di Oswald. Durante la guerra fredda la capitale messicana era, come Berlino, un coacervo di spie dei due blocchi. I funzionari d’ambasciata sovietici e cubani a cui Oswald presentò le sue richieste erano, sotto copertura, agenti di alto rango dei servizi di intelligence, niente affatto estranei per ufficio all’organizzazione di operazioni spregiudicate, che contemplavano anche l’omicidio politico. Tale accertata circostanza ha suggerito ai complottisti gli scenari più inquietanti in cui spesso le suggestioni si sostituiscono ai riscontri effettivi.

Il presidente della corte suprema Earl Warren

Il presidente della corte suprema Earl Warren

Gli investigatori della commissione Warren appurarono che Oswald in Messico non ricevette né denaro, né documenti utili a crearsi una via di fuga verso il blocco comunista dopo l’assassinio, tuttavia furono costretti a trascurare alcuni indizi. Presso l’ambasciata cubana Oswald parlò con Silvia Tirado de Durán, una fervente comunista messicana impiegata nella diplomazia castrista e indicata da alcune fonti come l’amante dell’ambasciatore, che si prodigò nel fornirgli assistenza. Prova di tanto zelo è la presenza del nome e del numero di telefono della Durán in un quadernetto rinvenuto tra gli oggetti personali di Oswald dopo la sua morte. Quando David Slawson e William Coleman, gli avvocati incaricati dalla commissione Warren di valutare l’esistenza di possibili mandanti internazionali dell’assassinio di Kennedy, si imbatterono nel nome della Durán si convinsero che la sua deposizione avrebbe potuto essere illuminante e preziosa. Chiesero quindi al presidente della corte suprema Earl Warren il permesso di interrogarla, ma dovettero rassegnarsi di fronte a un rifiuto categorico: in quanto notoriamente comunista la Durán era da considerarsi inattendibile. Inoltre, subito dopo la morte di Kennedy la polizia messicana si era già incaricata di interrogarla, senza ricavare alcun particolare che lasciasse supporre l’esistenza di un complotto. Probabilmente la decisione di Warren fu il risultato delle pressioni esercitate dalla CIA, preoccupata da un lato di allontanare il sospetto di un coinvolgimento di una potenza straniera nell’assassinio del presidente, e determinata dall’altro a non trovarsi costretta a rendere conto all’opinione pubblica americana dell’intensa attività di intelligence svolta in un paese amico come il Messico.
Nel suo recente libro, Anatomia di un assassinio, Philip Shenon ha raccolto più di un indizio su di una possibile fugace relazione tra Oswald e la Durán. Tale presunta relazione, peraltro smentita dalla stessa Durán nel corso di un’intervista rilasciata a Shenon, solleva dei sospetti, lasciando intravedere la capacità della CIA di intervenire efficacemente per orientare i lavori della Commissione Warren, ma non prova affatto che Oswald fu istigato da agenti sovietici o cubani ad uccidere Kennedy.

Marina Oswald con le figlie June e Rachel

Marina Oswald con le figlie June e Rachel

Oswald giudicò il viaggio in Messico un completo fallimento. Al suo rientro, con i pochi dollari che gli rimanevano prese in affitto, sotto falso nome, una stanza a Dallas, mentre Marina si rifiutò, almeno per il momento, di tornare a vivere con lui e rimase a Irving presso l’amica Ruth Paine. Privato dell’illusione di poter iniziare una nuova vita a Cuba, senza un lavoro, con un matrimonio in sfacelo e un’altra figlia in procinto di venire al mondo, Oswald si abbandonò alla disperazione. Trascorreva gran parte del suo tempo chiuso in camera a leggere libri presi in prestito alla biblioteca, senza impegnarsi troppo nella ricerca di un impiego. Durante il fine settimana raggiungeva Marina a Irving nel tentativo di riconciliarsi con lei. A scuoterlo dalla sua apatia intervenne Ruth Paine che gli segnalò un posto vacante presso il Texas School Book Depository. Il 16 ottobre Oswald fu assunto e sembrò ritrovare l’ottimismo. Pochi giorni dopo Marina diede alla luce la sua seconda figlia, Rachel. Nelle settimane successive, pur impegnandosi nel nuovo lavoro Lee non accantonò la sua convulsa attività politica: scrisse al partito comunista degli Stati Uniti, partecipò a riunioni in difesa dei diritti civili, aprì una casella postale per ricevere la corrispondenza indirizzata al Fai Play for Cuba Committee.
All’inizio di novembre l’FBI, a cui non erano passati inosservati né il viaggio in Messico, né l’attivismo pro Cuba, si presentò a Irving presso l’abitazione di Ruth Paine per aggiornare il suo dossier su Oswald. L’agente speciale James Hosty, incaricato di quella visita di routine a un soggetto sospetto per le sue frequentazioni, ma di cui l’FBI ignorava l’indole violenta, non trovando Oswald in casa si limitò a parlare con Marina che rimase turbata da quel colloquio.
Quando Oswald apprese della rinnovata attenzione dell’FBI nei suoi confronti reagì in modo scomposto, recandosi personalmente presso la sede del Bureau a Dallas. All’addetta alla reception, che in seguito lo avrebbe descritto come un pazzo dall’aspetto pericoloso, consegnò una nota di protesta in cui ammoniva l’FBI a smettere di importunare sua moglie, altrimenti avrebbe preso non meglio specificati provvedimenti. L’agente Hosty, oberato di lavoro, probabilmente non vide quell’appunto fino al 24 novembre, due giorni dopo la morte di Kennedy, quando il suo capo, Gordon Shanklin, lo convocò nel suo ufficio per ordinargli di distruggerlo. E così fece, eliminando la prova che l’FBI avrebbe potuto fermare Oswald prima che assassinasse il presidente. Se le parole minacciose di Oswald fossero state lette per tempo, forse il suo nome sarebbe stato inserito nell’elenco dei soggetti pericolosi da sottoporre a stretta sorveglianza in occasione della visita presidenziale.

La coperta in cui il fucile di Oswald era avvolto nel garage di Ruth Paine e l’involucro di carta da pacchi con cui Oswald introdusse l’arma all’interno del deposito di libri

La coperta in cui il fucile di Oswald era avvolto nel garage di Ruth Paine e l’involucro di carta da pacchi con cui Oswald introdusse l’arma all’interno del deposito di libri

