DALLA FINE DELL’URSS ALL’UCRAINA: TRENT’ANNI DI ILLUSIONI E ATTRITI

di Massimo Iacopi -

L’ebbrezza dei vincitori statunitensi di fronte ai timori e alle umiliazioni russe. Con in più il peso della geografia e della storia. Confronto fra due logiche imperiali dove tutto sembra concorrere a un confronto in “stile” Guerra fredda. Con un occhio ai tradizionali principi della geopolitica.

La storia comincia con la disintegrazione interna dell’URSS nel 1991 che gli Occidentali avrebbero potuto evitare, proprio per timore di vedere sparire la stabilità creata, non senza difficoltà, nell’ambito della guerra fredda. Henry Kissinger con la lucidità fornita dalla padronanza della storia e del realismo, vedeva due conseguenze ineluttabili al crollo degli imperi: “Gli sforzi messi in opera per approfittare della debolezza del centro imperiale e quelli spiegati dall’impero in declino per ristabilire la sua autorità sulla periferia”. Egli, in tal modo, ha profeticamente descritto il meccanismo che, nel giro di una trentina d’anni, ci ha portato all’invasione dell’Ucraina, da parte della Russia.

Illusioni contro umiliazioni

Il decennio degli anni ‘90 si potrebbe definire come quello dell’illusione occidentale e dell’umiliazione russa. In effetti, l’illusione si centrava principalmente nella speranza di una integrazione della Russia nel campo occidentale, che Washington considerava essenziale per far fronte alla crescita della potenza cinese a lungo termine. Era assolutamente da evitare che le due potenze terrestri potessero unirsi di fronte alla potenza talassocratica statunitense, secondo lo schema del geopolitico britannico Halford Mackinder. La Russia di Boris Eltsin fu quindi accolta nel Fondo Monetario Internazionale (FMI), nella Banca Mondiale e fece il suo ingresso nel club ristretto del G7, mentre la sua economia subì un trattamento da cavallo, ispirato dalla scuola neoliberale di Chicago: soppressione del controllo dei prezzi, liberalizzazione del commercio, privatizzazione delle imprese statali, il tutto a vantaggio degli oligarchi e a danno del livello di vita dei Russi, che subì un tracollo. Nel 1993, la NATO inaugurò una istituzione di collaborazione militare con quelli che non potevano o non volevano aderire all’Alleanza, chiamata Partenariato per la Pace (PPP), e alla quale la Russia aderì nel 1994. Fu così messo in opera un meccanismo di collaborazione che aveva il principale compito di sotterrare la guerra fredda.
Eppure, dietro questa apparente facciata occidentalizzata si nascondeva una realtà diversa. In effetti, la Russia continuava a percepirsi come una grande potenza, che, per questo motivo, voleva essere trattata dagli Stati Uniti come tale (in altre parole, da pari a pari), nell’ambito di un partenariato strategico che rispettasse i suoi interessi. La Russia non poteva rinunciare alla sua sfera di influenza – come dimostrato dalla definizione del concetto geopolitico di “straniero vicino”, nel quale Mosca poneva l’insieme delle repubbliche ex sovietiche – e che custodiva in sé i germi dell’inevitabile conflitto geopolitico con gli Stati Uniti. Ciò nondimeno, queste ambizioni si scontravano con quattro umiliazioni particolarmente difficili da accettare da parte russa.
La prima era il crollo della sua potenza. Come Stato successore della defunta URSS, la Russia recuperava il seggio permanente all’ONU, con annesso diritto di veto, e gli altri seggi nelle istituzioni internazionali, così come tutto l’arsenale nucleare. In queste condizioni Mosca si dimostrò tuttavia incapace di impedire agli USA – inebriati dalla propria iperpotenza – di agire a piacimento negli affari internazionali, di operare come “gendarme” globale, coltivando i propri interessi ed esportando i propri valori nei quattro angoli del pianeta per realizzare il progetto dell’America-Mondo.
La seconda umiliazione giunse dalla frammentazione territoriale, che fece regredire le frontiere russe ai limiti di quelle del XVII secolo, con la perdita dei territori conquistati da Pietro I il Grande e da Caterina II, fra i quali l’indispensabile Crimea, senza la quale Mosca vide svanire il suo accesso privilegiato al Mar Nero e al Mediterraneo.
Terza umiliazione, la società russa andò incontro a una terribile recessione. Iperinflazione e disoccupazione, debito estero abissale, fughe di capitali, crollo del rublo, scomposizione dello stato, alcoolismo, aborti, delinquenza: nulla sembrò risparmiare il nuovo Stato sorto dalle ceneri dell’URSS.
Ultimo, quarto oltraggio, fu la Cecenia, il cui tentativo di secessione armata mise in pericolo le sorti dalla Federazione Russa.
Tuttavia, il peggio doveva arrivare con la guerra del Kosovo. Non si dirà mai abbastanza sulla gravità dell’operazione militare, lanciata dagli USA con le forze della NATO, per strappare questa provincia ai Serbi, culla storica della loro nazione, nel nome del diritto all’autodeterminazione dei popoli, un principio decisamente corretto, ma, purtroppo, applicato a geometria variabile. Illegale – ma legittimo alla luce dei diritti dell’uomo – l’attacco contro un popolo storicamente vicino a Mosca, mise in evidenza l’impotenza russa a contrastare l’azione militare americana. Divenne sempre più difficile affermare che la NATO conservava una struttura puramente difensiva e che non rappresentasse, invece, il braccio armato dell’egemonia statunitense.

