DALLA GERMANOFILIA ALLA RUSSOFILIA? LA PAROLA A BENEDETTO CROCE

Un’intervista a Benedetto Croce di oltre un secolo fa riporta d’attualità la logica di ogni conflitto, quella che impone lo schieramento acritico con una parte e la condanna inappellabile dell’altra, pena l’accusa di intelligenza col nemico. Se è vero che in guerra la prima vittima è la verità, le parole di Croce – dedicate alla polemica sulla sua presunta “germanofilia” – aprono ancora oggi un salutare squarcio sull’idea di libertà.  

 

 

 

Benedetto Croce

Benedetto Croce

Pochi mesi dopo il coinvolgimento italiano nel primo conflitto mondiale Benedetto Croce rilasciò al quotidiano Roma (1° ottobre 1915) questa intervista intitolata “Germanofilia”, per chiarire definitivamente la sua posizione né pacifista né interventista ma da più osservatori ritenuta troppo vicina a Berlino. Al filosofo di Pescasseroli imputavano la mancata condanna della kultur tedesca, ritenuta all’origine del militarismo diffuso nella società tedesca, e di alcuni crimi di guerra compiuti dagli eserciti degli imperi centrali.
Pur con i dovuti distinguo, sembra di leggere in controluce le accuse di russofilia e putinismo che circolano dallo scoppio dell’attuale conflitto in Ucraina, con il corollario di censure nei confronti della letteratura e delle manifestazioni artistiche russe sul nostro territorio.
In questo breve testo, Benedetto Croce ci fornisce una lezione di pragmatismo e concretezza: pur evidenziando la “pedanteria” e la “grossolanità” teutoniche, non rinuncia a cogliere i limiti delle facili condanne (“i documenti difettano e le passioni sovrabbondano”), spingendosi ad auspicare che il conflitto possa cauterizzare i rischi di dissoluzione latenti nelle democrazie europee.

 

 

Ha letto gli articoli di Guglielmo Ferrero e di altri, nei quali si parla della sua “germanofilia”?

Sì, sì, li ho letti; e lascio dire. E mi rassegno a lasciarmi additare come “germanofilo”, mentre continuo da mia parte, sempre che ciò stimo opportuno, a segnare gli errori storici e scientifici che il signor Ferrero e altri scrittori del suo indirizzo vanno ripetendo sulla scienza, la filosofia e la filologia tedesche. Che cosa volete? Non credo che gli articoli del Ferrero facciano parte delle operazioni militari italiane, e che intorno ad essi sia doveroso e patriottico il silenzio. Mi sembra patriottico il contrario: correggere le fallaci asserzioni, che non giovano a nulla e tolgono credito alla nostra serietà.

Pure, parecchi pensano che l’efficacia della cultura tedesca sia stata assai dannosa all’Italia, e che sia giunto il momento di liberarsene per sempre.

Mi spiego benissimo che parecchi dicano così. E’ naturale che a parecchia gente le vie lunghe e difficili riescano faticose e che perciò preferiscano le più agevoli. Ma io sono un modesto discendente e prosecutore di quella scuola napoletana, che si formò prima del 1848 e che ebbe a suoi capi Francesco de Sanctis e Bertrando Spaventa, la quale procurò di affiatare il pensiero e gli studi italiani con la scienza germanica. Quella scuola ha dato frutti assai importanti, e, per mia parte, non saprei rinunziarvi.

Non c’è rischio che, a questo modo, vada smarrita, come dicono, l’originalità dell’ingegno italiano?

L’originalità consiste nel ben conoscere e stimare il lavoro altrui, e valersene per procedere oltre e far di meglio e di proprio. Sarebbe curioso che, per mantenersi originali, convenisse serbarsi verginalmente ignoranti.

Ma la cultura tedesca non ha avuto come conseguenza questa tremenda guerra, provocata dalla Germania e condotta da essa in modo feroce?

Nessuna teoria scientifica (se è veramente teoria e scienza) può determinare immediatamente, per logica inferenza, questa o quella azione concreta. La responsabilità della presente politica tedesca è degli uomini politici tedeschi, e del popolo, e anche degli scienziati, ma solo in quanto fanno, non già della scienza, ma della politica; e non è punto della scienza tedesca, che, come ogni vera scienza, è sempre superiore ai partiti politici e alle contese nazionali.