E’ impossibile stabilire esattamente quando Oswald maturò la decisione di uccidere il presidente. L’unico fatto accertato è che il giorno prima che Kennedy giungesse a Dallas Oswald ebbe l’occasione di riprendersi il suo fucile che era nascosto, avvolto in una coperta, nel garage di Ruth Paine. Giovedì 21 novembre, contrariamente alle sue abitudini, si presentò a casa della Paine senza avvisare. Dopo il lavoro aveva chiesto un passaggio in auto ad un collega, Wesley Buell Frazier, che abitava con la sorella ad Irving, a meno di un isolato dai Paine. Per scusarsi di quella visita inattesa, Oswald disse di sentirsi solo, dal momento che il week-end precedente Ruth gli aveva negato la sua ospitalità, adducendo come scusa la festa organizzata per il compleanno di sua figlia.
Prima di cena Lee giocò con June in giardino, poi prese da parte Marina e le chiese con le lacrime agli occhi di tornare a vivere insieme a Dallas. Benché Marina lo amasse ancora e intendesse riconciliarsi con lui, respinse con durezza la sua proposta. Dopo cena, mentre Ruth e Marina mettevano a letto i bambini, Oswald guardò la televisione, poi intorno alle nove, si ritirò per la notte visibilmente turbato. Il mattino seguente, pochi minuti dopo le sette, Lee fu svegliato da Marina, si vestì in fretta, prese un caffè, salutò la moglie, depose accanto al suo letto la fede nuziale e tutto il denaro di cui disponeva, 170 dollari, e uscì di casa prima che anche Ruth si alzasse. Nessuno lo vide entrare in garage, ma quando si presentò sotto casa di Frazier per recarsi insieme a lui al lavoro teneva sotto braccio un lungo pacchetto, fatto di carta da imballaggio e nastro adesivo. Alla curiosità del collega rispose dicendo che conteneva le bacchette per una tenda.
Frazier e sua sorella videro il pacchetto di sfuggita e quando furono chiamati a stimarne la lunghezza ipotizzarono dimensioni insufficienti a contenere un Mannlicher-Carcano. L’imprecisione di tale valutazione è per i complottisti un indizio che induce a dubitare che Oswald la mattina del 22 novembre introdusse all’interno del deposito di libri il suo fucile. Con tutta evidenza si tratta di un indizio inconsistente, poiché nell’angolo sud-est del quinto piano, accanto alla finestra da cui l’assassino sparò, fu rinvenuto un pacchetto di carta da imballaggio e nastro adesivo delle dimensioni adatte a contenere un fucile Mannlicher-Carcano smontato. Gli esami condotti dai tecnici dell’FBI riscontrarono sulla carta del pacchetto, dello stesso tipo di quella in uso presso il Texas School Book Depository, le impronte digitali di Oswald. Per contro, nemmeno l’ombra di una bacchetta per le tende fu ritrovata in tutto l’edificio.
All’arrivo a destinazione Oswald parve impaziente di portare il suo lungo pacchetto all’interno del deposito di libri. Contrariamente al solito, non attese che Frazier terminasse di parcheggiare l’auto per poi incamminarsi insieme a lui verso l’ingresso, preferì precederlo a passo svelto. Un collega, Jack Dougherty, lo vide entrare dall’ingresso posteriore del deposito, ma non fece caso se avesse o meno sottobraccio un ingombrante pacchetto di carta marrone.

Le finestre al quinto e quarto piano del deposito di libri pochi istanti dopo l’attentato

Le finestre al quinto e quarto piano del deposito di libri pochi istanti dopo l’attentato

Il magazzino a cui Oswald era addetto si trovava al quinto piano dell’edificio, il suo lavoro consisteva nel preparare i colli da inviare al locale spedizioni del piano terra. Per tutta la mattina svolse normalmente la sua attività. Pochi minuti prima di mezzogiorno, un collega, Charles Givens, vide Oswald al quinto piano con un blocco di appunti in mano. Qualche minuto più tardi, un altro collega, Eddie Piper, lo incrociò in sala mensa.
Carolyn Anderson, la cui testimonianza non fu inserita nel rapporto della commissione Warren, dichiarò nel 1978 di essere certa di aver visto Oswald in sala mensa a mezzogiorno e un quarto e poi una decina di minuti dopo davanti al portone di ingresso. Anche accettando senza riserve tale tardiva testimonianza, Oswald avrebbe comunque avuto il tempo di raggiungere il quinto piano e di fare fuoco tre volte sul corteo presidenziale.
Come abbiamo già ricordato, Oswald ebbe tempo sufficiente anche per ridiscendere dal quinto piano in sala mensa e incontrare il direttore Truly e l’agente Baker con la rivoltella in pugno. Baker descrisse l’espressione sul volto di Oswald nell’istante in cui gli intimò di identificarsi come sorpresa ma non impaurita. Non appena Baker e Truly uscirono dalla sala mensa Oswald acquistò una Coca-Cola dal distributore automatico e si avviò verso l’uscita principale, senza parlare con nessuno e senza neppure prendere la giacca. Un’impiegata, la signora Reid, lo incrociò nei corridoi del primo piano. Se si fosse diretto verso le uscite posteriori dell’edificio avrebbe incontrato i colleghi, Rackley e Romack, che si erano offerti di presidiarle. Giunto su Elm Street non ebbe difficoltà a confondersi tra la folla ancora scossa dalla tragedia a cui aveva appena assistito.
Il vicesceriffo Roger Craig fu tra i primi agenti di polizia ad accorrere al deposito di libri. Prima ai suoi superiori, poi all’FBI e alla commissione Warren, e infine anche al procuratore Garrison e alla stampa, riferì di aver visto, pochi minuti dopo la sparatoria una Nash Rambler station wagon di colore chiaro con un portabagagli sul tetto caricare a bordo tre uomini usciti di corsa dalla porta posteriore del deposito di libri. L’auto, guidata da un soggetto dai tratti ispanici, aveva poi fatto marcia indietro fermandosi davanti all’ingresso su Elm Street per caricare a bordo un altro individuo, identificato da Craig come Oswald. Il vicesceriffo suggerì inoltre che la station wagon che aveva visto potesse essere quella di Ruth Paine.

Interrogata dalla commissione Warren, la Paine confermò di possedere una station wagon, specificando però che si trattava di una Chevrolet verde chiaro del 1955 e non di una Nash Rambler. Il racconto di Craig, accettato senza riserva da alcuni complottisti, è inattendibile non solo riguardo all’illazione di un coinvolgimento, seppure indiretto, della Paine nella fuga degli assassini. Al momento del suo arresto Oswald aveva infatti in tasca un biglietto convalidato dell’autobus che aveva preso per allontanarsi da Dealey Plaza. Pertanto è da escludere che Oswald si sia dileguato aiutato da fantomatici complici.
Mentre Oswald si allontanava indisturbato dalla scena del delitto, gli agenti di polizia giunti in prossimità del deposito di libri incominciarono a raccogliere le deposizioni dei testimoni oculari. Howard Brennan fu tra i primi a raccontare ciò che aveva visto. Sulla base delle sue indicazioni, all’uno meno un quarto, fu diffusa via radio a tutte le pattuglie una descrizione del presunto attentatore: un individuo di razza bianca, sui trent’anni, di corporatura snella, alto circa un metro e ottanta per settantacinque chili di peso, probabilmente armato di fucile.
Facendosi largo tra la folla Oswald si incamminò per Elm Street in direzione est, a qualche isolato dal deposito di libri bussò sulla portiera anteriore di un autobus di linea fermo nel traffico, l’autista, Cecil McWatters, lo fece salire a bordo. Oswald pagò il biglietto e prese posto a metà della vettura, senza passare inosservato. Uno dei passeggeri, Mary Bledsoe, che sei settimane prima gli aveva affittato una stanza per un breve periodo, lo riconobbe e notò il suo abbigliamento trasandato, indossava una camicia sportiva marrone sporca e bucata sulla manica destra, e l’espressione tesa del suo volto.
Dopo appena un paio di isolati, Oswald spazientito dal procedere a passo d’uomo dell’autobus imbottigliato nel traffico chiese di scendere. L’autista prima di aprirgli la portiera perforò una seconda volta il suo biglietto, poiché non aveva usufruito per intero della corsa che aveva pagato.
Oswald raggiunse quindi a piedi la vicina stazione dei pullman della compagnia Greyhound con l’idea di prendere un taxi sino alla sua abitazione nel quartiere periferico di Oak Cliff. William Whaley, il tassista che per un dollaro lo condusse a destinazione, disse che Oswald rimase silenzioso durante tutto il tragitto e non fece nessun commento sulle diverse auto della polizia che incrociarono a sirene spiegate. Poco prima di giungere al 1026 di North Beckley Avenue, Oswald ruppe il silenzio per chiedere a Whaley di lasciarlo qualche isolato più avanti. Questo dettaglio fa pensare che Oswald passando davanti alla sua abitazione senza fermarsi volesse verificare che la polizia non lo avesse preceduto.