Realismo contro ideologia

E’ in queste condizioni che nel 1999 arriva al potere Vladimir Putin, patriota russo formato alla scuola del KGB, traumatizzato dalla fine della potenza sovietica. In realtà, una prima svolta aveva avuto luogo nel 1996 con l’arrivo alla direzione della diplomazia russa e quindi alla guida del governo, due anni più tardi, di Evghenji Primakov. Mosca aveva iniziato allora a guardare in direzione della Cina, dell’India, dell’Iran, altre potenze continentali. La guerra del Kosovo non farà altro che contribuire a un ulteriore deterioramento delle relazioni con l’Occidente. Ciò nonostante, i primi segni inviati dal giovane presidente potevano apparire positivi agli occhi di Washington, soprattutto dopo gli attacchi terroristi dell’11 settembre del 2001. Putin, in quel momento alle prese con il terrorismo ceceno, optò per un riavvicinamento con gli Americani, lanciati nell’operazione Enduring Freedom in Afghanistan. In tale contesto, gli venne richiesta la sua cooperazione e gli fu consentito di installare basi nei paesi dell’Asia centrale. A questa prima fase collaborativa seguiranno diversi accordi che tenderanno a configurare meglio il partenariato, fra i quali il Trattato SORT (Strategic Offensive Reductions Treaty) di disarmo strategico, sulla riduzione delle testate nucleari, firmato il 24 maggio 2002 e seguito, quattro giorni più tardi, dall’insediamento del Consiglio NATO-Russia.
Tuttavia, nonostante le buone premesse, ben presto vengono alla luce notevoli frizioni. L’uscita degli USA dal Trattato ABM nel giugno 2002 e la forzata invasione (illegale e illegittima) dell’Iraq, nel marzo del 2003, mettono in evidenza le smisurate ambizioni di Washington, come anche l’evidente impunità di cui gode. Nello stesso tempo i Russi si sentono minacciati nei loro interessi immediati. Oltre alla tragedia di Beslan, nel settembre 2004 – che segna l’apogeo della campagna terroristica dei Ceceni, che Putin aveva schiacciato nelle rovine di Grozny – gli “stranieri vicini” dei Russi sono preda di rivoluzioni colorate, specialmente in Ucraina, dove scoppia, sempre nel corso del 2004, la Rivoluzione Arancione. Non senza ragione, Mosca ha voluto vedere, nella caduta del potere pro-russo, l’azione sovversiva degli Americani attraverso le loro potenti ONG. E’ pur vero che, dalla Casa Bianca, il presidente George W. Bush aveva condotto una lotta ideologica in favore della democrazia, che descrisse in termini molto chiari nel discorso inaugurale del suo secondo mandato, nel gennaio 2005. La politica americana, secondo Bush junior, consisteva ormai nel “ricercare e sostenere il progresso di movimenti e di istituzioni democratiche in tutte le nazioni e in tutte le culture, con lo scopo ultimo di mettere fine alla tirannide nel mondo”. A Mosca, dove il potere putiniano aveva cominciato a serrare le viti, si resero perfettamente conto del senso del messaggio. Da un lato, come dall’altro, apparve evidente la rimessa in discussione del partenariato strategico.

