DA PRATILE A TERMIDORO, ASCESA E DECLINO DI ROBESPIERRE

di Roberto Poggi -

Chi credeva che il 1794 fosse il preludio di una stagione di pacificazione dovette bruscamente ricredersi. Nella visione di Robespierre e dei suoi più accesi sostenitori la virtù repubblicana ispirata dall’immortalità dell’anima non poteva essere disgiunta dall’inflessibile disciplina necessaria a infondere la giustizia popolare agli oppositori. Ma un agguato parlamentare porrà fine al regime del Terrore.

Stordita dallo squillare degli ottoni e dai canti patriottici di un coro di duemilaquattrocento voci, emozionata dalle fastose coreografie ideate dal pittore Jacques-Louis David, estasiata dalle parole ispirate pronunciate da Robespierre, in qualità di presidente di turno della Convenzione, una folla di circa cinquecentomila parigini partecipò, l’8 giugno del 1794, alla Festa dell’Essere Supremo. Per il calendario gregoriano era il giorno di Pentecoste, che commemora la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e quindi la nascita della Chiesa, per il calendario rivoluzionario era il 20 pratile dell’anno secondo, un giorno di catarsi collettiva attraverso la condanna dell’ateismo.
Nei giardini del palazzo delle Tuileries fu allestito un anfiteatro per contenere il coro e fare da sfondo al rogo simbolico dell’ateismo ed al disvelamento della Saggezza, al centro del campo di Marte fu eretta una imponente montagna di gesso e cartapesta, sormontata da una colonna alta quindici metri su cui si ergeva un Ercole colossale con in mano una statua rappresentante la Libertà. In entrambi gli scenari, Robespierre, splendidamente abbigliato con una redingote azzurra, una gran fascia tricolore ed un cappello piumato, fu al centro dell’attenzione, suscitando con i suoi sermoni l’ovazione del pubblico. Descrivendo i tratti morali del popolo rigenerato dalla rivoluzione ed illuminato dalla Saggezza ispirata dall’Essere Supremo affermò: “Siamo terribili nelle disfatte, modesti e vigili nei successi; siamo generosi verso i buoni, compassionevoli verso gli infelici, inesorabili verso i malvagi, giusti verso tutti”.
Il sincero entusiasmo popolare per il coraggioso sforzo di coniugare Ragione e Natura, Virtù repubblicana e Libertà fu testimoniato non solo dagli applausi, ma anche dalle centinaia di lettere di congratulazioni inviate a Robespierre da ogni angolo delle Francia. Alcune di esse raggiungevano toni addirittura adoranti: “Ammirevole Robespierre, fiamma, colonna, pietra angolare della Repubblica… sostegno della Patria, padre protettore del buon popolo.”; “Protettore dei patrioti, genio incorruttibile, Montagnardo illuminato che vede tutto, prevede tutto, sventa tutto…” Ed ancora: “Tu sei la mia divinità suprema, io ti guardo come un angelo custode…, come il Messia che l’Essere eterno ci ha promesso per riformare ogni cosa…”

Festa dell’Essere Supremo 20 pratile 1794

Festa dell’Essere Supremo 20 pratile 1794

Tra i deputati invece, costretti dal cerimoniale al ruolo di mute comparse ornate di spighe di grano e di fiori attorno al loro presidente nelle vesti di carismatico pontefice massimo del culto dell’Essere Supremo, non mancarono mugugni di dileggio e batture livorose. Bourdon de l’Oise disse minaccioso: “Non c’è che un passo tra il Campidoglio e la rupe Tarpea“, riferendosi alla roccia da cui nella Roma antica venivano gettati i traditori. Lecointre, un ex alleato di Robespierre, urlò con rabbia: “Ti disprezzo tanto quanto ti detesto”. Thuriot, un seguace di Danton scampato alla ghigliottina, fu udito mormorare: “Guarda quello stronzo. Non gli basta essere il padrone. Vuol essere anche Dio”.
Appena due giorni dopo le solenni celebrazioni dell’Essere Supremo, il sarcasmo di alcuni deputati si tramutò in sgomento per la propria incolumità quando Georges Couthon, un membro del Comitato di Salute Pubblica fedelissimo di Robespierre, presentò alla Convenzione, senza alcuna preventiva consultazione del Comitato di Sicurezza Generale, il testo di una nuova legge sui poteri del Tribunale Rivoluzionario.
Anche chi si era illuso che i roghi simbolici, le scenografie ideate da David ed i canti corali fossero il preludio di una stagione di pacificazione dovette bruscamente ricredersi. Nella visione di Robespierre e dei suoi più accesi sostenitori la virtù repubblicana ispirata dall’immortalità dell’anima non poteva essere disgiunta dall’inflessibile disciplina necessaria ad infondere il terrore a tutti i malvagi. Del resto i nemici della rivoluzione continuavano a proliferare. Il 4 Pratile, Henry Admirat, un impiegato della lotteria nazionale, aveva sparato contro il deputato Collot d’Herbois, senza colpire il bersaglio. Il giorno successivo una ragazza di sedici anni, Cécile Renault, era stata arrestata mentre tentava di introdursi, armata di due piccoli coltelli, nell’appartamento di Robespierre in rue Saint Honoré, presso la famiglia Duplay.
Il fallito attentato della Renault era stato preceduto e seguito da alcune lettere anonime contenti minacce di morte. Robespierre ne era rimasto sconvolto ed aveva riversato tutta la sua inquietudine in un sovraeccitato discorso di denuncia delle subdole trame controrivoluzionarie pronunciato alla Convenzione: “Calunnie, tradimenti, incendi, avvelenamento, ateismo, corruzione, carestia, sono stati prodighi di tutti i loro crimini; resta loro ormai soltanto l’assassinio, e poi l’assassinio, e poi ancora l’assassinio…Dicendo queste cose, affilo pugnali contro di me…”

Ritratto di Robespierre

Robespierre

Lo stato d’animo di Robespierre, cupo e sospettoso ai limiti dell’ossessione, ispirò la legge di pratile. Illustrandone il contenuto Couthon, che poteva vantare non solo un passato da avvocato, ma anche da terrorista a Lione, affermò: ”…l’indulgenza è un’atrocità…la clemenza è parricidio…” Muovendo da questo assunto, gli accusati meritavano di essere privati di ogni residuo diritto alla difesa. La presunzione di innocenza doveva essere cancellata. Per rendere più spedita la giustizia rivoluzionaria, l’esame delle prove e delle testimonianza veniva lasciato all’arbitrio dei giudici, a cui spettava soltanto il compito di stabilire se un accusato apparteneva o meno alla vasta schiera dei nemici del popolo. La pena prevista per ogni delitto di competenza del Tribunale Rivoluzionario era la morte. La legge stabiliva delle categorie di nemici del popolo talmente ampie e vaghe da potervi far rientrare chiunque. Dovevano essere puniti con la ghigliottina non solo coloro che avessero preso le armi o tramato contro la repubblica, ma anche chiunque avesse diffuso false notizie per dividere o turbare il popolo, chiunque avesse ispirato scoraggiamento, depravazione della morale, corruzione della coscienza pubblica, oppure arrecato pregiudizio alla purezza ed all’energia del governo rivoluzionario. Neppure i rappresentanti eletti dal popolo potevano sperare di criticare impunemente il governo. Un articolo della legge lasciava infatti intendere che al Comitato di Salute Pubblica ed a quello di Sicurezza Generale fosse riconosciuta la facoltà di tradurre i deputati al Tribunale Rivoluzionario, senza l’autorizzazione preliminare della Convenzione.
Alcuni deputati si sentirono personalmente minacciati dalla presunta abolizione di fatto di ogni immunità parlamentare. Il deputato della Charente Pierre-Charles Ruamps, tentò invano, arrivando persino a minacciare di farsi saltare le cervella, di ottenere un aggiornamento della seduta al fine di emendare il testo presentato da Couthon. Robespierre in qualità di presidente della Convenzione fu irremovibile: la lotta contro i nemici della repubblica era prioritaria rispetto all’assurda richiesta di rassicurazioni di alcuni deputati. Soprattutto per chi come lui era convinto in cuor suo che i più pericolosi nemici della Repubblica sedessero proprio sugli scranni della Convenzione. Fu sufficiente un suo invito all’unità per piegare la maggioranza al suo volere ed ottenere oltre all’approvazione della legge di pratile, senza indugi e senza modifiche, anche il rinnovo dei poteri in scadenza del Comitato di Salute Pubblica.