Kennedy poco prima di essere raggiunto dal terzo proiettile esploso dal deposito di libri

Kennedy poco prima di essere raggiunto dal terzo proiettile esploso dal deposito di libri

All’una Oswald entrò nella stanza che aveva affittato sotto il falso nome di O. H. Lee. Alla stessa ora il presidente Kennedy fu dichiarato morto. Era giunto al Parkland Hospital in condizioni disperate, gran parte dell’emisfero destro del cervello appariva devastata, il polso era debole, il respiro appena percettibile. Il primario, il dottor Malcom Perry, per tentare di facilitare la respirazione aveva praticato una tracheotomia in corrispondenza del foro di uscita del primo proiettile che aveva raggiunto il presidente. Ogni sforzo era stato inutile.
Alcune ore dopo la morte del presidente, il dottor Perry nel corso di una affollata conferenza stampa sembrò lasciare intendere che uno dei proiettili fosse stato sparato frontalmente rispetto al corteo. Tale affrettata e confusa conclusione, unita all’incisione che aveva allargato la ferita alla gola del presidente, rendendola non più facilmente identificabile come il foro di uscita di un proiettile, alimentò le fantasiose speculazioni dei complottisti. Ad esempio, Bisiach, senza esibire alcuna prova convincente, sposa la tesi secondo cui la ferita alla gola di Kennedy sarebbe stata provocata da un proiettile sparato dal parcheggio posto di fronte al corteo, in prossimità del cavalcavia ferroviario.
L’affittacamere, Earlene Roberts, intenta a seguire alla televisione le prime concitate notizie sull’attentato subito dal presidente, vide di sfuggita Oswald rientrare nella sua stanza, gli rivolse qualche parola senza ottenere alcuna risposta. Qualche minuto più tardi, lo notò in attesa alla fermata dell’autobus sul lato est di Beckley Avenue. In quel rapido passaggio nella sua stanza Oswald aveva avuto giusto il tempo di indossare un giubbotto e di prendere il suo revolver Smith&Wesson.
Intorno all’una e un quarto un agente di pattuglia nel quartiere di Oak Cliff, J.D. Tippit, un ex paracadutista che nella seconda guerra mondiale si era guadagnato una stella di bronzo per il coraggio dimostrato durante l’attraversamento del Reno, notò, poco oltre l’incrocio tra la decima strada e Patton Avenue, un soggetto che corrispondeva alla descrizione diffusa a più riprese nell’ultima mezz’ora dalla radio di servizio della sua auto.
Oswald non era rimasto a lungo alla fermata dell’autobus nei pressi del suo alloggio, si era incamminato prima in direzione sud, percorrendo Beckley Avenue, poi aveva svoltato verso est in Crowford street e poi ancora sulla decima strada, proseguendo sino all’incrocio con Patton Avenue.
Dal finestrino Tippit rivolse qualche parola ad Oswald, presumibilmente gli intimò di fermarsi per essere identificato, poi arrestò l’auto di servizio, aprì lo sportello e scese. Prima che l’agente potesse superare la ruota anteriore sinistra dell’auto, Oswald estrasse il suo revolver e fece fuoco tre volte. Tippit colpito al petto da tutti e tre i proiettili crollò a terra. Oswald si avvicinò al poliziotto in agonia e sparò per la quarta volta colpendolo alla tempia.

L’agente J.D. Tippit

L’agente J.D. Tippit

Almeno dodici persone, secondo le indagini della commissione Warren, assisterono alla sparatoria, tra di esse Helen Markham, una cameriera di 47 anni che lavorava al ristorante Eatwell, descrisse la morte di Tippit come un’esecuzione a sangue freddo. L’assassino, che la Markham nel pomeriggio del 22 novembre identificò in Oswald, dopo aver sparato volse il suo sguardo sconvolto verso la cameriera che si trovava ad appena una quindicina di metri. Così la Markham descrisse quell’interminabile istante: “Ho portato le mani alla faccia e chiuso gli occhi, perché ero certa che avrebbe ucciso anche me. Non riuscivo a gridare, non riuscivo a parlare, ero paralizzata”. Anziché rivolgere la sua arma verso la Markham, Oswald si allontanò incurante di buon passo.
La testimonianza della cameriera dell’Eatwell fu ampiamente strumentalizzata dai complottisti per tentare di scagionare Oswald dall’assassinio dell’agente Tippit e quindi di riflesso anche da quello del presidente Kennedy. Prima di presentarsi al cospetto della commissione Warren, la Markham fu oggetto di pressioni da parte dell’avvocato complottista Mark Lane, che nel corso di una conversazione telefonica, registrata in violazione delle leggi federali sulle intercettazioni, riuscì, tempestando l’ingenua testimone di domande incalzanti e tendenziose, a strapparle una descrizione dell’assassino di Tippit apparentemente incompatibile con i tratti di Oswald. Nel marzo del 1963, quando, in uno stato prossimo a una crisi isterica, la Markham depose di fronte alla commissione Warren prima negò di aver avuto una conversazione telefonica a proposito della descrizione dell’assassino di Tippit, poi l’ammise e ribadì la sua identificazione di Oswald. Ammise inoltre di aver mentito per darsi importanza, raccontando ai propri conoscenti di aver assistito da sola per circa venti minuti Tippit in agonia.
Anche considerando del tutto inattendibile la testimonianza della Markham le prove che Oswald uccise a sangue freddo l’agente Tippit sono solide e numerose.
Il tassista William Scoggins, che al momento della sparatoria stava consumando il pranzo a bordo della sua vettura parcheggiata in Patton Avenue, notò l’auto di Tippit affiancare un passante, poi udì tre o quattro colpi di pistola, allora scese dal taxi e vide un giovane con un’arma in pugno corrergli incontro. L’assassino in fuga passò così vicino a Scoggins che questi dichiarò di averlo sentito mormorare: “Povero stupido poliziotto!”. Condotto alla centrale di polizia, il tassista riconobbe in Oswald il giovane che aveva mormorato quelle parole.