Mettiamo dunque la scienza tedesca fuori questione; e mi permetta un’altra domanda. E’ vero che Lei non era favorevole alla guerra dell’Italia contro gli Imperi centrali?

Questa è storia che si è svolta in piena luce e alla grande aria. Io era di quei moltissimi italiani (moltissimi, sebbene non tutti abbiano avuto l’occasione o il coraggio di parlare in pubblico), che non vedevano bene l’istigazione, che da molte parti si faceva, a precipitare l’Italia in una gravissima guerra per ragioni non chiaramente nazionali; e che perciò si erano assunti l’ingrato ufficio di avvocati del diavolo, affinché, se la guerra doveva accadere, accadesse solamente per vera e comprovata necessità nazionale. Ma io e i miei amici, nel giornale che pubblicavamo intitolato Italia nostra, non mancammo di protestare ripetutamente che la decisione ultima spettava a chi rappresentava lo Stato, e che, presa la decisione, quale che fosse stata, tutti avremmo ubbidito e collaborato all’impresa nazionale. E così abbiamo fatto, ciascuno secondo che gli è concesso. Il mio amico Cesare de Lollis, che dirigeva quel giornale, si è finanche (nonostante che egli abbia varcato la cinquantina) arrolato come tenente di fanteria. Ora la guerra c’è, e io non ricordo nemmeno più le passate polemiche. E niente mi dà tanto fastidio quanto i piagnoni e i recriminatori e gli allarmisti, perché, per mia parte, ho piena fede che usciremo con onore dall’impresa alla quale ci siamo accinti, e per la quale si è già sparso tanto nobile sangue.

E che cosa ne pensa Lei delle crudeltà, di cui sono stati accusati i tedeschi?

E che cosa ne so io? So soltanto questo che, nelle ultime guerre, l’accusa di crudeltà, col sussidio documentario di fotografie, spacciate come autentiche, è apparsa successivamente contri tutti i popoli: contro gl’italiani al tempo della guerra libica, contro i bulgari al tempo della guerra balcanica, e contro i tedeschi, al primo loro irrompere nel Belgio. Ricordo anche un vecchio e savio proverbio italiano: “In tempo di guerra, bugie come terra”. Ho visto solennemente confutate alcune delle maggiori atrocità, attribuite ai tedeschi: ecco qui, per esempio, un recente articolo del matematico e filosofo inglese Russel, intitolato Giustizia in tempo di guerra, che smentisce, con attestati di autorità belghe, l’esistenza della fanciulla belga, alla quale i soldati tedeschi avrebbero mozzato il naso e la cui storia pietosa aveva già fatto abbrividire gli inglesi. Un predicatore, che ne aveva discorso dal pulpito, ha dichiarato che farà ammenda, dallo stesso pulpito, per la calunnia da lui involontariamente divulgata e accreditata sul prossimo cristiano. Ho potuto verificare gli errori di lettura e di traduzione nei quali il professor Bédier è incorso nel suo opuscolo sui taccuini dei soldati tedeschi (diffuso a migliaia di copie anche in Italia), confrontando le traduzioni coi facsimili fototipici uniti all’opuscolo. Ma con ciò esprimo una cautela critica o un dubbio metodico, e non affermo fatti pei quali mancano documenti sicuri, proprio ora che i documenti difettano e le passioni sovrabbondano? Se la Germania si è resa rea di colpe contro l’umanità, oh non dubitate che dovrà espiarle, perché la storia è una grande giustiziera! Ma, fosse anche il modello di tutte le virtù umane, ora è nostra avversaria, perché ha sotto la sua protezione l’Austria, che conculcava i nostri interessi nazionali; e a noi spetta combatterla sui campi, non già condannarla in irregolari processi.

A ogni modo, i barbari procedimenti di guerra dei tedeschi non sembrano in rispondenza con la loro vantata cultura e civiltà.