Georges Couthon

Georges Couthon

Il giorno seguente, Bourdon de l’Oise, interpretando le apprensioni di molti colleghi, tornò alla carica per ottenere maggiori garanzie formali rispetto ad eventuali ritorsioni da parte del governo nei confronti dei rappresentanti del popolo. Il deputato Merlin de Douai intervenne facendo notare che il diritto della rappresentanza nazionale di mettere in stato di accusa i suoi membri era inalienabile, pertanto ogni ulteriore rassicurazione era superflua. La Convenzione approvò questa affermazione e stabilì di non votare la proposta di Bourdon de l’Oise.
Rassicurati dalla rinnovata fiducia espressa dall’assemblea verso gli intenti e l’operato del Comitato di Salute Pubblica, Couthon e Robespierre non esitarono a passare al contrattacco. Nella seduta del 24 Pratile, Couthon respinse come atroci calunnie le accuse di Bourdon de l’Oise circa la volontà dell’esecutivo di minacciare i deputati. Dichiarò inoltre che il Comitato di Salute Pubblica era pronto a dimettersi se la fiducia dell’assemblea fosse venuta meno. Lo scrociare degli applausi a sostegno di Couthon spinsero Bourdon de l’Oise a balbettare le sue scuse. Si affrettò a ridurre le accuse pronunciate il giorno precedente ad una innocente richiesta di chiarimenti, che non aveva alcuna intenzione di mettere in discussione la fiducia nel Comitato di Salute Pubblica.
Non pago di tale imbarazzante marcia indietro, Robespierre fece il suo affondo. Respinse sdegnosamente la ritrattazione di Bourdon de l’Oise e lo accusò di voler dividere con le sue spregevoli insinuazioni la Montagna dal Comitato di Salute Pubblica, nonché di ambire a diventare un capo di partito. Bourdon de l’Oise tentò timidamente di difendersi, mentre Robespierre si lanciava in una furiosa arringa contro i calunniatori ed i cospiratori che minacciavano la Repubblica.
Quando Bourdon de l’Oise esasperato tentò di incalzarlo, sfidandolo ad esibire le prove delle trame che andava delineando ed a fare apertamente i nomi dei colpevoli, ottenne una risposta evasiva e minacciosa: “Ne farò i nomi quando sarà necessario. In ogni istante della notte, persino, ci sono intriganti che si industriano a insinuare nella mente degli uomini di buona fede che siedono sulla Montagna le idee più false, le calunnie più atroci…” Ancora una volta concluse il suo intervento con un accorato appello all’unità per salvare la Repubblica, che fu accolto da fragorosi applausi.

François-Louis Bourdon de l’Oise

François-Louis Bourdon de l’Oise

Bourdon de l’Oise non ebbe il coraggio di replicare. Merlin de Douai si affrettò a presentare le sue scuse, nel timore che le sue considerazioni sui diritti inalienabili dell’assemblea potessero essere state interpretate come una manifestazione di sfiducia verso il Comitato di Salute Pubblica. Robespierre benevolmente lo rassicurò, dichiarando di aver perfettamente compreso che lo scopo della sua mozione era contrastare quella di Bourdon de l’Oise. Merlin de Douai poteva dunque continuare a fare sonni tranquilli: non era da annoverare nella schiera dei cospiratori e degli intriganti, a differenza di altri come Tallien che si ostinavano a parlare in continuazione di ghigliottina per avvilire e turbare la Convenzione.
L’appello di Robespierre all’unità e la sua stoccata rivolta contro Tallien trovarono il pronto appoggio di un altro autorevole membro del Comitato di Salute Pubblica come Jacques-Nicolas Billaud, che si sentì in dovere di esortare la Convenzione ad aprire gli occhi contro gli uomini che diffondevano menzogne e timori infondati. Subito dopo Billaud prese la parola un altro membro del Comitato di Salute Pubblica, Bertrand Barère per spostare l’attenzione dell’assemblea dai nemici interni a quelli esterni. Dando sfogo alla sua indignazione lesse alcuni brani di un articolo pubblicato su di un giornale inglese che riportava la cronaca di un ballo in maschera in cui gli aristocratici londinesi si erano divertiti a vestire i panni dei sanculotti. Una dama travestita da Charlotte Corday, l’assassina di Marat, era uscita a sorpresa da un sarcofago con in mano un pugnale sanguinante ed aveva inseguito per tutta la serata, tra le risate generali, un malcapitato mascherato da Robespierre. Il macabro aneddoto rinfocolando l’odio per l’aristocrazia serrò i ranghi della maggioranza ed affermò l’idea, evidente agli occhi dei nemici oltre la Manica, che uccidere Robespierre equivalesse ad uccidere la rivoluzione stessa.
Gli interventi di Billaud e di Barère, che privarono Tallien della possibilità di replicare alle accuse subite, testimoniano, a dispetto delle ricostruzioni di comodo posteriori a termidoro, la coesione del Comitato di Salute Pubblica, nonché l’intatta autorevolezza di cui godeva Robespierre a pratile.

I primi a subire il rigore della legge di pratile furono gli attentatori Henry Admirat e Cécile Renault. I loro processi furono talmente sbrigativi che le motivazioni politiche dei loro gesti rimasero nebulose. Vasta fu invece la rete di complici individuata sulla base di vaghi sospetti, senza alcun riscontro oggettivo. Insieme a Cécile furono giustiziati suo padre, suo fratello e sua zia. In cinquantaquattro salirono sul patibolo indossando la camicia rossa riservata ai criminali più esecrabili come i parricidi e gli avvelenatori.
Nelle settimane successive il terrore si intensificò ulteriormente. Da una media di cinque esecuzioni capitali al giorno nel mese di germinale (marzo-aprile), si passò a diciassette in pratile (maggio-giugno) ed a ventisei in messidoro (giugno-luglio). In particolare dal 10 giugno al 27 luglio 1794 furono eseguite 1285 condanne a morte. Né la chiusura di tutti i Tribunali Rivoluzionari di provincia, ad eccezione di quello Orange nel Midi, impegnato nella repressione della sollevazione di Tolone, né il netto miglioramento della situazione militare riuscirono ad attenuare la stretta terroristica sulla Francia, voluta da Robespierre.
Il 26 giugno, appena una decina di giorni dopo l’esecuzione dei cinquantaquattro in camicia rossa, il generale Jourdan riportò a Fleurus una schiacciante vittoria sugli eserciti della coalizione controrivoluzionaria comandata dal duca di Sassonia Coburgo. La resa di Charleroi aprì a Jourdan la strada verso Bruxelles, che ai primi di luglio gli alleati furono costretti ad evacuare per ritirarsi oltre i confini del Belgio.
Mentre il boia Sanson faceva funzionare a pieno ritmo la ghigliottina e l’armate rivoluzionarie ritrovavano finalmente il loro slancio offensivo, alcuni deputati della Convezione vivevano nella continua angoscia di essere arrestati. Per darsi coraggio circolavano armati, disertavano le riunioni pubbliche e preferivano dormire a casa di amici, piuttosto che nel loro letto.
Tracciando nella seduta del 24 pratile il quadro della cospirazione senza indicare con precisione tutti i colpevoli, Robespierre involontariamente favorì il coagularsi delle forze a lui avverse. Quella repressione annunciata, ma rimasta in sospeso pose le premesse più feconde alla congiura per abbatterlo.

Thérésia Cabarrus

Thérésia Cabarrus

I più inquieti per la loro sorte e quindi i più determinati nel ricercare alleati disposti a sfidare Robespierre furono i terroristi richiamati dalle loro missioni in provincia, che sapevano di aver perso la stima e la fiducia del Comitato di Salute Pubblica. Tallien e Bourdon de l’Oise, destinatari delle allusioni tutt’altro che amichevoli di Robespierre nella seduta del 24 pratile, furono subito tra i più attivi. Per guadagnare il tempo necessario a tessere la tela della cospirazione, Tallien decise ancora una volta di interpretare la parte del patriota calunniato, si affrettò a scrivere a Robespierre ed a Couthon accorate lettere piene di parole di amicizia e di riconciliazione. Come probabilmente prevedeva non ottenne alcuna risposta, il suo passato lo condannava.
A Bordeaux Tallien aveva esercitato il suo potere di deputato in missione con ferocia. Non si era accontentato di tagliare la testa ai sospetti controrivoluzionari, si era spinto sino a spogliare le chiese del loro tesoro ed a strappare ai preti atti di abiura in aperta violazione del principio della libertà di culto. Il suo iniziale zelo fanatico d’un tratto si era mutato in un atteggiamento di mite clemenza dopo essere diventato l’amante di Thérésia Cabarrus, una seducente giovane di origine spagnola, ex moglie del marchese Devin de Fontenay. Dispensando, dietro pagamento, patenti di civismo alla nobiltà locale, la coppia aveva accumulato in breve tempo una fortuna. L’ostentazione di uno stile di vita principesco, finanziato dal peculato e dal ricatto, aveva finito per suscitare l’indignazione dei più sinceri patrioti, costretti ogni giorno a fare i conti con le privazioni imposte dalla guerra. Il Comitato di Salute Pubblica non aveva lasciato cadere nel vuoto accuse così gravi ed aveva richiamato Tallien a Parigi. Le sue giustificazioni alla Convenzione gli avevano risparmiato una accusa formale, tuttavia non avevano convinto fino in fondo Robespierre che in pratile aveva ordinato l’arresto della Cabarrus, che, oltre ad essere straniera e con un passato nobiliare, gli appariva sospetta a cominciare dal soprannome che si era guadagnata a Bordeaux: Notre Dame de Bon Secours. Dal carcere Thérésia fece pervenire al suo amante un lapidario biglietto per spronarlo all’azione: “Io muoio perché appartengo ad un vigliacco…”
François-Louis Bourdon de l’Oise era disprezzato dall’”Incorruttibile” almeno quanto Tallien. I meriti rivoluzionari che aveva acquisito partecipando prima alla presa della Bastiglia, poi all’assalto delle Tuileries, infine condividendo le posizioni più radicali assunte dalla Montagna, erano stati del tutto offuscati dalla sua missione in Vandea. Robespierre era solito compilare dei dossier riservati sui deputati, a proposito di Bourdon de l’Oise aveva scritto: “Si è coperto di crimini in Vandea dove si è concesso… il piacere di uccidere volontari di propria mano. Combina in sé perfidia e violenza”.

