COME SONO NATE LE FRONTIERE AFRICANE
di Massimo Iacopi –
La definizione dei confini dell’Africa in epoca coloniale è stata affidata al più assoluto arbitrio. Con conseguenze di cui solo oggi misuriamo gli effetti devastanti.
All’indomani della grande ondata decolonizzatrice degli inizi degli anni ‘50, trenta capi di Stato africani firmarono, il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba, la Carta dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA). Questo documento affermava l’uguaglianza della sovranità di tutti gli Stati interessati, il principio della non ingerenza negli affari interni di ciascuno e, soprattutto, l’intangibilità delle frontiere fissate a suo tempo dalle potenze coloniali.
Trent’anni più tardi è stato paradossalmente proprio a spese dell’Etiopia, Paese dove si tenne la conferenza fondatrice dell’OUA, che questo principio venne messo in discussione per la prima volta, con la proclamazione dell’indipendenza dell’Eritrea, approvata dal referendum del 25 aprile 1993. In tal modo è venuto meno uno dei principi fondanti dell’OUA. L’accesso alla sovranità del Sudan del Sud è poi arrivato a confermare che nulla, in questo campo, può essere considerato definitivamente stabilito. La situazione di molti altri Stati africani lascia immaginare che sul continente nero la stabilità delle frontiere non sia più un fatto acquisito, mentre crescono i legittimi timori di una “balcanizzazione” dell’area.
Oggi è evidente il carattere “artificiale” di determinati Stati, che non appaiono in alcun modo in condizione di costituire vere “unità nazionali” ispirate al modello europeo. Grosse incertezze pesano sull’avvenire dell’Africa del Sud ed esistono pericoli di collasso dell’immensa Repubblica democratica del Congo (il vecchio Zaire). Il mantenimento dell’integrità di Stati basati su regimi autoritari, decorrenti dal predominio di una etnia sulle altre, forniscono altrettante occasioni per constatare che le suddivisioni territoriali avvenute al tempo della spartizione coloniale non hanno in alcun modo rispettato le realtà indigene e il contesto politico tradizionale delle società africane.
La nozione di “frontiera” è di per sé stessa estranea all’Africa. Gli Stati che gli esploratori ed i colonizzatori europei hanno incontrato erano, in effetti, organismi politici elementari, formati attorno a un nucleo etnico più potente che manteneva sotto la sua autorità e forza i gruppi vicini. Per tale motivo la loro estensione territoriale variava in funzione dei rapporti di forza del momento. Capaci di estendersi molto rapidamente sotto la spinta di un profeta conquistatore o di un abile capo guerriero, essi molto spesso avevano una esistenza effimera. Tra l’altro, non esistevano nell’Africa tradizionale limiti fissati da trattati, stabiliti da cippi di frontiera e riportati sulle carte. La “frontiera” africana risulta, in questo caso, un elemento in eterno movimento.
In tal modo, per molto tempo, le prime potenze coloniali si sono accontentate di semplici “diritti” sulle regioni costiere, quindi, in un secondo tempo, di “zone di influenza” mano a mano che penetravano verso l’interno. Occorrerà attendere il periodo delle grandi spartizioni imperiali affinché questa situazione conosca un’evoluzione e affinché si assista a delimitazioni più accurate. Lo Scramble for Africa (corsa per l’Africa) iniziato nel 1881-1882 con il protettorato francese sulla Tunisia e il controllo inglese sull’Egitto tenderà ad accentuarsi nei successivi vent’anni. Fatta eccezione per il protettorato francese sul Marocco e la conquista italiana della Libia nel 1912, la spartizione del continente risulta effettivamente terminata già dieci anni prima, al termine della Guerra dei Boeri.
Le suddivisioni territoriali avvenute in questo periodo sono, in primo luogo, il risultato di decisioni assunte dalle cancellerie europee che, solo raramente, hanno tenuto conto delle realtà locali e che altrettanto in poco conto hanno tenuto il parere di militari, amministratori o missionari impegnati sul campo. I governi interessati sono stati spesso guidati da esigenze di politica interna o di prestigio nazionale, dalla preoccupazione di non lasciare la via aperta a concorrenti giudicati troppo pericolosi o anche dalla necessità di attribuire a un concorrente “compensazioni” stimate legittime. Basti pensare al primo ministro francese Pierre Laval che in occasione della visita a Roma nel gennaio 1935 assegna all’Italia di Mussolini 114 mila chilometri quadrati di territorio del Ciad (la striscia Aozu) per garantirsi l’alleanza del regime di fronte ad una Germania che sta ritornando a essere minacciosa.