E la NATO si allarga

Nel cuore del processo di uscita dalla Guerra fredda, ma anche nelle premesse che hanno condotto alla guerra in Ucraina, c’è il problema del supposto impegno fatto a Mikhail Gorbacev dagli USA di non estendere la NATO a Est. Nonostante le ripetute confutazioni dello storico americano Mark Kramer, una promessa verbale di non allargamento era stata effettivamente formulata da James Baker, Segretario di Stato di George Bush, nel febbraio 1990, nel momento dei negoziati sulla riunificazione della Germania. Se ne trova traccia nelle note scritte da Baker: “Germania unificata ancorata in una NATO cambiata (politicamente) – la cui giurisdizione non si estenderebbe verso Est.”, come riportato da Mary Elise Sarotte in 1989: the Struggle to Create Post Cold War Europe. Risulta altresì vero che in quello stesso momento la dissoluzione del Patto di Varsavia e dell’URSS era semplicemente inimmaginabile. E’ ancora più vero che questo dubbioso affare è diventato per i Russi una specie di mito fondante nei loro rapporti con l’Occidente. E l’essenza del problema risiede esattamente in questa promessa, secondo i Russi non mantenuta.
La NATO, dunque, si allarga. Un allargamento sostenuto da un asse Washington-Berlino-Varsavia, richiesto legittimamente dai paesi dell’Europa orientale che, forti della loro precedente drammatica esperienza, conoscono bene il carattere espansionistico di una grande potenza, conoscono il nazionalismo imperiale russo e ricercano pertanto la protezione degli USA. Questi, decisi a respingere la Russia il più a est possibile, non si tireranno indietro, seguendo le schema formulato da Zbigniew Brzezinski ed esplicitato in The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives (1997). Nello stesso anno 1997, la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca vengono, conseguentemente, autorizzate a candidarsi per l’adesione alla NATO secondo i criteri democratici ridefiniti nel 1995; l’adesione diventerà affettiva nel corso del 1999. Da quel momento l’ingrandimento della famiglia NATO continuerà con l’ingresso degli Stati baltici, della Slovacchia, della Romania, della Bulgaria, della Slovenia, della Croazia e dell’Albania, per concludersi nel 2017 con il Montenegro.
La posta in palio per gli USA era di primaria importanza. In effetti, la NATO consente di controllare gli alleati europei e di avere un piede sul Vecchio continente, senza il quale essi si troverebbero nella situazione che la geografia ha dato loro: un’isola continente tagliata dalla massa euroasiatica. Orbene, l’avanzata della NATO ha contribuito a riattivare nella controparte russa l’atavica paura dell’invasione. Vale la pena sottolineare che la Russia ha sì di che rallegrarsi delle ricchezze dell’Heartland, ma soffre di due mali geografici: il suo incapsulamento, che la separa dagli accessi ai mari caldi, da una parte, e la vulnerabilità del suo spazio territoriale, che non dispone di alcuna barriera fisica di protezione. L’Ucraina rappresenta quindi al tempo stesso la via di invasione verso la Moscovia e la porta verso il Mediterraneo: non è necessario essere grandi strateghi per capire l’importanza geopolitica di questa nazione, specie per i Russi. Qualche tempo fa, Jack F. Matlok Jr., vecchio ambasciatore americano a Mosca, ha affermato che “l’espansione della NATO costituisce la più profonda gaffe strategica fatta a partire dalla fine della Guerra fredda”.