Joseph Fouché

Joseph Fouché

Un altro deputato con un compromettente passato era Joseph Fouché. Prima ancora di scagliarsi contro Bourdon de l’Oise e Tallien, Robespierre si era occupato di regolare i conti in sospeso con Fouché nella seduta del Club dei giacobini del 23 pratile. La loro conoscenza risaliva a prima della rivoluzione, ad Arras l’ambizioso avvocato e l’altrettanto ambizioso insegnante di scienze presso il collegio degli oratoriani avevano fatto parte dei rosati, un circolo culturale frequentato dagli amanti della poesia, degli svaghi letterari, dell’amicizia, del vino e delle rose. Eletto alla Convenzione nel collegio di Nantes, Fouché si era avvicinato prima ai girondini, poi, dando prova dell’opportunismo destinato a caratterizzare la sua lunga e travagliata carriera politica, si era allineato alle posizioni dei giacobini con il voto a favore della condanna a morte di Luigi XVI. Tale improvviso ravvedimento politico aveva rinvigorito la sua amicizia con Robespierre, consentendogli di diventare un frequentatore piuttosto assiduo dell’appartamento di rue Saint Honoré, dove aveva avuto modo di corteggiare, probabilmente più per calcolo che per amore, la sorella dell’”Incorruttibile”, Charlotte. Il progetto matrimoniale, inizialmente incoraggiato da Robespierre, era tuttavia svanito a causa della condotta scellerata di Fouché durante la sua missione a Lione. Il suo predecessore, Couthon, si era limitato ad accanirsi sui simboli della prosperità lionese. Nell’ottobre del 1793 aveva personalmente inaugurato, dopo aver pronunciato un violento discorso, la demolizione dei palazzi aristocratici affacciati su Place Bellecour. La Convenzione era rimasta delusa da un approccio così moderato e si era affrettata a sostituire Couthon con Fouché e Collot d’Herbois. Pur senza interrompere il programma di demolizione della città, che anzi era proseguito più spedito grazie all’impiego della polvere da sparo, i due deputati in missione si erano impegnati a lavare con il sangue l’onta della sedizione. Giudicando troppo lenta ed inefficiente la ghigliottina, avevano disposto che si facesse ricorso ai cannoni caricati a mitraglia per eseguire le condanne capitali. Tale metodo sbrigativo, capace di soddisfare l’impazienza rivoluzionaria, aveva prodotto in poche settimane quasi duemila vittime tra la borghesia lionese. Il teatro di queste atrocità era stata la Plaine des Brotteaux, sulle rive del Rodano, affinché i cadaveri insanguinati dei condannati, affidati alle acque del fiume giungessero come un macabro monito fino alle mura di Tolone, occupata dagli inglesi e dai controrivoluzionari.

L’eco dei mitragliamenti di Lione era giunta sino al Comitato di Salute Pubblica, suscitando l’indignazione di Robespierre, a cui alcuni patrioti lionesi si erano rivolti per denunciare gli eccessi della repressione. Nell’aprile del 1794, una decina di giorni dopo l’esecuzione degli hébertisti, l’ala più radicale ed estremista della rivoluzione, Fouché era stato richiamato a Parigi a rendere conto del suo operato. Intuendo le insidie del nuovo clima politico, prima di lasciare Lione Fouché si era premurato di inviare al patibolo il boia ed il suo aiutante, testimoni ingombranti del massacro che aveva perpetrato. Tale precauzione tuttavia non aveva rafforzato la sua posizione. La Convenzione, ancora scossa dall’eliminazione di Danton e di Hébert, aveva accolto con freddezza le sue giustificazioni, rinviandone l’esame al Comitato di Salute Pubblica. In un colloquio privato, svoltosi alla presenza di Charlotte, Robespierre aveva mostrato un tale disprezzo per le balbettanti scuse di Fouché da suonare non solo come una rottura ufficiale del fidanzamento, ma peggio come una sentenza di morte, da eseguire in data da destinarsi. Anziché attendere con rassegnazione l’atto di accusa che lo avrebbe condotto alla ghigliottina, Fouché, animato dalla forza della disperazione, aveva deciso di giocare d’anticipo, sfidando il suo potente avversario. Con incrollabile determinazione si era impegnato a tessere un’ampia rete di relazioni all’interno del Club dei giacobini, dove la brutalità di cui aveva dato prova a Lione era considerata da molti un merito patriottico. Grazie a questo abile lavorio, il 18 pratile era stato eletto a larga maggioranza alla presidenza del Club dei giacobini. Superato l’iniziale stupore, nessuno prima di allora aveva mai osato sfidarlo con tanta sfrontatezza, Robespierre aveva reagito nella seduta del 23 pratile. Prendendo a pretesto un reclamo dei patrioti di Nevers contro l’esecuzione di innocenti, aveva attaccato apertamente Fouché, che era stato inviato in missione anche in quel dipartimento. L’assemblea dei giacobini aveva accompagnato con fragorosi applausi l’invocazione alla difesa dell’innocenza in quanto prima virtù repubblicana, costringendo il presidente a balbettare qualche imbarazzata parola a sua difesa, prima di porre frettolosamente termine al dibattito. Dopo questo scontro pubblico, in cui l’”Incorruttibile” aveva ancora una volta usato il proprio immenso prestigio come un’arma per atterrare il suo avversario prima di finirlo, Fouché era scivolato nella clandestinità, non aveva più messo piede al Club di rue Saint Honoré, aveva disertato le sedute della Convenzione, pur continuando con discrezione a moltiplicare i contatti con numerosi deputati. A tutti andava ripetendo che Robespierre, Saint-Just e Couthon si accingevano a mettere in atto una nuova epurazione tra i banchi della Convenzione, ben più radicale di quella che si era abbattuta prima sui girondini, poi sui dantonisti ed infine sugli hébertisti.

Paul Barras

Paul Barras

Robespierre non aveva dato respiro alla sua preda. In una successiva seduta dei giacobini era tornato ad attaccare Fouché, prudentemente assente, invitandolo a giustificarsi per il suo operato in missione. Il presidente ormai latitante aveva inviato al Club una lettera in cui cortesemente declinava l’invito a giustificarsi prima che il Comitato di Salute Pubblica si fosse pronunciato. Questa fragile difesa, fondata sul rispetto del galateo istituzionale, offrì a Robespierre l’occasione per sferrare il 23 messidoro (11 luglio) un nuovo e micidiale attacco. Lo indicò senza mezzi termini come il capo della cospirazione che minacciava la repubblica, lo definì un “impostore vile e spregevole”, la cui condotta era una confessione di colpevolezza, un uomo le cui mani “…grondavano di rapine e di crimini”. L’assemblea dei giacobini non poté fare altro che deliberare l’espulsione del suo presidente come indegno. Tale marchio d’infamia che predestinava alla ghigliottina rese la predicazione di Fouché ancora più convincente. Altri ex terroristi come Barras, Fréron si mostrarono ben disposti a fare fronte comune con lui per tentare di salvarsi la testa.
Anche Barras e Fréron avevano tentato di riconciliarsi con Robespierre dopo essere stati richiamati a Parigi, nel maggio del 1794, dalla loro missione sanguinaria nel Midi. Oltre all’accusa di aver versato molto sangue innocente, insieme a quello impuro dei controrivoluzionari, pesava su di loro il sospetto di essersi arricchiti con il saccheggio di Marsiglia e di Tolone. Il breve colloquio si era svolto in rue Saint Honoré, nella camera di Robespierre mentre questi era impegnato nella sua meticolosa toilette quotidiana. Fréron aveva preso la parola per primo, smentendo con sdegno le calunnie diffuse a proposito della loro missione. Robespierre con il volto appena imbiancato di cipria aveva mantenuto un silenzio glaciale finché i due deputati non si erano congedati umiliati. Rievocando nelle sue memorie quell’espressione impenetrabile Barras scrisse: “Non ho mai visto nulla di così impassibile nel marmo ghiacciato delle statue o nel viso dei morti già seppelliti.” La ritrattazione dei principali accusatori di Fréron e di Barras aveva in seguito riabilitato i loro nomi in seno alla Convenzione ed al Club dei giacobini, tuttavia il silenzio minaccioso dell’”Incorruttibile” aveva continuato ad inquietarli come il presagio di un castigo imminente. Soprattutto dopo l’approvazione della legge di pratile, Barras e Fréron avevano attirato attorno a loro altri deputati, tra cui Curtois e Merlin de Thionville, preoccupati delle intenzioni repressive di Robespierre. La rosticceria Doyen sugli Champs Elysées ed il Caffè Corazza in prossimità del Palais Royal erano diventati i luoghi di ritrovo degli oppositori del regime in attesa di trovare il coraggio di agire.