Nessuno mai si era avveduto, prima della guerra, che i tedeschi fossero barbari e crudeli. Io sarei incline a spiegare in modo alquanto diverso il sentimento di antipatia e di ripugnanza, che suscitano molti loro atti. Ogni popolo ha i suoi particolari difetti nazionali, correlativi alle sue virtù, e quelli dei tedeschi sono, com’è noto, la pedanteria e una certa semplicità grossolana. Tutti i popoli avevano un tempo, e molti hanno ancora, il patibolo e il carnefice; ma solo i tedeschi sarebbero capaci di scrivere la “teoria” e il “manuale” di quell’arte. E, per intanto, hanno elaborato la teoria della guerra, riducendo a formole e precetti cose senza dubbio intrinseche alla guerra e inevitabili, ma che, esposte in quella forma, ripugnano. E, per pedanteria, esagerano ed eccedono; e, se veramente hanno commesso taluni degli atti crudeli che loro si attribuiscono, sarà stato, per l’appunto, per osservanza pedantesca di regole dedotte dal concetto della guerra e dalla teoria, astrattamente vera, che la sola efficace umanità della guerra consiste nell’inumanità, nell’essere terribile e sbrigativa. Mi torna in mente quel che soleva dire Silvio Spaventa: che i regolamenti degli ergastoli borbonici pei prigionieri politici erano altrettanto, e forse più severi, di quelli austriaci; ma che la grande differenza stava in ciò, che i carcerieri austriaci li osservavano rigorosamente, pur talvolta lacrimando sulla sorte dei prigionieri (vedere le Mie prigioni del Pellico), e i carcerieri napoletani, tra corruzione e bonarietà, li allentavano in molti punti li rendevano tollerabili. Del pari, il tedesco, se si accinge a un’azione non giustificabile sotto l’aspetto morale o legale, non sa idealizzarla e rivestirla di abili frasi, come usano altri popoli eleganti e più gentiluomini; e dice chiaro e tondo, come il signor Bethmann Hollweg, che quella è cosa riprovevole, ma che “necessità non ha legge”.

Vorrei anche domandarle quel che Ella pensa dell’ideale politico tedesco, aristocratico, statale, militaristico. Non le sembra inferiore e arretrato rispetto al nostro ideale democratico latino?

L’aristocratismo e il democratismo, come la gioventù e la maturità, come le varie età e condizioni della vita, hanno ciascuno forze e debolezze, virtù e vizi. Non sarebbe possibile spiegare in poche parole il processo nel quale erano entrati i popoli dell’Europa occidentale, francesi, inglesi, italiani: un processo centrifugo, che minacciava non lontana la dissoluzione dell’idea di Stato e di unità sociale a transitorio vantaggio dei singoli individui e dei singoli gruppi sociali. Un nostro scrittore politico napoletano, il senatore duca di Gualtieri, pubblicò in proposito un importante lavoro, l’anno scorso, qualche mese prima dello scoppio della guerra. E nemmeno si può in poche parole descrivere il processo inverso, processo centripeto, seguito dalla Germania, la quale, pure collaborando grandemente alla civiltà moderna, ha serbato vigorosissimo il senso della patria, dello Stato, della missione storica del popolo tedesco, e allo Stato ha subordinato l’individuo. Io non sono di coloro che credono al fatale avvicendarsi di civiltà aristocratiche, che via via si affinano in democrazie, e di democrazie che via via si dissolvono nella corruttela e cadono preda di nuove formazioni aristocratiche e militari. Ma tengo fermamente che, se i tedeschi dovranno ben apprendere qualcosa dalle democrazie dell’Europa occidentale, noi, a nostra volta, dovremo apprendere qualcosa dal severo concetto che i tedeschi coltivano dello stesso Stato e della patria. E mi pare che ciò stia già accadendo, per effetto stesso della guerra, per difenderci dalla preponderanza tedesca e salvare il sommo bene, che è la libertà nazionale. Se sarà così, non tutto il male sarà venuto per nuocerci. Usciremo dalla guerra con un sentimento più alto, più grave, più tragico della vita e dei suoi doveri; e distruggeremo nelle sue fiamme molte miserie della nostra politica degli ultimi decenni.