Domingo Benavides, un meccanico che si trovava a bordo di un pick-up all’angolo tra la decima strada e Patton Avenue, non rimase impietrito come la Markham, accorse verso l’auto di Tippit e con la sua radio di servizio avvertì la centrale di polizia, poi raccolse due bossoli che l’assassino prima di fuggire aveva gettato in un cespuglio. Benavides, il cui nome stranamente non fu registrato né dalla polizia di Dallas né dall’FBI nell’elenco dei testimoni oculari, dichiarò agli investigatori della commissione Warren che non appena vide in televisione le immagini di Oswald lo riconobbe come l’uomo che aveva visto fuggire dal luogo della sparatoria.
Tardiva fu anche la testimonianza di William Arthur Smith, che si trovava a circa un isolato a est rispetto all’incrocio tra la decima strada e Patton Avenue. Vide Tippit cadere al suolo e un uomo armato allontanarsi di corsa. In un primo momento Smith decise, forse per paura, di tacere quanto aveva visto, poi qualche giorno più tardi, quando ormai Oswald era morto, cambiò idea e rilasciò la sua deposizione all’FBI. Pur esprimendo qualche perplessità riguardo al colore dei capelli, Smith finì per indicare in Oswald l’assassino di Tippit.
Due ragazze, Barbara Janette Davis, di 22 anni e madre di due figli, e sua cognata Virginia Davis di 16 anni, si precipitarono fuori dalla villetta all’incrocio sud-est tra la decima strada e Patton Avenue richiamate dal fragore degli spari e dalle urla della Markham, videro un uomo armato di un revolver che attraversava di corsa il giardino. Prima di saltare oltre una siepe e scomparire dalla loro vista, l’uomo in fuga scaricò il tamburo del suo revolver, lasciando cadere due bossoli. La sera del 22 novembre presso la centrale di polizia entrambe le ragazze identificarono con sicurezza Oswald.
Anche Ted Callaway, un ex marine che gestiva una rivendita di auto usate all’incrocio nord-est tra Patton Avenue e Jefferson Boulevard, e il suo dipendente Sam Guinyard udirono gli spari e istintivamente accorsero verso il luogo del delitto. A pochi metri da loro videro un uomo armato in fuga. Callaway gli urlò: “Ehi tu, dove diavolo vai?”. L’uomo parve esitare, poi borbottò qualche parola incomprensibile prima di riprendere la sua corsa. Giunti all’angolo tra la decina strada e Patton Avenue, Callaway e Guinyard trovarono il corpo senza vita di Tippit. Dopo aver aiutato a caricare il corpo dell’agente ucciso sull’autoambulanza giunta nel frattempo, Callaway salì a bordo del taxi guidato da Scoggins nel vano tentativo di raggiungere il fuggitivo. La sera stessa dell’omicidio né Callaway né Guinyard esitarono nell’identificazione di Oswald.

revolver Smith&Wesson con cui Oswald uccise l’agente J.D. Tippit

La Smith&Wesson con cui Oswald uccise l’agente J.D. Tippit

Altri quattro testimoni, Warren Reynolds, Harold Russell, Pat Patterson e L. J. Lewis, che si trovavano all’interno della rivendita di auto usate, videro un uomo armato che correva lungo Patton Avenue. Due di essi, Reynolds e Patterson, cercarono di inseguirlo, ma ben presto lo persero di vista. Interrogati dall’FBI due mesi dopo la sparatoria, Russell e Patterson riconobbero Oswald, Reynolds invece no, salvo poi ricredersi successivamente nel corso della sua deposizione alla commissione Warren. Lewis non ebbe ripensamenti, dichiarò in ogni occasione di aver visto l’uomo in fuga da una distanza troppo grande per poterlo identificare.
Le testimonianze raccolte dalla polizia di Dallas, dall’FBI e dalla commissione Warren, quasi tutte concordi nel collocare Oswald sulla scena dell’assassinio dell’agente Tippit, non scoraggiarono Mark Lane, che nel corso degli anni riuscì a scovare tre testimoni oculari, residenti nelle vicinanze dell’incrocio tra la decina strada e Patton Avenue, pronti a contestare la ricostruzione ufficiale e a rilanciare l’ipotesi del complotto. Acquilla Clemons dichiarò di aver visto dalla sua veranda due uomini accanto all’auto dell’agente Tippit prima che questi crollasse a terra. Nessuno dei due aveva tratti corrispondenti a quelli di Oswald. I coniugi Wright videro uno dei due uomini salire a bordo di un’auto grigia e l’altro allontanarsi di corsa verso Jefferson Boulevard.
La versione della Clemons e dei coniugi Wrigth è resa irrilevante non solo dalle dodici testimonianze contrarie e dal considerevole ritardo con cui fu fornita, ma anche dagli spregiudicati metodi investigativi di Lane. L’avvocato complottista non esitò a infangare la memoria dell’agente Tippit, un eroe di guerra, decorato più volte dalla polizia di Dallas, padre di tre figli, descritto dai colleghi come integerrimo, diffondendo un pettegolezzo, probabilmente raccolto in qualche bar, riguardante un incontro, avvenuto una settimana prima dell’assassinio del presidente nel night club di proprietà di Jack Ruby, tra Tippit e un importante attivista anti-Kennedy. Interrogato dalla commissione Warren, Lane si rifiutò di rivelare le sue fonti.
Né gli investigatori dello staff della commissione Warren, né i giornalisti di Dallas trovarono alcun riscontro oggettivo all’ipotesi di un qualche legame tra Tippit, Ruby e Oswald. Incuranti di tale mancanza, alcuni complottisti, tra cui Bisiach, non hanno tuttavia remore ad arruolare Tippit tra le fila dei congiurati.

Le dubbie testimonianze della Clemons e dei coniugi Wright furono accolte dal procuratore Garrison come un’insperata conferma dei suoi sospetti circa la manipolazione delle prove operata dal dipartimento di polizia di Dallas. La collocazione sulla scena del crimine di due uomini gli offriva una spiegazione finalmente plausibile del rinvenimento di bossoli di due differenti marche. A due marche di munizioni, pur dello stesso calibro, non potevano che corrispondere due armi e quindi due assassini e non uno solo come la polizia di Dallas, la commissione Warren e tutti i soggetti intenzionati a far sparire le tracce della congiura per uccidere il presidente Kennedy si erano sforzati di far credere. Tale equazione apparentemente convincente è smentita dai fatti.
Quando Oswald fu arrestato aveva con sé munizioni di marca Winchester Western e di marca Remington-Peters calibro 38. Pertanto non stupisce che quando Oswald fece fuoco sull’agente Tippit nel tamburo del suo revolver ci fossero munizioni di entrambe le marche. I periti balistici dell’FBI, Cortland Cunningham, Charles Chillion e Robert Frazier, accertarono che tutti i bossoli rinvenuti provenivano dal revolver acquistato da Oswald per posta sotto falso nome.
Ben più problematico si rivelò invece attribuire con certezza i quattro proiettili trovati nel corpo di Tippit all’arma che li aveva sparati. Né le munizioni Winchester Western, né quelle Remington-Peters erano ottimali per l’arma di Oswald, pertanto i proiettili tendevano a deformarsi in modo irregolare nel passaggio attraverso la canna, rendendo incerta qualsiasi comparazione. Soltanto uno dei periti consultati dalla commissione Warren, Joseph D. Nicol del dipartimento di investigazione criminale dell’Illinois, dichiarò di poter affermare con certezza che almeno uno dei proiettili estratti dal corpo di Tippit era stato sparato dal revolver di Oswald.