Al gruppo dei cospiratori si unirono anche Carrier e Rovère. Carrier aveva superato in efferatezza qualunque altro deputato in missione. Inviato a Nantes nell’agosto del 1793 per punire i cosiddetti briganti vandeani, aveva applicato metodi ancora più sbrigativi dei mitragliamenti: le noyades, gli annegamenti di massa nelle acque della Loira dei sospetti di simpatie controrivoluzionarie, dei sacerdoti, delle suore, dei rivoltosi vandeani con le loro famiglie, bambini e neonati compresi. Le vittime, in totale tra duemila e quattromila ottocento a seconda delle stime, venivano caricate, incatenate a gruppi, su barconi dalla chiglia piatta che venivano affondati a colpi di mazza al centro del fiume. Chi tentava disperatamente di salvarsi gettandosi in acqua veniva massacrato a colpi di lancia e di sciabola. Talvolta gli aguzzini si divertivano a schernire le loro vittime incatenandole seminude a coppie in pose oscene. Poiché tale sistema di annientamento dei nemici della rivoluzione richiedeva carnefici dalla coscienza particolarmente indurita oppure ottenebrata, Carrier aveva creato la “Legione Marat”, composta da sanculotti spietati, ad essi aveva affiancato i cosiddetti “Ussari Americani”, un gruppo di ex schiavi di Santo Domingo, assetati di vendetta. Preferendo passare il suo tempo ad ubriacarsi, Carrier non aveva assunto direttamente il comando delle operazioni, ma lo aveva affidato a dei suoi luogotenenti senza scrupoli. Questa delega non gli aveva risparmiato l’esecrazione di Robespierre che tuttavia aveva deciso di non procedere immediatamente alla sua punizione. Al suo rientro a Parigi, grazie al prestigio di cui godeva tra gli hébertisti, era stato eletto al ruolo di segretario della Convenzione. Alla fine di marzo il suo nome non era comparso neppure sulla lista dei seguaci di Hébert da consegnare al boia. Nonostante ciò Carrier si attendeva da un giorno all’altro il castigo dell’”Incorruttibile”.
Le mani di Rovère non erano sporche di sangue, ma non erano meno colpevoli agli occhi di Robespierre poiché stringevano i beni che erano riuscite ad arraffare. Inviato in missione nel giugno del 1793 nel dipartimento appena costituito delle Bouches-du-Rhône, Rovère si era accaparrato così tanti beni nazionali, tra cui perfino un convento dei celestini a Sorgues, nei pressi di Avignone, da suscitare sospetti ed accuse a cui Robespierre non aveva esitato a prestare credito.

Louis-Antoine de Saint-Just

Louis-Antoine de Saint-Just

Il moltiplicarsi dei conciliaboli dei deputati si accompagnò ad un aumento delle tensioni sia tra il Comitato di Sicurezza Generale e Robespierre, sia all’interno del Comitato di Salute Pubblica. Nel mese di aprile Robespierre e Saint-Just avevano costituito uno speciale Bureau de Surveillance della polizia che riferiva direttamente a loro ed al Comitato di Salute Pubblica, determinando una rottura del delicato equilibrio istituzionale con il Comitato di Sicurezza Generale. Il timore, rafforzato dalla legge di pratile sulle giustizia rivoluzionaria, che si stesse delineando uno svuotamento dei loro poteri spinse Amar e Vadier, detentori del controllo sulle forze di polizia, a reagire. Per colpire il loro avversario agirono d’astuzia, ricorrendo alle allusioni, venate d’ironia, più che alle accuse a viso aperto. Nella seduta del 27 pratile Vadier presentò alla Convenzione un rapporto su di una vasta cospirazione appena scoperta, che coinvolgeva una mistica ultra settantenne ed i suoi adepti.
Un agente al servizio del Comitato di Sicurezza Generale si era infiltrato in una setta messianica che si riuniva in rue Contrescarpe, sotto la guida spirituale di Catherine Théot, detta la “Madre di Dio”. L’anziana visionaria, che in passato era stata anche internata in manicomio, profetizzava l’imminente venuta sulla terra di un Messia dei poveri che avrebbe ristabilito la Giustizia. Tra i frequentatori abituali di rue Contrescarpe figuravano Gerle, un ex monaco certosino, già deputato all’assemblea costituente, Quesvremont, il medico della famiglia Orléans, la marchesa di Chastenois e perfino la cognata del falegname Duplay che alloggiava Robespierre. Con consumata abilità Vadier trasformò il delirante misticismo della setta in un progetto politico eversivo, senza risparmiare battute salaci sui preti, sulla religione e sull’astinenza dai piaceri terreni, lasciò intendere che il Messia invocato dalla Théot fosse l’”Incorruttibile” in persona, strappando applausi e risate di intesa a molti deputati. Tale ironica allusione si fondava su di un elemento probatorio, molto probabilmente fabbricato ad arte, che Vadier non volle citare nella sua relazione, riservandosi di esibirlo al momento più opportuno. Nella perquisizione dell’appartamento di rue Contrescarpe era stata rinvenuta sotto un materasso una lettera della Théot indirizzata a Robespierre, definito “il Figlio dell’Essere Supremo, il Verbo Eterno, il Redentore del genere umano, il Messia designato dai profeti”. Vadier cautamente sorvolò anche su di un altro particolare compromettente. L’ex monaco Gerle aveva ottenuto un certificato di civismo grazie all’intercessione di Robespierre.
La seduta del 27 pratile si concluse con l’approvazione da parte della Convenzione del deferimento della Thèot e dei suoi complici al Tribunale Rivoluzionario con l’accusa di aver cospirato contro la Repubblica. Benché disgustato dalla messa in ridicolo del culto dell’Essere Supremo ed offeso dal mal celato attacco personale, Robespierre, in qualità di presidente della Convenzione, non poté opporsi a tale decisione dell’assemblea, ma non rinunciò comunque a reagire alla provocazione di Vadier, cadendo nella subdola trappola che gli era stata tesa. La sera stessa impose al Pubblico Ministero del Tribunale Rivoluzionario, Fouquier-Tinville, di consegnargli l’incartamento del caso Théot. Questa prevaricazione diede corpo all’accusa di essere di fatto un dittatore, capace di calpestare le deliberazioni della Convenzione.

All’interno del Comitato di Salute Pubblica, Collot d’Herbois, che aveva condiviso con Fouché la responsabilità dei mitragliamenti di Lione, e Billaud, che era stato vicino ad Hébert ed aveva accolto con disappunto l’introduzione del culto dell’Essere Supremo, ebbero finalmente un pretesto per attaccare apertamente l’”Incorruttibile”. Un altro membro del Comitato di Salute Pubblica, Barère, si era già schierato contro Robespierre, collaborando con Vadier ed Amar alla redazione della relazione presentata alla Convezione sul caso Théot. Anche i responsabili delle operazioni militari all’interno del Comitato, Carnot e Prieur de La Côte-d’Or uscirono dal loro riserbo per criticare il perdurante clima di terrore, nonostante i successi che le armate rivoluzionarie stavano ottenendo.
Dopo la discussione furiosa ed invelenita suscitata all’interno del Comitato di Salute Pubblica dal caso Théot, Robespierre diradò per una quarantina di giorni, dalla fine di pratile sino all’inizio di termidoro, le sue apparizioni pubbliche. Non tenne discorsi alla Convenzione, prese la parola al Club dei giacobini soltanto per attaccare Fouché ed in poche altre occasioni, firmò una trentina di decreti del Comitato di Salute Pubblica che presumibilmente gli furono portati in rue Saint Honoré, dal momento che disertò la maggior parte delle sedute. Parve estraniarsi dalla vita pubblica, in parte disgustato dalla bassezza morale dei suoi colleghi di governo oltreché dei suoi avversari, in parte costretto dalle sue precarie condizioni di salute. Già in precedenza lo scontro con Danton e Desmoulins aveva portato ad esaurimento le sue risorse fisiche ed emotive, costringendolo a letto per alcuni giorni tra il febbraio e l’aprile del 1794. Da allora portava sul volto e persino nella gestualità le tracce di un logoramento fisico derivante da quello mentale. Barras in occasione del suo già citato incontro privato con Robespierre lo descrisse così: “Gli occhi spenti e miopi si fissarono su di noi. La faccia, con tratti volgari, era di un pallore spettrale, con vene di colore verdastro; si muoveva di continuo. E anche le mani, che stringeva a pugno e rilassava di continuo come per un tic nervoso; anche il collo e le spalle avevano spasmi convulsi.”
Lo stesso stato di prostrazione di ventoso e di germinale si ripresentò alla fine di pratile, probabilmente aggravato dal timore ossessivo di subire un attentato e dalle tensioni familiari, provocate dall’aspro dissidio tra suo fratello minore Augustin e sua sorella Charlotte. Sappiamo poco di come Robespierre trascorse questi quaranta giorni lontano dalla ribalta pubblica. La rete di una dozzina di informatori guidata dall’agente Guérin continuò a fornirgli quotidianamente informazioni dettagliatissime sui movimenti dei suoi avversari. Ogni deputato indicato come sospetto era pedinato e spiato giorno e notte, difficilmente poteva conversare con un collega, mettere piede in un caffè o salutare un passante senza che gli uomini di Guérin ne prendessero nota e riferissero. Grazie a questa massa di informazioni raccolte in aperta violazione dei diritti dei parlamentari, Robespierre, benché debilitato dall’esaurimento nervoso che offuscava la sua capacità di giudizio tattico, mantenne il polso della situazione politica, in attesa del momento più opportuno per riprendere saldamente nelle sue mani la guida della rivoluzione. Almeno così si illudeva.