In certi casi si arriva persino allo scambio di territori o “diritti”, in funzione di interessi del momento. Nel 1911, dopo l’incursione di una cannoniera tedesca nel porto di Agadir, la Francia accetta di dare alla Germania una parte del suo Congo, in modo da avere le mani libere sul Marocco. Nel 1890, per recuperare Heligoland (un’isola posta nel mare del Nord al largo delle coste dello Schleswig Holstein) i tedeschi rinunciano ai loro diritti su Zanzibar, impegnandosi a non estendere i loro territori dell’Africa orientale a nord del Kilimangiaro ed abbandonando l’Uganda agli inglesi. Questi ultimi non avevano esitato, nel 1871, a scambiare i loro possedimenti a Sumatra in cambio di quelli olandesi sulla Gold Coast africana, il futuro Ghana. Nel 1899 il trattato relativo alle isole Samoa – poste all’altro capo del mondo – consente di fissare la frontiera fra lo stesso Ghana britannico e il Togo tedesco. Allo stesso modo sono stati ipotizzati progetti di scambio del Gambia: per recuperare questo territorio incuneato nel Senegal francese, Parigi ha pensato a più riprese di proporre agli inglesi gli stabilimenti francesi in Costa d’Avorio (nel 1868), il Gabon (nel 1870) e poi anche i possedimenti francesi nelle Indie.
La “fissazione” della carta, la volontà di raggiungere un fiume o una frontiera naturale hanno giustificato sorprendenti tracciati di frontiera. In occasione dell’accordo anglo-tedesco del luglio 1890 il successore di Bismarck, il cancelliere Von Caprivi, ottiene per il sudest africano un prolungamento a nord-est con una curiosa appendice, la striscia che porta il suo nome, in modo che il territorio tedesco potesse costeggiare per qualche chilometro il corso superiore dello Zambesi.
Il Sudan anglo-egiziano, il cui carattere artificiale si è ampiamente rivelato all’indomani dell’indipendenza ottenuta nel 1956, fu creato perché Lord Cromer reputava che «il controllo delle acque del Nilo, dalle sue sorgenti alla foce, fosse la condizione essenziale della esistenza dell’Egitto».
In altre circostanze, è la preoccupazione di un accesso al mare che guida i delimitatori di frontiere: questo si verifica quando si tratta di assicurare uno sbocco al mare allo Stato indipendente del Congo, con il risultato di isolare l’enclave portoghese di Cabinda, posta sulla riva destra dello stesso fiume. Spesso il criterio della linea di spartizione della acque, impiegato per separare due territori, non consente – nell’immensità africana – di stabilire un limite preciso. Questo criterio ha funzionato, in ogni caso, per Leopoldo II del Belgio per recuperare, quasi per scommessa, le ricchezze minerarie del Katanga, una regione inizialmente aggiunta ai territori delimitati da Stanley per compensare la concessione al Congo francese del supposto eldorado del fiume Kuilu-Niari.
Le frontiere “naturali” si sono rivelate molto poco soddisfacenti. Il Congo inferiore separava territori occupati da popolazioni identiche. Le montagne, le foreste, le zone paludose, normalmente costituenti limiti ideali, risultavano spesso il rifugio di tutte le dissidenze, come nel caso del Tibesti ciadiano. Nelle regioni, supposte desertiche, viene tracciata una linea retta sulla carta, corrispondente a un meridiano o a un parallelo, sufficiente a separare due territori. In altre circostanze, la preoccupazione di assicurarsi una giunzione fra differenti regioni già sotto controllo, sfocia nella creazione di vasti spazi artificiali che riuniscono popolazione spesso diverse fra di loro. È il caso dell’Africa occidentale francese, dove la volontà di collegare il Senegal, la Guinea, la Costa d’Avorio e più tardi, il Dahomey, determinerà il tracciato delle frontiere.