A indebolire la credibilità della ricostruzione fornita dagli inquirenti contribuì anche un’altra circostanza: dei quattro proiettili che avevano ucciso Tippit tre erano di marca Winchester Western e uno di marca Remington-Peters, mentre tra i bossoli rinvenuti due erano di marca Winchester Western e due di marca Remington-Peters. Tale incongruenza fu spiegata, senza ovviamente riuscire a fugare i sospetti dei complottisti, ipotizzando che un bossolo Winchester Western fosse andato perduto e che uno dei bossoli Remington-Peters rinvenuti fosse stato esploso in precedenza e fosse rimasto nel tamburo del revolver finché Oswald non lo aveva svuotato durante la sua fuga dopo aver ucciso Tippit.
Almeno uno dei testimoni oculari, Ted Callaway, affermò di aver udito cinque spari. Se ciò fosse vero, oltre ad un bossolo Winchester Western, sarebbe andato perduto anche un proiettile, andato a vuoto, di una munizione Remington-Peters.
La carente professionalità degli agenti del dipartimento di polizia di Dallas fornì ai complottisti ancora altri argomenti per alimentare i sospetti di maldestri depistaggi. L’agente J.M. Poe, accorso tempestivamente sulla scena del delitto, dichiarò in un primo momento di aver apposto le proprie iniziali sui due bossoli consegnatigli da Benavides, poi difronte alla commissione Warren, nell’aprile del 1964, negò questo particolare. Dal momento che sui bossoli repertati non compaiono né etichette, né lettere incise, i complottisti sono disposti ad accettare come vera soltanto la prima versione fornita dall’agente Poe, che denuncia un grossolano inquinamento delle prove, e non la sua successiva smentita. Non è tuttavia inverosimile che Poe abbia confuso le intenzioni con le azioni, abbia pensato di contrassegnare i bossoli e poi non lo abbia fatto.

carabina Mannlicher-Carcano rinvenuta al quinto piano del deposito di libri

La carabina Mannlicher-Carcano rinvenuta al quinto piano del deposito di libri

L’agente Poe non fu l’unico poliziotto di Dallas ad andare in confusione il 22 novembre 1963. Quasi negli stessi istanti in cui Tippit veniva freddato nel quartiere periferico di Oak Cliff, la minuziosa perquisizione del quinto piano del deposito di libri portava al rinvenimento prima di tre bossoli calibro 6,5 e poi dell’arma impiegata per attentare alla vita del presidente. Sotto una pila di scatoloni, il vicesceriffo Eugene Boone trovò, alle 13 e 22 minuti, un fucile dotato di un’ottica e di una tracolla in cuoio. Il capo della sezione omicidi, Will Fritz, chiese immediatamente al vicesceriffo Seymour Weitzman, noto tra i colleghi come esperto di armi, di identificare il fucile. Questi dopo una rapida occhiata lo riconobbe come un Mauser calibro 7,65 di fabbricazione tedesca. In seguito il vicesceriffo Roger Craig ricordò di aver notato la scritta “Mauser” incisa sul metallo dell’arma.
Si trattò banalmente di un errore di identificazione dovuto alla fretta e alla superficialità e non certo di una manipolazione delle prove per nascondere un complotto. Come dimostrano senza alcun dubbio gli esami balistici effettuati, il fucile che colpì a morte Kennedy era un Mannlicher-Carcano 91/38, calibro 6,5 di fabbricazione italiana. Le tracce sui bossoli rivenuti al quinto piano del deposito di libri e sul proiettile estratto, quasi intatto, dalla coscia del governatore Connally sono perfettamente compatibili con il Mannlicher-Carcano, matricola C2766, acquistato da Oswald per posta sotto falso nome.
Tali evidenze sono irrilevanti per i complottisti, secondo cui il fucile italiano sarebbe un’arma talmente imprecisa e inaffidabile da non poter centrare un bersaglio a meno di cento metri di distanza. Al contrario il Mauser tedesco sarebbe un’arma ideale per un tiro di precisione. Pertanto i congiurati avrebbero sparato al presidente con un Mauser, poi, avvalendosi di una capillare rete di complici, avrebbero fatto sparire l’arma tedesca per sostituirla con il fucile italiano riconducibile a Oswald. Nel frattempo si sarebbero preoccupati anche di rendere coerenti con il Mannlicher-Carcano di Oswald bossoli e proiettili rinvenuti.

Tale fantasiosa ricostruzione appare priva di ogni fondamento. La carabina Mannlicher-Carcano 91/38 non è affatto un’arma così inaffidabile come i complottisti amano descriverla. Bisiach, ad esempio, equivocando il linguaggio militare, la definisce “umanitaria” con l’intento di ridicolizzarne l’efficacia. In senso tecnico, il carattere umanitario di un’arma non è determinato né dalla sua inefficacia né dalla sua imprecisione, ma dalle munizioni che impiega. Quelle del Mannlicher-Carcano sono dotate di una camiciatura per evitare che il proiettile si frantumi, provocando ferite multiple e devastanti.
L’arma in dotazione all’esercito italiano ha caratteristiche del tutto analoghe a quelle delle carabine impiegate dagli altri eserciti europei nel secondo conflitto mondiale: garantisce il massimo della precisione sulla distanza di circa cento metri e può centrare un bersaglio ad oltre un chilometro. In altre parole, nessuna carabina militare, neppure quella del regio esercito italiano, ha prestazioni così scadenti da non essere precisa, affidabile e letale a una distanza di un centinaio di metri. Pertanto, i congiurati, ammesso e non concesso che siano esistiti, non potevano avere nessuna valida motivazione per preferire un Mauser a un Mannilicher-Carcano.
Come chiarì alla commissione Warren il maggiore Eugene Anderson, vicecomandante del comando tiratori di precisione del corpo dei marine, i tiri che avevano colpito il presidente al collo ed alla testa non richiedevano né una particolare abilità, né un’arma sofisticata. Lo specialista di armi da fuoco dell’FBI Robert Frazier aggiunse che Oswald non aveva avuto nessuna difficoltà a colpire il presidente con la sua arma da una distanza inferiore a cento metri, soprattutto grazie all’ausilio di un’ottica di produzione giapponese che, per quanto scadente e mal regolata, garantiva comunque quattro ingrandimenti.
L’errore di identificazione commesso dal vicesceriffo Weitzman non fu grossolano. In effetti, il Mauser e il Mannlicher-Carcano 91/38, noto fuori dai confini italiani anche con il nome di Mauser-Parravicino, si somigliano molto per forma, dimensioni e prestazioni. Soltanto un occhio molto attento avrebbe potuto distinguerli con sicurezza, resistendo alla tentazione, molto diffusa tra gli esperti di armi d’oltreoceano, di denominare “Mauser” qualsiasi carabina militare di fabbricazione europea. Assai meno giustificabile appare invece l’affermazione del vicesceriffo Craig riguardo alla presenza della scritta “Mauser” incisa sull’arma trovata al sesto piano del deposito di libri. Infatti, le carabine Mauser, di fabbricazione tedesca o svedese, riportano molto raramente tale incisione.