Mentre la classe politica rivoluzionaria si preparava ad uno scontro all’ultimo sangue per stabilire a chi appartenesse la leadership, il popolo, a Parigi ed altrove, si mostrava sempre più scontento ed irrequieto. Sul finire di giugno ci furono rumorose proteste nei quartieri parigini contro il crescente numero di condanne capitali inflitte anche a noti sanculotti. I carpentieri delle officine di stato entrarono in sciopero, denunciando l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Lo stesso fecero i minatori, i mietitori ed altre categorie di salariati. Questi inquietanti segnali sociali convinsero Barère a mettere in atto un tentativo di ricomposizione delle fratture tra i due Comitati ed all’interno dello stesso Comitato di Salute Pubblica. La rinuncia ad ogni lista di proscrizione era la conditio sine qua non per la riconciliazione. Couthon e soprattutto Saint-Just espressero un cauto interesse alla proposta, allettati dalla promessa di Barère di un rinnovato impegno all’applicazione dei decreti di ventoso rimasti lettera morta, che prevedevano la distribuzione agli indigenti dei beni sequestrati agli aristocratici emigrati ed ai sospetti.
Il 5 termidoro, in occasione della riunione congiunta dei due Comitati, Robespierre, pur essendosi preoccupato di lanciare segnali di distensione a Vadier con la rinuncia al controllo del Bureau de Surveillance, respinse con decisione ogni ipotesi di compromesso. I cospiratori dovevano essere estirpati ovunque si trovassero senza indugio. Il ristabilimento della virtù aveva la precedenza su ogni altra considerazione, persino sulla realizzazione di una vasta redistribuzione della ricchezza.
La presunzione di incarnare la virtù repubblicana, e quindi l’autentico spirito della rivoluzione, spinse Robespierre ad assumere l’iniziativa politica, facendo leva sulla Convenzione in cui si illudeva di godere ancora di un’ampia e solida maggioranza. Il lavorio sotterraneo di Fouché, di Barras, di Fréron, di Tallien e di Bourdon de l’Oise aveva invece dato i suoi frutti, trasformando l’immagine dell’”Incorruttibile” in quella di un dittatore assetato di sangue, pronto ad abbattere la sua vendetta su tutti coloro che avessero tradito la purezza rivoluzionaria. Ed erano in molti a tremare tra i deputati. Un eccesso terroristico, il sospetto di arricchimento illecito, un passato legame, per quanto tenue, con un leader già sacrificato sulla ghigliottina, come Danton o Hébert, una critica a Robespierre sussurrata ad un collega e riportata da qualche spia avrebbero potuto costare la testa.

Senza consultarsi né con Couthon, né con Saint-Just, Robespierre pronunciò alla Convenzione, l’8 termidoro, un lungo discorso, a tratti oscuro e sconclusionato, che promise castighi a tutti gli oppositori, anziché compattare la maggioranza, lasciando intravedere una prossima pacificazione.
La Repubblica continuava ad essere in pericolo: “I nostri nemici sono in ritirata, ma solo per lasciarci alle nostre divisioni interne.” Erano in corso i preparativi di una vasta cospirazione che minacciava di mandare in rovina la Repubblica. Soltanto recuperando l’originaria purezza rivoluzionaria e superando le fazioni la Repubblica avrebbe potuto essere salvata: “Io dico che tutti i rappresentanti del popolo il cui cuore è puro devono prendere la fiducia e la dignità che si confà a loro”. Per rimarcare la differenza tra i veri patrioti e gli impostori e quindi tra sé ed i suoi oppositori, Robespierre volle ricordare solennemente la dimensione morale della rivoluzione: “La rivoluzione francese è la prima che sia stata fondata sulla teoria dei diritti dell’umanità e sui principi della giustizia… Le altre rivoluzioni non esigevano che l’ambizione, la nostra impone delle virtù.” Tracciò quindi il profilo del vero patriota animato da: “..orrore profondo della tirannia, …zelo compassionevole per gli oppressi, …amore sacro per la patria, …amore… dell’umanità, senza il quale una grande rivoluzione non è che un crimine eclatante che distrugge un altro crimine; (dall’)… ambizione di fondare sulla terra la prima Repubblica del mondo…, (dall’)… egoismo degli uomini non degradati che trova una voluttà celeste nella calma di una coscienza pura e nello spettacolo incantevole della felicità pubblica! Voi lo sentite ardere in questo momento nelle vostre anime: io lo sento nella mia.”
Respinse con tagliente ironia l’accusa di aver applicato nella sua azione di governo metodi dittatoriali: “…sono almeno sei settimane che la mia dittatura è spirata e che io non ho alcuna specie di influenza sul governo: il patriottismo è stato più protetto? Le fazioni più timide? La patria più felice?” Dall’allontanamento dalla vita pubblica di uno “scomodo sorvegliante” solo i nemici della rivoluzione ne aveva tratto vantaggio, trovando il coraggio di elaborare il progetto di “…strappargli il diritto di difendere il popolo con la vita”. I veri “mostri” che minacciavano la Repubblica erano coloro che “…avevano cacciato in fetide carceri i patrioti e seminato il terrore in tutti gli strati e livelli della società.”
I cospiratori si annidavano dappertutto, nei comitati di governo e persino nella Convenzione. Occorreva pertanto punire i traditori, distruggere le fazioni e rifondare la Repubblica ristabilendo la potenza della Giustizia e della Libertà.

Robespierre ripeté lo stesso errore tattico che aveva già commesso in pratile. E questa volta gli fu fatale. Per oltre due ore si scagliò contro i nemici della Repubblica senza tuttavia pronunciare i loro nomi, eccetto quello di Cambon, membro autorevole del Comitato delle Finanze, che non aveva però lo spessore politico per diventare l’unico capro espiatorio da sacrificare sull’altare della purezza rivoluzionaria. Una decina di nomi autorevoli sarebbe stata sufficiente per rassicurare l’aula intera, delimitando i confini politici dell’epurazione che Robespierre intendeva praticare. A nulla valsero le richieste di Vadier, Cambon, Billaud, Fréron e di una ventina di altri deputati di precisare le accuse, di esibire la lista dei proscritti, l’”Incorruttibile” si ostinò a non dissipare la vaghezza delle sue accuse.
Le allusioni minacciose lanciate in tutte le direzioni politiche a tutte le personalità di maggior spicco della Repubblica gettarono una massa di deputati disorientati nella disperazione che ispirò la decisione di prendere parte attiva al complotto che da pratile si era andato sviluppando. La Convenzione manifestò il suo malumore rifiutandosi di votare la stampa del discorso di Robespierre.
Deluso ed irritato dalla presa di posizione dell’aula a cui aveva fatto appello, la sera dell’8 termidoro, Robespierre lesse lo stesso discorso al Club dei giacobini per mostrare ai suoi nemici tutta la sua forza. Le sue parole furono accolte da una formidabile ovazione. Collot d’Herbois, che presiedeva la seduta, e Billaud cercarono di impedirgli di parlare, ma furono sommersi dalle minacce gridate contro di loro.
Robespierre lasciò il Club gettando i suoi entusiasti sostenitori nello sconforto: “Amici, avete appena udito le mie ultime volontà, il mio testamento.” Poi sopraffatto dal pessimismo rispetto all’esito della battaglia politica lo attendeva aggiunse: “Se dovrò soccombere, ebbene amici miei, voi mi vedrete bere la cicuta con calma.” Sconvolto da queste parole così disperate, il pittore David lo abbracciò come un fratello gridando di essere pronto a bere la cicuta con lui.

François Boissy d’Anglas

François Boissy d’Anglas

Nella notte tra l’8 ed il 9 termidoro avvenne la saldatura tra le diverse anime della cospirazione, fino ad allora frammentate: i deputati richiamati dalle loro missioni in provincia per le atrocità e le ruberie commesse, coloro che nei comitati di governo erano entrati in contrasto con Robespierre oppure avevano un imbarazzante passato hébertista, gli ex dantonisti superstiti, intenzionati a salvare sé stessi ed a vendicare il loro leader, i tecnocrati all’interno del Comitato di Salute Pubblica, come Lindet, Carnot e Prieur de La Côte-d’Or, che vedevano nella prosecuzione ad oltranza del clima di terrore un intralcio alle operazioni militari. Determinante fu infine l’adesione di Boissy d’Anglas, personalità influente della Palude, il gruppo parlamentare più moderato ed anche più numeroso della Convenzione.
Il 9 termidoro la seduta della Convenzione iniziò alle undici del mattino in un clima di apparente normalità con la lettura della corrispondenza e l’ascolto delle petizioni.
Fouché, il principale ideatore del dramma che stava per andare in scena, si guardò bene dal mettere piede in aula. Tra gli assenti quel giorno figurò anche David, forse non così ansioso di assaporare la cicuta. In seguito si giustificò adducendo una improvvisa indisposizione. Più verosimilmente nella notte tra l’8 ed il 9 termidoro fu informato da Barère del probabile esito della seduta.
Intorno a mezzogiorno, quando Saint-Just salì sulla tribuna con l’intenzione di pronunciare un discorso in difesa di Robespierre, scoppiò d’improvviso un incidente sapientemente orchestrato. Tra boati e grida, Tallien interruppe bruscamente Saint-Just, accusandolo di aver calpestato il principio della direzione collegiale all’interno dei comitati. Billaud, a cui bruciavano ancora le minacce di morte ricevute la sera prima al Club dei giacobini, non esitò a confermare, aggiungendo che l’intimidazione era diventato il metodo politico abituale dell’”Incorruttibile” che parlava “…di continuo di virtù mentre difendeva il crimine…non c’è rappresentante del popolo che voglia vivere sotto un tiranno.”
Molti deputati gridarono in coro: “No, no!”
Colto di sorpresa da questo attacco improvviso, Saint-Just non ebbe la forza di replicare, pallido ed attonito tornò a sedersi mentre attorno a lui crescevano le grida e le ingiurie. Vedendo precipitare la situazione, Robespierre chiese la parola per riprendere il controllo dell’assemblea, ma fu zittito da grida altissime: “Noi non ascoltiamo i cospiratori!”, “Abbasso Robespierre! Abbasso!”
Sostenuto dagli applausi dei complici, Tallien riprese la parola per affermare in tono melodrammatico di essere “…armato di un pugnale per colpire il tiranno nel caso in cui la Convenzione non fosse disposta a rendergli la giustizia dovuta agli scellerati.” Prima di colpire a viso aperto il tiranno, Tallien si scagliò prudentemente contro gli scellerati che lo attorniavano. Concluse il suo intervento chiedendo l’arresto del comandante della Guardia Nazionale Hanriot e del suo stato maggiore.