Nel 1898-1900, la corsa al Ciad consente di riunire in un solo imponente blocco geografico i territori francesi dell’Africa del nord, del Sudan e del Congo. Al contrario, il compromesso coloniale franco-britannico del 1890 – che lasciava le mani libere alla Francia sul Madagascar – darà vantaggio agli Inglesi sul corso inferiore del fiume Niger e sul suo affluente, il Benué. L’accordo fissa, per mezzo di una linea che unisce la città di Say, sul Niger, alla città di Barrua, nella regione del lago del Ciad, la separazione di competenza inglese a sud da quella francese a nord. In tal modo gli Inglesi ottengono la ricca Nigeria, che ingloba popoli estremamente diversi sia etnicamente e sia per l’appartenenza religiosa, mentre secondo le parole di Lord Salisbury «Il gallo (francese) gratterà con i suoi artigli la sabbia sahariana».
I trattati “indigeni”, conclusi con i capi o con i “capetti” locali da parte di esploratori intraprendenti, hanno anche loro determinato, a volte, i limiti delle future colonie. Stanley ne firmerà diverse centinaia nel bacino del Congo, Peters farà altrettanto fra Zanzibar e la regione dei grandi laghi, costituendo, in tal modo, le basi della futura Africa orientale tedesca. Gli Inglesi della Royal Niger Company non rimarranno con le mani in mano e concluderanno anch’essi numerosi accordi, fino al regno di Sokoto. Il modo in cui uno storico del Congo belga descrive la “firma” di tali trattati la dice lunga sull’arbitrio che ha guidato la delimitazione delle frontiere: «La popolazione intera circondava il capo della tribù. Al momento dell’apposizione sul testo della croce che consacrava il patto, l’assemblea diventava agitata ed allegra, considerando una cosa straordinaria che il capo prendesse in mano la penna (piuma): una mano che occorreva naturalmente guidare. Poi seguiva il pagamento, stipulato nel trattato, sotto forma di una paccottiglia più diversa: perle, conchiglie, stoffe, vecchi fucili».
Il dinamismo e lo spirito di iniziativa di qualche europeo bastavano spesso a garantire alla potenza che rappresentavano il controllo di immensi territori. Savorgnan de Brazzà ha avuto bisogno di solo 25 postazioni, affidate ciascuna a un sergente fuciliere senegalese che montava la guardia alla bandiera tricolore, per assicurare alla Francia il possesso del Congo. Allo stesso modo i Francesi sfrutteranno la vittoria sul re Behanzin del Dahomey per spingersi rapidamente a nord e anticipare i loro rivali tedeschi del Togo sul Niger e al Gurma, fatto che verrà sanzionato dal trattato concluso a Parigi nel 1897. Al contrario, i sudditi dell’imperatore Guglielmo II di Hohenzollern si mostreranno più intraprendenti nel Camerun, dove moltiplicheranno le incursioni e le missioni di esplorazione nell’interno. Attraverso tale via essi raggiungeranno il corso del Benué e quindi quello del Niger, spingendo così verso ovest, in occasione della firma della convenzione anglo-tedesca del 1893, i limiti che separavano i loro domini dalla Nigeria britannica. Un accordo simile viene concluso lo stesso anno con la Francia per fissare le frontiere fra il Congo e il Camerun. Tale accordo verrà rimesso in discussione in occasione del compromesso che nel 1911 metterà fine alla crisi di Agadir, nel quale i Francesi accetteranno di abbandonare ai rivali tedeschi una parte importante del “loro” Congo.
Le frontiere coloniali non avevano in tal modo nulla di definitivo: erano soggette a variazioni e revisioni, a concessioni reciproche fra le potenze interessate. I popoli non costituivano oggetto dell’interesse dei diplomatici, che decidevano della loro sorte, dividendosi sulle carte la “torta” africana.