Il falso documento di identità, intestato ad Alek James Hidell, trovato nel portafoglio di Oswald al momento del suo arresto

Il falso documento di identità, intestato ad Alek James Hidell, trovato nel portafoglio di Oswald al momento del suo arresto

Durante la sua affannosa fuga lungo Jefferson Boulevard Oswald non fece nulla per passare inosservato. Il commesso di un negozio di scarpe, Johnny Calvin Brewer, che aveva appena appreso dalla radio dell’attentato al presidente e della sparatoria nel quartiere di Oak Cliff, notò un giovane dall’aspetto impaurito davanti alle sue vetrine. Non appena un’auto della polizia che stava percorrendo Jefferson Boulevard invertì la marcia e si allontanò, il giovane si rimise in cammino. Incuriosito da quel comportamento furtivo, Brewer decise di seguirlo. Un paio di porte oltre il negozio di scarpe si trovava un cinema, il Texas Theatre, Brewer vide il giovane entrare in sala senza preoccuparsi di pagare il biglietto, non ebbe quindi difficoltà a convincere la cassiera, Julie Postal, a chiamare la polizia. In attesa dell’arrivo di una volante, Brewer si premurò di controllare le uscite posteriori del cinema.
Alle 13,45 la radio della polizia informò tutte le pattuglie che un individuo sospetto era appena entrato nel Texas Theatre su Jefferson Boulevard. In pochi minuti più di una ventina di agenti conversero sull’obiettivo. Tutti gli accessi al cinema furono presidiati, la proiezione del film Un eroe di guerra fu bruscamente interrotta e in sala furono accese le luci per consentire a Brewer, salito sul palco in compagnia di alcuni agenti, di indicare l’individuo sospetto.
Oswald non si consegnò docilmente, prima che gli agenti riuscissero a immobilizzarlo estrasse il revolver che teneva infilato nella cintura e tentò di fare fuoco. Fortunatamente un agente riuscì a bloccare il percussore dell’arma con la propria mano. Una volta in manette, Oswald protestò a viva voce contro la brutalità della polizia.
Alla centrale, Oswald fu messo a confronto con Howard Brennan che disse di non riconoscerlo come l’uomo che aveva visto armato di fucile alla finestra del quinto piano del deposito di libri. In seguito Brennan ammise di aver mentito in quell’occasione per proteggere sé stesso e la sua famiglia dalle ritorsioni dei cospiratori, probabilmente comunisti, che avevano organizzato l’assassinio del presidente.
Tra le 14,30 del 22 novembre e le 11 del 24, Oswald fu interrogato a più riprese per un totale di circa dodici ore. Le domande che gli furono poste e le risposte che fornì non vennero né registrate né verbalizzate. Di quelle lunghe ore di interrogatori non rimangono che una memoria redatta nei giorni successivi alla morte di Oswald dal capitano Fritz e la dichiarazione resa dallo stesso capitano alla commissione Warren.

Informato del suo diritto a ricevere assistenza legale, Oswald rifiutò l’assegnazione di un avvocato d’ufficio e chiese di contattare John Abt, noto difensore degli esponenti dell’estrema sinistra americana e persino di soggetti accusati di spionaggio a favore dell’Unione Sovietica. Probabilmente Oswald aveva conosciuto la reputazione di Abt grazie alla rivista The Daily Worker a cui era abbonato. Le telefonate allo studio ed all’abitazione di Abt rimasero senza risposta.
Nel pomeriggio di sabato 23 novembre Oswald ricevette la visita di Louis Nichols, presidente dell’ordine degli avvocati di Dallas, che poté verificare che i diritti dell’accusato erano stati rispettati. Oswald ribadì a Nichols di ambire alla difesa di Abt, chiarì inoltre che se questi non si fosse reso disponibile allora si sarebbe orientato verso un avvocato membro dell’American Civil Liberties Union e soltanto come ultima scelta si sarebbe affidato a un legale di Dallas.
Anche senza l’aiuto dei consigli di un avvocato Oswald non si compromise, riconobbe di aver resistito all’arresto, ma respinse ostinatamente ogni altra accusa, ricorrendo alla negazione dell’evidenza delle prove a suo carico oppure a un silenzio sprezzante. In una breve dichiarazione rilasciata ai giornalisti che assediavano la centrale di polizia si definì un capro espiatorio.
Oswald non seppe spiegare perché fosse entrato in un cinema con una rivoltella infilata nella cintura, ma negò di averla usata quel giorno, sia contro l’agente Tippit, sia in qualunque altra circostanza. Il test dei nitrati, effettuato la sera del 22 novembre, risultò positivo sulla mano e negativo sulla guancia. E’ dunque certo che Oswald sparò prima del suo arresto. La piena compatibilità dei bossoli rinvenuti all’incrocio tra la decima strada e Patton Avenue con il suo revolver e le dichiarazioni dei testimoni oculari lasciano ben pochi dubbi sulla responsabilità di Oswald nell’omicidio di Tippit. D’altra parte, l’esito negativo della rilevazione di tracce di sparo sulla guancia di Oswald non lo scagiona affatto dall’accusa di aver assassinato il presidente Kennedy. Chi spara con un fucile risulta tendenzialmente positivo al test dei nitrati sulla guancia. Tuttavia può accadere anche il contrario. Non si può pertanto escludere che Oswald avesse sparato anche con un fucile prima di rifugiarsi nel Texas Theatre.
Oswald negò di possedere un fucile e disse di aver acquistato il suo revolver a Fort Worth. Le dichiarazioni di sua moglie Marina e i riscontri prontamente disposti dal capitano Fritz lo smentirono. Quando nel pomeriggio del 22 novembre gli investigatori della polizia di Dallas si presentarono a Irving presso l’abitazione di Ruth Paine, Marina dichiarò che suo marito conservava un fucile in garage. Gli agenti trovarono soltanto la coperta in cui era stato avvolto. Durante la perquisizione furono rinvenute anche un paio di fotografie che ritraevano Oswald armato di un revolver e di un fucile simile a quello ritrovato al quinto piano del deposito di libri. Marina confermò di aver scattato personalmente quelle fotografie. Quando il capitano Fritz gli mostrò le immagini compromettenti appena sequestrate Oswald sogghignò dicendo che si trattava di grossolani fotomontaggi.

Sugli ordini di acquisto per corrispondenza del revolver in possesso di Oswald al momento dell’arresto e del fucile Mannlicher-Carcano ritrovato al quinto piano del deposito di libri compariva la firma A.J. Hidell. Benché avesse nel portafoglio un falso documento d’identità, corredato da una sua fotografia, intestato ad Alek James Hidell, Oswald negò di aver mai fatto acquisti per corrispondenza con quel nome. Non volle nemmeno fornire spiegazioni su quel falso documento. I periti dell’FBI e del dipartimento del Tesoro affermarono che la grafia delle firme in calce agli ordini di acquisto delle armi era compatibile con quella di Oswald. Nel corso del suo ultimo interrogatorio, la mattina del 24 novembre, Oswald ammise di aver affittato presso un ufficio postale di Dallas la casella 2915, ma ribadì di non aver mai ricevuto un pacco indirizzato a Hidell. Tutti i documenti relativi alla spedizione delle armi riportavano come indirizzo del destinatario la casella postale 2915 di Dallas.
Le impronte digitali di Oswald furono trovate sui cartoni usati dall’assassino per preparare la sua postazione di tiro. Più problematica si rivelò invece l’analisi del Mannlicher-Carcano. Il tenente Day del dipartimento di polizia di Dallas non tardò a rendersi conto che il legno del fucile era troppo poroso per conservare nitidamente delle impronte digitali. Passò quindi a esaminare le parti metalliche finché trovò, in prossimità del grilletto, due impronte parziali. Poco prima della mezzanotte del 22 novembre, il Mannlicher-Carcano fu inviato ai laboratori dell’FBI a Washington, dove il professor Sebastian F. Latona condusse un esame più approfondito, concludendo che le impronte rilevate sulle parti metalliche erano latenti e non consentivano una sicura identificazione.
Prima di consegnare il Mannlicher-Carcano il tenente Day aveva sollevato con materiale adesivo un’impronta palmare in una parte del fucile inaccessibile quando è montato, cioè nella parte inferiore della canna , protetta da una copertura in legno. Essendo convinto che i rilievi sulle parti metalliche in prossimità del grilletto fossero sufficienti per giungere ad una identificazione, Day non aveva informato i colleghi dell’FBI di ciò che aveva trovato smontando il fucile. Quando, due giorni dopo la morte di Oswald, l’FBI avocò a sé l’inchiesta, Day inviò a Washington tutto il materiale in suo possesso, compreso il foglio adesivo con cui aveva staccato dalla parte inferiore della canna un’impronta palmare. Il professor Latona non ebbe allora difficoltà ad attribuire quell’impronta ad Oswald. La sua valutazione fu confermata da un’indagine indipendente condotta da Arthur Mandella, consulente del dipartimento di polizia di New York.
Molti anni più tardi furono rinvenute presso il dipartimento di polizia di Dallas le fotografie delle impronte parziali rilevate dal tenente Day sulle parti metalliche del Mannlicher-Carcano in prossimità del grilletto. Gli esami condotti su tali reperti con tecnologie più sofisticate di quelle disponibili negli anni ’60 dimostrarono che appartenevano anch’esse a Oswald.