L’allargamento del 2004, la Rivoluzione Arancione dello stesso anno, la politica neoconservatrice del “Regime Change” di George W. Bush, l’installazione di uno scudo antimissile in Polonia e in Romania (con il pretesto di contrare i missili iraniani) e la rimessa in discussione da parte degli Americani del Trattato ABM sono stati interpretati da Putin come i segni di un’ostilità crescente. In occasione della Conferenza sulla Sicurezza, tenutasi a Monaco di Baviera nel 2007, il Capo del Cremlino ha indicato la NATO, senza alcuna ambiguità possibile, come il nemico della Russia. Anche il presidente francese Jacques Chirac, verso la fine del suo secondo mandato, espresse la sua inquietudine di fronte a questa evoluzione, invitando a valutare la creazione di una struttura che coinvolgesse la Russia e l’Ucraina per garantirne la reciproca sicurezza. Ma Bush, a questo invito e ad altri provenienti da Paesi europei, rispose con un gentile ma fermo diniego.
Putin, a quel punto, decise di approfittare della determinazione degli Americani e della corta visione delle dirigenze europee. Il vertice della NATO tenutosi a Bucarest nell’aprile 2008 rifiuterà all’Ucraina e alla Georgia lo statuto ufficiale di candidate, che Washington voleva loro attribuire, proprio per il veto incrociato di Francia e Germania. Tuttavia, gli USA continueranno a lasciare la porta aperta a questi due Paesi, compresi nello spazio dello “straniero vicino” russo, nella speranza di poterne approfittare. A questo punto, a Putin è bastato attendere l’errore fatale del presidente georgiano Mikhail Saakashvili per ottenere nell’agosto 2008 il pretesto per un’invasione che spezzò la dinamica pro NATO di Tbilisi, strappandogli ben due province (Abkhazia e Ossezia del Sud). Il messaggio era chiaro: Mosca userà la forza per bloccare future adesioni. Ma in Occidente non si è dato il giusto peso al netto avvertimento. Bruxelles, almeno visibilmente, ha continuato a far finta di non capire. Lanciata nella sua politica di allargamento a tutti i costi e di esportazione della pax democratica, che si potrebbe definire anche come “imperialismo dolce”, l’UE non rinuncia all’ipotesi di far aderire nel suo seno l’Ucraina, con sovrano disprezzo dei più elementari interessi di sicurezza russi. L’Ucraina si trasforma, a quel punto, in una minaccia per Mosca, tanto più che l’adesione all’UE coincide, quasi temporalmente, con quella alla NATO. Prosperità, democrazia, protezione americana ai margini della sua frontiera: altrettanti pericoli che la Russia vede avanzare minacciosi contro di sé. Putin, in questo caso, ha la colpa di aver pensato che non ci sarebbe stata altra via d’uscita; da parte su ci aggiunse quel cinismo necessario a infrangere le regole della convivenza internazionale.