Billaud non perse l’occasione per reclamare a sua volta l’arresto di altri generali e funzionari vicini a Robespierre. La Convenzione approvò le proposte di arresto senza discussione, dimostrando, al di là del vociare di sottofondo, che la maggioranza parlamentare era mutata.
I congiurati non intendevano limitarsi a scalfire il potere dell’”Incorruttibile”, intendevano abbatterlo, perciò dopo questo primo voto favorevole presero coraggio e moltiplicarono gli sforzi. Barère pronunciò un discorso più misurato, ma egualmente sferzante nei confronti di Robespierre: ”Le inquietudini fittizie ed i pericoli reali non possono marciare insieme; le reputazioni enormi e gli uomini eguali non possono sussistere a lungo in comune.” Fu Vadier con il suo tagliente umorismo a mettere a segno un colpo mortale al prestigio di Robespierre: “A sentire lui, Robespierre è l’unico difensore della libertà: la dà per perdente; è un uomo di rara modestia e ripete all’infinito lo stesso ritornello: “Mi perseguitano, non vogliono darmi la parola”; ed è l’unico che abbia qualcosa di utile da dire, perché si fa sempre come vuole lui. Dice: “Il tal dei tali cospira contro di me, che sono il miglior amico della Repubblica.”
Robespierre fece appello a più riprese, ma senza successo, al presidente Thuriot, che aveva appena sostituito Collot d’Herbois, per avere il diritto di replica: “Per l’ultima volta, presidente d’assassini, io ti chiedo la parola… Accordamela o decreta che tu vuoi assassinarmi!”. Assistendo incredulo al voltafaccia dell’assemblea che lo aveva a lungo idolatrato, Robespierre lanciò rivolto alla Montagna sguardi rabbiosi ed epiteti come “Banditi! Codardi! Ipocriti!”, che nel baccano dell’aula non potevano essere uditi. L’impossibilità del presunto tiranno, sovrastato dalle urla e dal tintinnio del campanello del presidente, di far giungere all’assemblea il suono della propria voce ispirò ad un deputato montagnardo, Garnier, una battuta feroce, che era il preludio della vendetta che stava per consumarsi: “E’ il sangue di Danton che lo soffoca!”

Tutte le accuse riversate su Robespierre con toni che andavano dall’invettiva al sarcasmo non avevano ancora sortito alcun effetto rilevante sul piano legale. Nessuno dei capi della congiura mostrava il coraggio di spingere lo scontro sino alle estreme conseguenze. A rompere gli indugi fu Louchet, un oscuro deputato della Montagna che chiese l’approvazione di un decreto di arresto contro Robespierre. Un altro montagnardo, non meno oscuro, Loiseau, si affrettò a sostenerlo.
Superato l’iniziale sbalordimento, la Convenzione approvò la proposta tra applausi furiosi e grida: “Arresto! Arresto!”
Il fratello minore di Robespierre, Augustin, non seppe rimanere spettatore impassibile, si rivolse con fermezza all’assemblea per chiedere di essere sottoposto allo stesso martirio: “Sono colpevole quanto mio fratello; io volevo fare il bene del mio paese, anch’io voglio morire per mano di criminali.” Nessuno tra i deputati si oppose a questo generoso sacrificio.
Ottenuto il trionfo sui due Robespierre, impensabile fino a qualche ora prima, Louchet, che godeva della protezione e dell’amicizia di Fouché e di Barère, riprese la parola per chiarire che il voto appena espresso dalla Convenzione comportava necessariamente anche la messa in stato di accusa di Couthon e di Saint-Just. Un giovane collaboratore di quest’ultimo, Le Bas, si levò in piedi affermando: “Io non voglio condividere l’obbrobrio di questo decreto; chiedo anch’io l’arresto.” Ancora una volta la Convenzione non ebbe nulla da obiettare. La burrascosa seduta si concluse intorno alle cinque e mezza del pomeriggio al grido di “Viva la Repubblica!”
I deputati arrestati furono tradotti al Comitato di Sicurezza Generale presso il palazzo delle Tuileries, in attesa di essere inviati a diverse prigioni della città.

Il pieno successo dell’agguato parlamentare non consegnò ai congiurati la certezza della vittoria politica. Non appena si diffuse la notizia dell’arresto di Robespierre e dei suoi fedelissimi, il sindaco di Parigi, Fleuriot-Lescot, ed il rappresentante del governo presso il comune, Payan, che avevano applaudito il discorso di Robespierre al Club dei giacobini, non esitarono a reagire convocando il Consiglio Comunale che approvò all’unanimità la mobilitazione insurrezionale per salvare la Libertà e la Repubblica. Ogni disposizione proveniente dal Comitato di Salute Pubblica o da quello di Sicurezza Generale fu dichiarata nulla. I principali congiurati, rei di aver oppresso la Convenzione, furono dichiarati passibili di arresto. Al di là degli atti formali, furono adottate anche misure di più immediata efficacia: furono chiuse le porte della città, fu ordinato che le campane suonassero a martello per chiamare i patrioti a raccolta in Place de Grève, davanti al municipio, dove le sezioni erano invitate a schierare i loro pezzi di artiglieria, furono infine inviati degli emissari presso le carceri per ingiungere di non accogliere i deputati appena arrestati. La mobilitazione delle sezioni rivoluzionarie fu tuttavia piuttosto lenta. Mesi di terrore e di processi sommari avevano falcidiato le fila dei sanculotti più determinati. Delle quarantotto sezioni della città non più di tredici inviarono i loro uomini a difesa dell’Hôtel de Ville, le altre rimasero cautamente in attesa degli sviluppi della situazione, chiedendo chiarimenti al comune sul da farsi, oppure tacendo.
Il generale Hanriot, comandante della Guardia Nazionale, contro cui la Convenzione aveva spiccato un mandato di arresto, mise le truppe a lui fedeli a disposizione del Consiglio Comunale, si assicurò il controllo dell’arsenale militare, organizzò la difesa dell’Hôtel de Ville, poi confidando nel proprio prestigio personale si diresse con un drappello di gendarmi alle Tuileries con l’intento di liberare Robespierre e gli altri deputati arrestati.

Gli uomini posti a guardia degli illustri prigionieri respinsero senza esitazione l’irruzione di Hanriot all’interno del Comitato di Sicurezza Generale e lo arrestarono.
Intorno alle sette, i cinque deputati furono trasferiti per ragioni di sicurezza a diverse prigioni. Robespierre fu condotto a quella del Luxembourg, dove i carcerieri esterrefatti si rifiutarono di prenderlo in carico. Dal Luxembourg l’”Incorruttibile” fu condotto alla sede della prefettura al quai des Orfèvres, dove fu accolto dai funzionari con acclamazioni e grida di entusiasmo.
Alla notizia dell’arresto di Hanriot il Consiglio Comunale reagì nominando un Comitato esecutivo provvisorio ed affidando al vice presidente del Tribunale Rivoluzionario, Coffinhal, il comando di un reparto di cannonieri incaricato di liberare i deputati incarcerati.
Intorno alle nove, senza incontrare alcuna resistenza gli uomini di Coffinhal presero possesso del Comitato di Sicurezza Generale e liberarono Hanriot che, montato a cavallo, condusse le truppe ribelli contro la Convenzione.
Da un paio d’ore i deputati si erano riuniti in seduta permanente per adottare contromisure adeguate a reprimere l’insurrezione in corso. Il sindaco di Parigi, il rappresentante del governo presso il comune e l’intero Consiglio Comunale erano stati posti fuori legge, così come chiunque fraternizzasse con gli insorti. A Barras era stato proposto di assumere il comando delle forze armate rimaste fedeli al governo legittimo. Dopo qualche esitazione, dettata dalla grave incertezza della situazione, più che dalla consapevolezza della propria inesperienza militare, Barras aveva finito per accettare di buon grado il rischioso incarico.
Mentre in aula si svolgeva il dibattito, gli artiglieri di Hanriot si impossessarono dei cannoni d’onore posti nel cortile delle Tuileries e li puntarono sulla Convenzione. Resosi conto dell’accerchiamento messo in atto dagli insorti, il presidente Collot d’Herbois esortò i colleghi a morire con dignità al proprio posto, se necessario.
Data la sproporzione a suo favore delle forze in campo, Hanriot avrebbe potuto facilmente trionfare prendendo in ostaggio l’intera Convenzione, invece preferì obbedire all’ordine ricevuto dal Comitato insurrezionale di radunare le sue truppe attorno all’Hôtel de Ville. Barras nelle sue memorie si attribuì il merito di aver disperso gli insorti che minacciavano la Convenzione semplicemente uscendo nel cortile delle Tuileries e gridando: “Ritiratevi miserabili: Hanriot è fuori legge!” Quest’annuncio avrebbe provocato l’immediato sbandamento degli artiglieri ribelli, costringendo il loro vigliacco comandante a battere in ritirata verso Place de Grève.