Il tenente Day mostra ai giornalisti la carabina Mannlicher-Carcano rinvenuta al quinto piano del deposito di libri

Il tenente Day mostra ai giornalisti la carabina rinvenuta al quinto piano del deposito di libri

L’esito solo parzialmente positivo del test dei nitrati e quello negativo della rilevazione delle impronte digitali sul Mannlicher-Carcano non indebolirono i sospetti degli inquirenti nei confronti di Oswald che, oltre ad aver acquistato e detenuto le armi che avevano ucciso il presidente Kennedy e l’agente Tippit, non era in grado di giustificare il suo bizzarro comportamento dopo le 12,30 del 22 novembre. Alla domanda del capitano Fritz sulle ragioni che lo avevano spinto, dopo l’attentato al presidente, ad abbandonare il posto di lavoro senza avvisare il suo responsabile, Oswald rispose dicendo di aver ricevuto dal collega Bill Shelley l’invito a tornarsene a casa. Shelley negò di aver visto Oswald dopo mezzogiorno o in qualsiasi momento dopo la sparatoria in Dealey Plaza. Un altro impiegato del deposito di libri, James Jarman Junior, smentì l’alibi di Oswald negli istanti in cui il presidente veniva colpito a morte, affermando di aver pranzato da solo intorno a mezzogiorno e non trenta minuti più tardi in compagnia di Oswald.
Mentre le domande del capitano Fritz si infrangevano contro un muro di menzogne e di silenzi, i giornalisti presero d’assalto la centrale di polizia. Entro ventiquattro ore dall’assassinio del presidente più di ottocento giornalisti americani e stranieri raggiunsero Dallas, molti di essi non ebbero difficoltà ad accedere all’edificio in cui Oswald era detenuto. Secondo la testimonianza resa alla commissione Warren da un agente dell’FBI, i corridoi della centrale si presentavano affollati come la Grand Central Station di New York all’ora di punta o come lo Yankee Stadium in occasione di una finale. Cineoperatori, fotografi e giornalisti vagavano pressoché indisturbati per gli uffici alla spasmodica ricerca di immagini e di notizie sensazionali, intralciando il lavoro degli investigatori. Nel tentativo di placare le insistenze dei giornalisti e allentare il loro assedio ai locali della centrale, il capo della polizia Jesse Curry autorizzò, intorno alla mezzanotte di venerdì, una conferenza stampa. Circa un centinaio di giornalisti furono stipati in un locale sotterraneo dove le risposte di Oswald quasi si perdevano nel frastuono delle molteplici domande e delle grida dei fotografi e dei cameramen per ottenere una inquadratura migliore.
Il gestore di un night club di Dallas, Jakob Rubenstein, che dal 1947 aveva assunto legalmente il nome di Jack Ruby, non esitò a mescolarsi a questa folla di reporter. Come confidò alla sorella, l’assassinio del presidente lo aveva sconvolto più della morte dei genitori. Ardeva dal desiderio di guardare negli occhi l’uomo malvagio che aveva inferto un dolore così grande a Jacqueline e alla nazione intera. Nella mente sconvolta di Ruby si era imposta l’idea assurda che la colpa di un delitto tanto atroce sarebbe ricaduta sulla comunità ebraica a cui apparteneva. Del tutto incapace di distinguere le sue ossessioni dalla realtà, Ruby tra sabato e domenica mattina rimuginò dentro di sé alla ricerca di un modo per dimostrare all’America il patriottismo degli ebrei, salvandoli così dalla minaccia di una nuova persecuzione, senza tuttavia giungere a pianificare l’omicidio di Oswald. Molto probabilmente il proposito di vendicare il presidente Kennedy uccidendo il suo assassino nacque all’improvviso, senza premeditazione.

Ruby colpisce all’addome Oswald

Ruby colpisce all’addome Oswald

Domenica 24 novembre Ruby si recò in compagnia della sua adorata cagnetta Sheba presso gli uffici della Western Union per inviare 25 dollari a una sua spogliarellista che si trovava in difficoltà a pagare l’affitto. Come attesta il timbro stampigliato sul vaglia, erano le 11 e 17 minuti quando Ruby concluse l’operazione. Una volta fuori dall’edificio della Western Union, Ruby notò in fondo al viale, a poco più di trecento metri da lui, una folla di giornalisti e di curiosi davanti alla rampa di accesso al seminterrato della centrale di polizia. Senza curarsi della cagnetta che aveva lasciato in auto, si diresse, come sospinto da una voce interiore, verso quella folla.
L’abbandono del proprio bassotto da parte di un soggetto descritto dai conoscenti nelle dichiarazioni rese all’FBI come morbosamente legato ai suoi cani, a cui si rivolgeva chiamandoli “figli”, appare rivelatore di una assenza di pianificazione. Nemmeno la decisione di portare con sé quella mattina un revolver depone a favore della premeditazione, in quanto Ruby, un individuo violento e iracondo, cresciuto negli ambienti malfamati e malavitosi di Chicago, con un passato da buttafuori e diversi precedenti penali per reati minori, era solito circolare armato.
Il trasferimento di Oswald alla prigione della contea era previsto per le 10, ma alcuni contrattempi avevano impedito di rispettare quell’orario, reso noto ai giornalisti. Intorno alle 11,20 una settantina di agenti e alcune decine di giornalisti, fotografi e cineoperatori si accalcavano nel seminterrato della centrale di polizia in attesa di veder sfilare il presunto assassino del presidente. Nella notte tra sabato e domenica erano giunte telefonicamente alcune minacce di morte contro Oswald, ciò nonostante il capo della polizia Curry aveva disposto che la stampa e le televisioni potessero assistere al trasferimento del prigioniero. Le misure di sicurezza approntate furono applicate con una certa negligenza. Molti reporter dovettero identificarsi prima di accedere al seminterrato, altri invece furono fatti passare senza alcun controllo. Tra di essi si insinuò, senza avvalersi, almeno secondo la ricostruzione della commissione Warren, di nessuna complicità, Jack Ruby che riuscì a raggiungere indisturbato la porta dalla quale, alle 11,21, Oswald uscì scortato da tre detective. Oswald non poté percorrere più di dieci metri, Ruby, sgusciando tra un giornalista e un detective, gli si parò davanti, estrasse il suo revolver calibro 38 e fece fuoco una sola volta, urlando: “Hai ucciso il mio presidente, topo di fogna!”
Oswald si accasciò privo di conoscenza a causa della gravissima ferita riportata all’addome. Fu trasportato d’urgenza al Parkland Hospital, dove fu dichiarato morto poco dopo le 13.