Sono sempre state le potenze europee a fissare le regole del gioco, ognuna pensando a promuovere i propri interessi nazionali. È il caso delle iniziative del re dei belgi nel bacino del Congo, che susciteranno le reazioni della grandi potenze. Con il pretesto di iniziative scientifiche e filantropiche, Leopoldo II aveva inviato Stanley “nel cuore delle tenebre”, le immense regioni del Congo che sperava di aprire al commercio europeo. I portoghesi reagiscono facendo valere, con l’appoggio dell’Inghilterra, i loro “diritti” sulla foce del Congo, che da parte loro, Francia e Germania contestavano. È in queste condizioni che nel novembre 1884 viene convocata la Conferenza di Berlino, al fine di regolare ufficialmente di «le condizioni più favorevoli per lo sviluppo del commercio e della civilizzazione in determinate regioni dell’Africa». L’atto finale del 26 febbraio 1885, che conclude i lavori della Conferenza, stabilisce un codice internazionale che sovraintende alla spartizione del continente nero. Lo Stato indipendente del Congo, retto da Leopoldo II, si vede riconoscere la sovranità su un immenso territorio, i cui limiti peraltro rimanevano ancora estremamente vaghi. Allo stesso tempo vengono stabilite la libertà di navigazione sul Congo e sul Niger, così come la parità commerciale nel bacino del Congo, il Portogallo, abbandonato da Londra, viene costretto a rinunciare alle sue pretese sulla foce del fiume Congo, dove il nuovo stato personale del re dei Belgi si vede attribuire trentacinque chilometri di litorale, che gli assicurano lo sbocco al mare.
Era ritenuto lecito anche che uno Stato civilizzato, che occupasse un punto della costa, avesse diritto al suo interno. Risultava altresì indispensabile, perché tale diritto fosse efficace, che esistesse una “occupazione effettiva”, la quale al limite poteva sostanziarsi anche con la semplice presenza di posti fissi. La notificazione di una presa di possesso doveva essere poi trasmessa alle potenze firmatarie dell’atto di Berlino, agli Stati Uniti e a tutti i Paesi europei, ivi compresa la Turchia (ma non alla Svizzera e agli Stati balcanici). Ogni Stato già insediato in Africa poteva far avanzare le frontiere dei suoi possedimenti verso l’interno fino al punto in cui arrivava a interferire con una zona di influenza vicina o con uno Stato organizzato. A quel punto, un negoziato specifico aveva il compito di fissare i limiti reciproci. Nella maggioranza dei casi sarà il rapporto di forze del momento che stabilirà la soluzione del problema fra gli Stati concorrenti. Nel 1885 gli Inglesi stabiliranno il loro protettorato sul Bechuanaland (futuro Botswana), per arrestare l’estensione, verso est, dell’Africa del sudovest tedesca, creata l’anno precedente. Gli Inglesi ritenevano questa estensione territoriale suscettibile di condurre a un pericoloso collegamento con le repubbliche boere dell’Orange e del Transvaal. In analoghe condizioni, i Britannici, oramai preoccupati di stabilire l’asse Il Cairo-Città del Capo, manderanno in rovina le speranze portoghesi nella regione, dall’Angola al Mozambico (la realizzazione della famosa Mapa Cor de Rosa) attraverso la valle dello Zambesi.
Questi diversi episodi evidenziano chiaramente il carattere, arbitrario o dettato dalle circostanze, della spartizione territoriale avvenuta in Africa durante la formazione dei diversi imperi coloniali. Tali frontiere, nate per effetto del caso o dei rapporti di forze del momento, saranno poi moltiplicate da suddivisioni amministrative o militari altrettanto arbitrarie, che verranno poi ereditate dai giovani Stati africani nati dalla decolonizzazione.
Partendo da una concezione territoriale di nazione ispirata ai modelli europei e, più in particolare, al modello giacobino francese, verranno così riunite in uno stesso contesto politico etnie o popoli differenti, spesso separati dalla loro lunga storia precoloniale. Questa concezione di “nazione” – i cui limiti e le cui contraddizioni si sono viste nell’Europa centrale e balcanica all’indomani della Prima guerra mondiale – sta manifestando i suoi effetti ancora oggi in tutto il continente africano.
Per saperne di più
John Fage, Storia dell’Africa, – SEI, Torino 1995
Bernard Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo – Bruno Mondadori, Milano 2007
Thomas Pakenham, The Scramble for Africa, 1876-1912 – Abacus, Londra 1993