Le guerre per procura

Insediato alla guida di un governo forte, seduto sopra immense riserve di gas, arricchito dall’aumento dei prezzi del petrolio, consolidato da una restaurazione interna del suo Paese sul piano sociale, religioso e culturale, e capace di toccare le corde del patriottismo russo – condizione indispensabile per un ritorno in forza sulla scena mondiale -, Putin, spalleggiato dalla Cina, lancia il suo Paese in uno scontro con l’Occidente. Un combattimento che assume progressivamente un carattere ideologico sempre più marcato. In un discorso pronunciato nel 2013 al Forum di Valdai, il presidente russo denunciò i Paesi occidentali che a suo avviso, “adottano delle politiche che mettono sullo stesso piano le famiglie numerose e le coppie dello stesso sesso, la fede in Dio e il culto di Satana”. Da un punto di vista geopolitico, egli riprese per sé l’ideologia slavofona e le tesi euroasiatiche (sostanzialmente anti-occidentali) care al filosofo e politologo russo Alexander Dugin, per il quale l’inevitabile scontro fra civiltà avverrà fra la civiltà tradizionalista, da un lato e l’Occidente decadente, dall’altro.
Con il decennio 2010 la Russia di Putin entra in uno scontro progressivamente più forte e più ampio con l’Occidente, in un crescendo che porterà all’invasione dell’Ucraina. Il contesto appare favorevole, dal momento che gli USA iniziano a rinunciare al loro ruolo di gendarme del mondo con il presidente Barak Obama. In occasione della crisi libica, il Cremlino lascia passare all’ONU la risoluzione n. 1973 del 17 marzo 2011 che autorizza la Francia e il Regno Unito – saliti sul treno del neoconservatorismo proprio nel momento in cui gli Americani ne sono discesi – a intervenire a sostegno dei ribelli, ma senza impegno diretto sul terreno, nel rovesciamento del sanguinoso regime dell’autocrate di Tripoli. Il seguito risulta ben noto: Parigi e Londra, come anche i loro alleati Qatarini, non rispetteranno il mandato dell’ONU. La Russia, a quel punto, ha buon gioco nel gridare alla prevaricazione, anche se è lecito dubitare dell’atteggiamento naif dei dirigenti del Cremlino in tutta la questione. Con la guerra civile in Siria, Mosca passa dal “lasciar fare” al blocco delle iniziative occidentali, mettendo il suo alleato Bashar el Assad sotto la sua protezione, come lo dimostra il primo veto posto a partire dall’ottobre 2013 all’ONU e quindi intervenendo militarmente in suo favore a partire dal 2015. Nell’affare, la Russia riesce a vincere su tutta la linea, ad esempio quando Obama rinuncia a una operazione militare nel 2013. Infine, Putin passa all’azione diretta nel 2014, al fine di difendere i suoi interessi immediati nell’area dello “straniero vicino”, con l’annessione della Crimea e la Guerra per procura nel Donbass. Una crisi, conviene ricordarlo, che nasce dall’accordo di associazione proposto a Kiev dall’UE, che, da parte sua, sembrava incapace di rinunciare all’Ucraina, di fatto senza aver tratto alcun ammaestramento dai fatti della Georgia.
Altro punto capitale: l’estensione geografica dell’attivismo russo che ha riproposto quello dell’URSS degli anni 1960-70. Oltre alla Siria, l’influenza della Russia si fa sentire, ormai, in Egitto, in Algeria, nel “puzzle” libico e chiaramente in Africa. Ovunque gli Occidentali mostrano segni di regressione. Le sanzioni economiche del 2014 hanno dato un impulso supplementare al riavvicinamento della Russia con la Cina, mentre Mosca rimane essenziale nella risoluzione della questione siriana ed irakena. In definitiva, la Russia è ritornata a essere un attore fondamentale sullo scacchiere internazionale. Ormai si deve comunque trovare un accordo con Mosca. Donald Trump, per concentrarsi meglio sul pericolo cinese, aveva evidenziato una volontà di riallacciare, senza successo, i contatti con la Russia, e di riproporre quel famoso “reset” che anche Obama a suo tempo aveva tentato invano. In effetti, si trattava ormai di una tardiva resipiscenza. Di fatto, queste aperture sono state sempre interpretate come indizi di debolezza da Putin, che ha sempre rifiutato di accogliere la mano tesa. A tutto questo vanno aggiunti i numerosi “muri” presso il Consiglio Nazionale di Sicurezza, come al Congresso dei Rappresentati, che hanno contribuito a impedire alla Casa Bianca anche un minimo di riavvicinamento con Mosca. I pregiudizi negativi e reciproci rappresentano ostacoli difficilmente superabili in un tempo breve, da una parte e dall’altra.
In fin dei conti, con la sua aggressione all’Ucraina, diventata terreno di scontro degli imperi, Putin ha superato una nuova (ultima?) tappa del ritorno della potenza russa sulla scena mondiale e del suo rifiuto dell’attuale ordine mondiale immaginato da Washington. In effetti, le sue dichiarazioni al venticinquesimo Forum di San Pietroburgo, del 15 giugno 2022, poi quelle al vertice del 23-24 giugno dei BRICS, i nuovi Paesi non allineati, hanno reso flagrante le vere intenzioni del presidente russo: l’invasione dell’Ucraina è, dunque, solo un pretesto in un disegno di più ampio respiro, che persegue l’obbiettivo – con l’appoggio più o meno palese della Cina – della distruzione dell’unipolarismo del morente impero americano e della liquefazione della sua area periferica, denominata Unione Europea.