Oswald morente viene trasportato al Parkland Hospital

Oswald morente viene trasportato al Parkland Hospital

L’infermità mentale di Ruby è ampiamente accertata. Durante la sua detenzione presso la prigione della contea di Dallas, Ruby diede, soprattutto dopo la condanna a morte in primo grado per l’omicidio di Oswald, evidenti segni di un profondo disagio mentale. Nell’aprile del 1964 tentò il suicidio prima procurandosi delle ferite con i cocci di un bicchiere, poi scagliandosi con violenza contro le mura della cella. A seguito di questi episodi di autolesionismo l’avvocato di Ruby, che nel processo di primo grado aveva senza successo impostato la strategia difensiva sull’infermità mentale del suo cliente, incaricò di una perizia il dottor Louis West, professore di psichiatria presso il Medical Center dell’università dell’Oklahoma. Dopo aver ascoltato a lungo le farneticazioni di Ruby sullo sterminio degli ebrei, ordinato dal governo di Washington come rappresaglia all’assassinio di Oswald, il dottor West lo giudicò affetto da una grave psicosi e bisognoso di cure ospedaliere. Un altro psichiatra di Dallas, Robert Stubblefield, incaricato dal giudice d’appello a esprimere un parere sulla salute mentale di Ruby, concordò con la diagnosi di West.
Qualche mese più tardi, all’inizio di giugno del 1964, il presidente Warren volle raccogliere personalmente la testimonianza di Ruby, che inizialmente si mostrò abbastanza lucido e razionale. Prima ancora di prestare giuramento, Ruby chiese di essere sottoposto all’esame della “macchina della verità” per fugare ogni dubbio sull’attendibilità delle sue affermazioni. Per conquistarsi la fiducia del testimone, Warren si impegnò, senza riflettere sulle implicazioni, a soddisfare tale richiesta. Ottenuta la rassicurazione che desiderava, Ruby fornì un resoconto lungo e contorto delle giornate dal 22 al 24 novembre. Alternando momenti di lucidità a momenti di concitazione che rendevano il suo racconto incoerente e difficile da seguire, negò sia di aver mai conosciuto Oswald, sia di aver fatto parte di un complotto per metterlo a tacere. Respinse con forza anche l’accusa di essere stato istigato a uccidere da esponenti della criminalità organizzata. Ribadì che la decisione di vendicare la morte del presidente Kennedy con il sangue di Oswald si era affacciata nella sua mente soltanto la domenica mattina, quando aveva appreso dai giornali che Jacqueline avrebbe dovuto affrontare il supplizio di tornare a Dallas per testimoniare.
Ruby stava parlando da meno di un’ora quando l’angoscia per la sorte del popolo ebraico, vittima in tutto il paese di un pogrom tanto immaginario quanto feroce, che non risparmiava neppure orrende mutilazioni ai bambini, unita al timore di essere ucciso se fosse rimasto a Dallas, offuscò del tutto la sua mente. Dopo oltre tre ore di allucinati sproloqui, il presidente della corte suprema dovette rassegnarsi a porre fine alla deposizione.

Foto segnaletica di Jack Ruby

Foto segnaletica di Jack Ruby

I teorici del complotto nel sintetizzare il contenuto delle dichiarazioni di Ruby pongono l’accento soltanto sui suoi timori per la propria incolumità, tacendo o minimizzando il suo stato di confusione mentale, al fine di lasciare intendere che la commissione Warren non avesse alcun interesse né ad ascoltare né a proteggere un testimone chiave. Tale accusa è confutata dai fatti. Nel luglio del 1964, Warren mantenne l’impegno che aveva assunto con Ruby incaricando i tecnici dell’FBI a sottoporlo al test del poligrafo. Alle domande cruciali Ruby fornì le stesse risposte che aveva dato mese prima, tuttavia il test non fu giudicato attendibile, in quanto i tracciati del poligrafo ricavati da un individuo psicotico, e quindi avulso dalla realtà, non potevano essere interpretati logicamente.
Dopo la condanna in appello all’ergastolo Ruby non visse a lungo, gli fu diagnosticato un tumore ai polmoni che lo uccise nel gennaio del 1967. La sua morte prematura accese la fantasia dei complottisti che non esitarono a evocare l’intervento della CIA o del crimine organizzato per eliminare un testimone pericoloso. Non esistono prove di un qualunque legame tra Ruby e la CIA o qualsiasi altra agenzia governativa. Il suo breve soggiorno all’Avana, nell’agosto del 1959, in compagnia di un giocatore d’azzardo, Lewis McWillie, non adombra né una militanza politica, pro o contro Castro, né una qualsiasi missione al servizio della CIA. Anche l’affiliazione di Ruby alla criminalità organizzata, considerata certa dai complottisti, è in realtà assai improbabile.
Benché autori come Bisiach, senza produrre alcuna prova convincente, accostino il nome di Ruby ai vertici di “cosa nostra”, nessuna inchiesta sul crimine organizzato negli Stati Uniti ha mai assegnato un ruolo di qualche rilievo allo psicotico gestore del Carousel Club di Dallas. Né i trascorsi con la giustizia, né la frequentazione di ambienti malavitosi bastano a trasformare Ruby in un “soldato” della mafia, pronto a immolarsi per ordine di qualche “padrino”. Jack Ruby fu un uomo mentalmente disturbato e un assassino solitario, esattamente come la sua vittima.

Per saperne di più:

Philip SHenon, Anatomia di un assassinio. Storia segreta dell’omicidio Kennedy, Milano, Mondadori, 2013.
Francois Carlier, Elm Street. L’assassinat de Kennedy expliqué, Paris, Publibook, 2008.
Vincent Bugliosi, Reclaiming history. The assassination of John F. Kennedy, New York, W.W. Norton&Company, 2007.
Diego Verdegiglio, Ecco chi ha ucciso John Kennedy, Roma, Mancuso Editore, 1998.
Jim Garrison, JFK sulle tracce degli assassini, Milano, Sperling Paperback, 1994.
Gianni Bisiach, Il Presidente. John Fitzgerald Kennedy la lunga storia di una breve vita, Roma, Newton Compton Editori, 2013.
http://www.johnkennedy.it (Studi e ricerche sull’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, sito curato da Federico Ferrero)
http://www.archives.gov/research/jfk/warren-commission-report/ (Rapporto della Commissione Warren)
http://www.archives.gov/research/jfk/select-committee-report/ (Rapporto dell’House Select Committe on Assassinations)
http://www.jdtippit.com/ (Sito commemorativo di J.D. Tippit)