Intorno alle nove e mezza, quando Hanriot raggiunse l’Hôtel de Ville vi trovò il giovane Robespierre. I carcerieri della prigione della Force, che avrebbero dovuto prenderlo in custodia, l’avevano invece portato in trionfo alla sede del Consiglio Comunale.
Augustin pronunciò tra gli applausi un energico discorso in cui condannò l’odiosa macchinazione dei congiurati, senza tuttavia dichiarare illegale o decaduta l’intera Convenzione. Rendendosi conto dell’urgenza per vincere l’incertezza di molti patrioti di darsi un capo autorevole, il Consiglio Comunale approvò la proposta del Sindaco di formare una deputazione di sei membri con il compito di offrire formalmente a Robespierre la guida dell’insurrezione.
Raggiunto al quai des Orfèvres dalla deputazione comunale, Robespierre rifiutò l’offerta, dichiarando di voler comparire dinanzi ai giudici. Fu necessario l’invio di una seconda e più convincente deputazione per piegare gli scrupoli legalitari dell’”Iincorruttibile”, che finalmente, dopo le dieci, decise di recarsi all’Hôtel de Ville.
Nel frattempo anche Saint-Just e Le Bas, strappati ad altri carceri della città, raggiunsero Place de Grève. Appena liberato Le Bas aveva potuto riabbracciare per qualche istante sua moglie, Elisabeth Duplay, da cui qualche mese prima aveva avuto un figlio. Gli affetti familiari, che non gli avevano impedito in aula di autocondannarsi all’arresto, non lo trattennero neppure questa volta dal seguire Saint-Just.
L’arrivo di Maximilien Robespierre infuse un certo entusiasmo tra i membri del Consiglio Comunale e soprattutto tra la folla di insorti in armi che ingombrava Place de Grève. Con il passare delle ore però, in mancanza di ordini e di discorsi che infiammassero i cuori, tale entusiasmo andò affievolendosi. Quando si diffuse la notizia di un imminente intervento armato delle truppe fedeli alla Convenzione, gruppi di sanculotti via via più numerosi incominciarono senza troppo clamore ad allontanarsi dalla piazza. Intorno a mezzanotte un violento temporale estivo convinse molti di quelli che erano fino ad allora rimasti a tornarsene a casa.

L’appello alla Sezione delle Picche con la firma incompiuta di Robespierre

L’appello alla Sezione delle Picche con la firma incompiuta di Robespierre

Mentre le forze degli insorti si assottigliavano, i termidoriani costituirono due colonne di armati incaricate di marciare su Place de Grève: una, condotta personalmente da Barras, attraversò i quartieri più ricchi della città lungo la Senna, l’altra, al comando di Léonard Bourdon, un deputato montagnardo detestato da Robespierre per i suoi modi volgari ed il suo abbigliamento ridicolo, passò per rue Saint Honoré e rue Saint Martin.
Incapaci di arginare lo scoraggiamento e lo sbandamento delle loro forze, i membri del comitato insurrezionale si impegnarono in una estenuante discussione per vincere la ritrosia di Robespierre a porsi apertamente contro la Convenzione, che rimaneva a suo avviso la legittima depositaria della sovranità popolare. Intorno a mezzanotte anche Couthon raggiunse l’Hôtel de Ville dopo aver rifiutato per alcune ore di lasciare la sua prigione. Soltanto un biglietto firmato da Robespierre e Saint-Just era riuscito a convincerlo a schierarsi dalla parte degli insorti. Couthon propose di rivolgere un appello all’esercito. Robespierre tornò allora a sollevare una delicata questione di legittimità: “A nome di chi?” Un disperato appello alla sezione delle Picche, quella del suo quartiere, era già stato redatto e rimaneva per gli stessi dubbi di legittimità in attesa della sua firma.
“Comune di Parigi, Comitato esecutivo.
9 termidoro
Coraggio, patrioti della Section des Piques! La Libertà trionfa! Già coloro la cui fermezza è temuta dai traditori sono in libertà. Dovunque, il popolo si mostra degno del proprio carattere. L’appuntamento è all’Hôtel de Ville, dove il prode Hanriot eseguirà gli ordini del Comitato esecutivo che è stato formato per salvare il paese.
Louvet, Payan, Lerebours, Legrand, Ro-“
Intorno alle due del mattino la colonna di Bourdon giunse in Place de Grève, ormai quasi deserta. Di ciò che avvenne negli istanti successivi esistono differenti versioni.
Fingendosi dei sostenitori di Robespierre, Bourdon ed alcuni dei suoi uomini riuscirono a penetrare nell’Hôtel de Ville senza incontrare resistenza, salirono in fretta la grande scala centrale e fecero irruzione della sala Égalité.
Dopo molte esitazioni Robespierre si accingeva ad aggiungere la sua firma in calce all’appello alla sezione della Picche, aveva già tracciato due lettere del suo cognome, Ro, quando si spalancarono le porte della sala ed una pallottola lo colpì alla guancia sinistra, fracassandogli la mandibola. Sul foglio dell’appello giunto fino a noi sono ben visibili delle macchie forse di sangue attorno alla firma incompiuta.
A sparare da non più di quattro metri di distanza sarebbe stato un giovane gendarme con un cognome imbarazzante: Merda.

L’irruzione nella sala consigliare dell’ Hôtel de Ville alle due del mattino del 10 termidoro

L’irruzione nella sala consigliare dell’ Hôtel de Ville alle due del mattino del 10 termidoro

Al colpo di pistola sparato su Robespierre seguì l’irruzione degli uomini di Bourdon che non riuscirono immediatamente ad assumere il pieno controllo della sala. Saint-Just dopo un primo attimo di sbigottimento si chinò su Robespierre per tentare di soccorrerlo. Le Bas sfruttò la confusione per allontanarsi, raggiunse una sala vicina, detta della vedova Capeto, dove con una delle due pistole che aveva portato con sé si fece saltare le cervella.
La vista del volto del fratello coperto di sangue dovette sconvolgere Augustin, che aprì un finestra della sala, rimase qualche istante in bilico sul cornicione poi si gettò di sotto. Sopravvisse all’impatto con il selciato di Place de Grève, seppur gravemente ferito ad un’anca ed alla testa. Anche il paraplegico Couthon riportò una profonda ferita alla testa cadendo da una scala in un disperato tentativo di fuga. Hanriot lottando con gli assalitori riuscì ad abbandonare la sala Égalité ed a nascondersi all’interno dell’Hôtel de Ville. Fu ritrovato nella tarda mattinata del 10 termidoro gravemente ferito, un colpo di baionetta o di sciabola gli aveva strappato un occhio dall’orbita. Coffinhal riuscì invece a dileguarsi incolume dall’Hôtel de Ville, raggiunse l’isola dei Cigni, dove i battellieri della Senna gli offrirono rifugio per alcuni giorni. Il 5 agosto lasciò il suo nascondiglio e si presentò a casa della sua amante, che si rifiutò di ospitarlo. Cercò quindi asilo da un conoscente che gli doveva del denaro, ma questi lo tradì consegnandolo alla polizia.
Secondo Ernest Hamel, un autorevole storico della fine dell’ottocento di dichiarate simpatie giacobine, il colpo di pistola sparato contro Robespierre sarebbe stata un’esecuzione a sangue freddo. I termidoriani volevano la morte di Robespierre ad ogni costo, temevano che perfino sul patibolo la sua eloquenza avrebbe potuto delegittimarli e fomentare nuove sollevazioni popolari.

Robespierre ferito nella sala consigliare dell’ Hôtel de Ville

Robespierre ferito nella sala consigliare dell’ Hôtel de Ville

Ad armare la mano di Charles-André Merda sarebbe stato Léonard Bourdon, promettendogli onori e ricompense. A conferma di questa interpretazione, qualche ora dopo l’irruzione all’Hôtel de Ville, Bourdon presentò Merda alla Convenzione come un eroe, riconoscendogli il merito di aver fatto fuoco sui deputati ribelli. Gli scroscianti applausi della Convenzione furono il preludio della ricompensa. Merda fu promosso sottotenente ed assegnato ad un reparto di cavalleria dell’Armata del Nord. Né l’assegnazione in Olanda, né i modesti galloni ricevuti furono ritenuti soddisfacenti da Merda, che tempestò di lettere di protesta Tallien, Carnot, Barrère, Collot d’Herbois, finché, per intercessione di Barras, non ottenne un avanzamento al grado di capitano. Soltanto con l’avvento del Consolato la sua carriera riprese slancio. A sostenerlo nella scalata della gerarchia militare non fu la riconoscenza per l’audacia dimostrata nell’irruzione del 10 termidoro, ma la condotta coraggiosa tenuta sui campi di battaglia, da Marengo ad Austerlitz, da Jena a Wagram. Nel 1806 fu nominato colonnello, due anni più tardi Bonaparte gli concesse il titolo di Barone dell’Impero. Da quel momento ritenne opportuno mutare il suo cognome in Méda. Nel 1812 durante la campagna di Russia, prese parte alla battaglia della Moscova. Una palla di cannone gli tranciò una gamba. Sul letto di morte ottenne la tanto agognata promozione a generale.
Nel 1802 quando la sua carriera sembrava finalmente decollare, Merda scrisse, sperando di ricavarne un immediato vantaggio, una relazione sui fatti accaduti nella notte tra il 9 ed il 10 termidoro, che, in mancanza dell’autorizzazione del Ministero della Guerra, non fu pubblicata, se non dodici anni dopo la sua morte. Mescolando elementi verosimili ad altri palesemente fantasiosi, Merda rivendicò i suoi meriti, senza peraltro respingere l’accusa di aver sparato a sangue freddo su Robespierre.

Sarebbe stato il caso a porlo alla testa dei gendarmi e dei granatieri che fecero irruzione nell’Hôtel de Ville. Poiché i suoi superiori, probabilmente impegnati a smaltire una sbornia, erano irreperibili, il giovane Merda avrebbe ricevuto da Carnot in persona il comando della spedizione per arrestare Robespierre ed i suoi complici. Il caos seguito alla liberazione di Hanriot ed all’accerchiamento della Convenzione gli avrebbe impedito di eseguire prontamente gli ordini ricevuti. La nomina di Barras e di Bourdon alla guida delle truppe fedeli alla Convenzione avrebbe poi obbligato Merda a mettersi a loro disposizione. In virtù di chissà quale merito, Bourdon avrebbe confermato il giovane ed intraprendente gendarme al comando dell’attacco all’Hôtel de Ville. L’idea stessa di agire sfruttando l’effetto sorpresa, penetrando con l’inganno all’interno dell’Hôtel de Ville, sarebbe stata di Merda. Nella sala Égalité sarebbero state presenti una cinquantina di persone, in mezzo a loro il gendarme avrebbe immediatamente riconosciuto Robespierre seduto su di una poltrona, con la testa appoggiata sulla mano sinistra.
“Arrenditi traditore!” gli avrebbe intimato Merda. “Tu sei un traditore e ti farò fucilare!” avrebbe risposto l’”Incorruttibile”. Senza esitare, il gendarme avrebbe allora impugnato una delle due pistole che teneva infilate nella cintura ed avrebbe fatto fuoco. Intendeva colpirlo al petto, invece la pallottola raggiunse il mento fracassando la mandibola sinistra. Robespierre sarebbe caduto dalla poltrona. Vedendo suo fratello accasciarsi coperto di sangue, Augustin lo avrebbe creduto morto ed in preda alla disperazione si sarebbe gettato dalla finestra. Intanto il panico si sarebbe diffuso all’interno della sala all’irrompere degli altri gendarmi. I sostenitori di Robespierre si sarebbero dileguati in tutte le direzioni. Con la seconda pistola ancora carica in pugno, Merda si sarebbe lanciato al loro inseguimento nei corridoi del palazzo municipale. Privo di lanterna, nella semioscurità avrebbe sparato alla cieca, colpendo ad una gamba colui che portava sulle spalle il paraplegico Couthon, che sarebbe ruzzolato rovinosamente dalle scale. Il complice benché ferito sarebbe riuscito a dileguarsi, mentre Merda avrebbe trascinato Couthon per i piedi fino alla sala Égalité.

La versione di Merda per quanto lacunosa e poco credibile in molti passaggi, trova una conferma oggettiva nella relazione stilata dai due medici militari, Vergez e Marrigues, che visitarono Robespierre circa tre ore dopo l’irruzione nell’Hôtel de Ville. Lo “scellerato”, come si preoccuparono di definirlo i medici per dichiarare la loro incrollabile fedeltà alla Convenzione, aveva il volto gonfio, soprattutto sul lato sinistro dove aveva ricevuto la ferita. La pelle della guancia sinistra presentava bruciature ed una ecchimosi sotto l’occhio. La pallottola era penetrata, producendo un piccolo foro circa un pollice al di sotto delle labbra, “da sinistra a destra, dall’alto in basso”. Ispezionando la bocca, i medici estrassero frammenti dell’osso mandibolare ed alcuni denti, canini e premolari.
La traiettoria del proiettile e la ferita prodotta appaiono del tutto compatibili con il racconto di Merda, che avrebbe sparato a Robespierre seduto in poltrona con il profilo sinistro rivolto verso di lui. Questo riscontro oggettivo alla versione di Merda non impedì tuttavia ai termidoriani di accreditare l’ipotesi del suicidio di Robespierre.
La Convenzione incaricò il deputato Courtois di stendere una relazione, pubblicata nel febbraio del 1795, sui fatti accaduti nella notte tra il 9 ed il 10 termidoro e sulle carte rinvenute a casa di Robespierre. L’approssimarsi delle truppe di Barras e di Bourdon avrebbe scatenato il panico all’interno della sala Égalité. Augustin sarebbe stato il primo ad optare per un gesto estremo. Suo fratello maggiore e Le Bas lo avrebbero imitato.
Accogliendo come attendibile la testimonianza di un usciere, Courtois affermò che il colpo sparato da Merda era andato in realtà a vuoto e che Robespierre aveva rivolto verso di sé una delle due pistole di Le Bas.
Il fatto che per determinare la traiettoria del proiettile e la ferita accertate dai medici Robespierre avrebbe dovuto compiere un gesto del tutto innaturale, impugnare la pistola con la mano sinistra e direzionarla dall’alto verso il basso prima di premere il grilletto, non fu neppure preso in considerazione. I termidoriani avevano bisogno di una versione di comodo che li sollevasse dall’accusa di aver tentato di uccidere a sangue freddo Robespierre e dimostrasse al tempo stesso la vigliaccheria ed il senso di colpa del tiranno che avevano abbattuto. Courtois li accontentò.

10 termidoro esecuzione di Robespierre e dei suoi complici

10 termidoro esecuzione di Robespierre e dei suoi complici

Nelle circa diciassette ore che precedettero la sua esecuzione Robespierre soffrì atrocemente. Fino alle tre e mezza rimase guardato a vista all’Hôtel de Ville. Nicolas Jomard, un architetto impiegato presso l’arsenale accorso insieme a molti altri curiosi nella sala consigliare, lo vide in stato di semincoscienza, “…senza scarpe, con le calze scivolate in basso, i pantaloni sbottonati e tutta la camicia imbrattata di sangue…”, attorniato da gendarmi sghignazzanti che si prendevano gioco di lui. Uno di essi gli sollevò il braccio per guardarlo in faccia ed esclamare divertito: “Non è bello come un re?”. Un altro commentò sarcastico: “Anche se fosse il corpo di Cesare, perché non l’hanno buttato nella spazzatura?”
Dall’Hôtel de Ville Robespierre fu poi trasportato, per ordine di Barras, al Comitato di Salute Pubblica e deposto su di un tavolo della sala d’attesa con la testa appoggiata ad una cassetta di munizioni. Per più di un’ora rimase in uno stato di immobilità che lasciava credere che fosse morto, poi incominciò lentamente ad aprire gli occhi. Con un sacchetto di tela prese a tamponarsi il sangue che gli colava abbondante dalla mandibola fracassata. Finalmente, intorno alle cinque e mezza, giunsero i medici militari che lo visitarono, ripulirono la ferita e lo bendarono. Durante la medicazione il “mostro”, come Vergez e Marrigues lo definirono nella loro relazione, rimase vigile, ma non proferì parola, neppure quando, secondo la testimonianza di Barras, un cannoniere di guardia si impadronì, per farne un macabro trofeo del tiranno abbattuto, di un paio dei denti che i chirurghi gli avevano appena estratto dalla bocca.
A più riprese il ferito con gesti e gemiti chiese l’occorrente per scrivere, ma gli fu negato.
Intorno alle dieci del mattino, Robespierre e gli altri suoi complici furono trasferiti alla prigione della Conciergerie, attigua alla sede del Tribunale Rivoluzionario. Il processo fu rapidissimo, si ridusse ad un semplice accertamento dell’identità dei prigionieri. Prima dell’irruzione nella sala consigliare dell’Hôtel de Ville, la Convenzione aveva dichiarato fuori legge, e quindi immediatamente giustiziabili, i deputati ribelli ed i loro sostenitori.
Le carrette con a bordo i ventidue condannati lasciarono il palazzo di Giustizia intorno alle quattro e mezza del pomeriggio dirette a Place de la Révolution, l’odierna Place de la Concorde. Una folla festante seguì il corteo fino a destinazione gridano parole ingiuriose e di scherno. La voce del terrorista Carrier fu udita sovrastare le altre urlando: “A morte il tiranno!”
Quando il convoglio giunse in rue Saint Honoré, davanti alla casa in cui Robespierre aveva vissuto per quattro anni, alcune donne fecero arrestare le carrette e si misero a ballare tra gli applausi e le risate della folla, mentre un ragazzino imbrattava i muri della Maison Duplay intingendo una scopa in un secchio pieno di sangue di bue.
Intorno alle sei e mezza i condannati giunsero in Place de la Révolution.
Robespierre fu il penultimo a salire sul patibolo. Il boia Sanson gli strappò via il bendaggio, la mandibola si staccò e cadde ai piedi dell’”Incorruttibile” che emise un ruggito di dolore. Le sue sofferenze erano finalmente giunte al termine. Qualche istante più tardi la sua testa rotolava nel cesto.
Per ordine del governo termidoriano, i corpi dei ventidue condannati furono trasportati al cimitero degli Erracins e gettati in una fossa comune sotto uno spesso strato di calce viva. I resti dei tiranni dovevano svanire rapidamente, affinché non potessero diventare oggetto di venerazione.


 

Per saperne di più

P. McPHEE, Robespierre. Una vita rivoluzionaria, Milano, Il Saggiatore, 2015.
A. GNUGNOLI, Robespierre e il Terrore rivoluzionario, Milano, Giunti, 2003.
S. SHAMA, Cittadini. Cronaca delle Rivoluzione francese, Milano, Mondadori, 1989.
F. BRUNEL, Thermidor: la chute de Robespierre, Paris, Editions Complexe, 1989.
A. STIL, Quand Robespierre et Danton inventaient la France, Paris, Grasset, 1988.
P. GAXOTTE, La Revolution française, Paris, Fayard, 1975.
S. LUZATTO, Bonbon Robespierre. Il Terrore dal volto umano, Torino, Einaudi, 2009.
F. FURET, D. RICHET, La Rivoluzione francese, Bari, Laterza, 1986.
S. ZWEIG, Joseph Fouché, Paris, Grasset, 1969.
E. HAMEL, Thermidor, Paris, Flammarion, 1891.
P. BARRAS, Mémoires de Barras membre du Directoire, Paris, Librairie Hachette, 1893.
C. ROBESPIERRE, Mémoire de Charlotte Robespierre sur ses deux frères, Paris, 1835.
P.J.B. BUCHEZ, P.C. ROUX, Histoire parlamentaire de la revolution française ou Journal des Assemblées Nationales depuis 1789 jusqu’en 1815, Tome Trente-Troisième, Paris, 1837.