Cattedra: Unioni di fatto, un fatto sempre meno strano anche in Italia

di Paolo M. Di Stefano -

“Tema sul riconoscimento delle coppie di fatto. Mediti, il candidato, la pagina qui di seguito riportata. ‘Nato come situazione di mero fatto, che solamente con la continuazione ininterrotta per un certo tempo (usus) si poteva trasformare in rapporto giuridico (matrimonio cum manu), il matrimonio sine manu ha sempre conservato una struttura conforme alle sue origini, benché in epoca ancora antica sia stato riconosciuto come fonte immediata di diritti e obblighi, cioè come rapporto giuridico esso stesso. Non è dunque, come erano la confarreatio e la coemptio e com’è il matrimonio moderno, un negozio giuridico che si compia una volta tanto per produrre nel tempo successivo i suoi effetti: ma è una relazione continuativa che mentre ha effetti permanenti da certi punti di vista (ad esempio per quanto riguarda la legittimità dei figli) produce in altri campi i suoi effetti solo per il tempo della sua durata, e che ciascuna delle parti può far cessare quando voglia. Due sono gli elementi di durata su cui poggia il matrimonio sine manu. Uno di fatto, esterno: la convivenza tra marito e moglie. L’altro, morale ed interno: l’affectio maritalis o intenzione di trattarsi come marito e moglie. L’elemento morale è quello che sovrasta, sicchè in massima per quanto riguarda la continuazione dello stato coniugale già iniziato, l’elemento materiale si riduce in pratica ad un contegno onde univocamente risulti l’affectio maritalis.’ (Vincenzo Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Editrice Jovene, Napoli 1960, pag. 436 e segg. Nota: testi più moderni non mi sembra abbiano innovato in materia, e allora ho preferito citare uno di quelli sui quali ho studiato).

Il candidato:

- esponga le ragioni per le quali la nostra cultura moderna deve profondamente vergognarsi della elaborazione effettuata dal diritto romano nel corso dei secoli. Facendo preciso riferimento ai “sacri testi”, dimostri che occorre evitare con la massima cura possibile che quell’antico e primitivo diritto continui a svolgere la sua perniciosa influenza sui legislatori di oggi e sui giudici ispirando leggi e sentenze in qualche modo collegate agli imperatori, con particolare riguardo a Giustiniano. Nel caso di specie, dimostri come proprio perché il diritto romano riconosceva e regolava le coppie di fatto e gli effetti della loro unione, occorre oggi inventare qualcosa di nuovo e di diverso;

- dimostri come bene abbiano fatto i legislatori a rendere non indispensabile lo studio del diritto di Roma agli iscritti alle facoltà di giurisprudenza. Anzi: analizzi il candidato l’opportunità di interdire ai laureati in giurisprudenza l’occuparsi della applicazione delle leggi e, in particolare, vieti loro, anche comminando pene acconce, l’interpretazione della norma. Argomenti il candidato come, nella dannata ipotesi che anche ai laureati in legge si dovessero consentire quelle funzioni, si tratterebbe di una inutile duplicazione, dal momento che queste attività possono essere tranquillamente svolte da laureati in scienze politiche, meglio se non provenienti da licei classici. E meglio ancora da persone non corrotte da studi universitari. E dimostri anche il candidato come questo modus operandi realizzi o contribuisca a farlo quell’anelito di democrazia che anima la nostra superiore civiltà e che nel diritto romano è sempre stata assente o quanto meno assolutamente parziale;

- guardi con particolare attenzione alla assoluta ingiustizia perpetrata dai giuristi di Roma quando hanno dimenticato (o, peggio, si sono rifiutati) di estendere gli istituti matrimoniali alle coppie omosessuali, esponendo a fondo le ragioni per le quali le coppie omosessuali avrebbero dovuto (allora) e devono (oggi) essere equiparate alle coppie eterosessuali sopra tutto in ordine alla generazione della prole e alla educazione dei figli anche adottivi. Dimostri il candidato, in particolare, come ai fini della prosecuzione della specie la generazione dei figli, sopra tutto se perseguita ed ottenuta con metodi naturali, sia assolutamente indifferente e come, anzi, far figli seguendo il sistema classico costituisca a un tempo una insostenibile limitazione alla ricerca scientifica, al progresso della scienza e quindi della civiltà, ed una pratica non perfettamente igienica e quasi senz’altro dannosa alla salute. Stabilito anche che l’educazione dei bambini e dei giovani è un puro optional da evitarsi per quanto possibile, esponga il candidato i benefici che i piccoli trarrebbero dal crescere in una famiglia omosessuale e quelli che l’intero gruppo sociale riceverebbe una volta che siano diventati adulti.

- dimostri il candidato come l’equiparazione delle coppie di fatto eterosessuali a quelle omosessuali sia in buona sostanza una scelta obbligata, dal momento che nessuna differenza è possibile riscontrare tra le due realtà. Sempre e comunque si tratta di rispettare la volontà di uomini e di donne liberi, ai quali nessuno ha il diritto di imporre uno stile di vita contrario a quanto da ciascuno di loro desiderato. E dimostri anche il candidato come lo stato di fatto debba essere considerato prevalente di fronte alla norma giuridica e come eventuali norme dell’ordinamento contrarie ad esso siano, prima ancora che ingiuste, illiberali e immorali.

- dimostri infine il candidato come la pienezza del riconoscimento dei diritti e della tutela giuridica alla famiglia definita con termine assolutamente improprio “tradizionale” (quella composta da un padre maschio, una madre femmina e da figli assortiti) costituisca non soltanto una inammissibile forma di privilegio e di ingiustizia sociale ma per di più si dimostri, a lungo andare, perniciosa per la società.”

Procedo in ordine (quasi) sparso.

Nonostante tutto, ancora una volta, forse, la soluzione potrebbe essere più semplice di quanto non appaia. Soprattutto se si parte da una base non discutibile più che tanto: la procreazione, l’evento più naturale che esista. Non solo: è il modo attraverso il quale si perpetua la specie che è fatta “anche” ma non prevalentemente di persone omosessuali, alle quali la natura impedisce la procreazione e le quali, dunque, per forza di cose occupano nella specie una posizione diversa, non solo, ma anche in qualche modo inferiore. Il principio fondamentale è comunque costituito dai “diritti” di cui godono e non possono non godere i figli, i semi del futuro.

Dunque, a mio avviso si può pensare che in termini di “unioni” si possano disegnare:
- quelle che hanno luogo tra persone in grado di generare figli attraverso il ricorso a quel rapporto fisico tra di loro preordinato dalla natura, indipendentemente dalla volontà di farlo ed anche indipendentemente dalla presenza di carenze fisiche riguardanti il singolo componente la coppia;
- quelle che avvengono tra persone che ab origine non sono in grado di generare figli perché appartenenti allo stesso sesso e dunque “naturalmente” impotenti a mettere in atto il rapporto a ciò naturalmente preordinato.

In entrambi i casi, le unioni possono essere:
- formalizzate, oppure
- di mero fatto, che significa non formalizzate da quello che oggi noi chiamiamo “matrimonio”.

Io credo che la conseguenza più importante di questo ragionamento – se corretto – sia la circostanza che al vertice della questione si debba porre la “predisposizione naturale ad un rapporto sessuale oggettivamente in grado di generare figli”. E dunque diviene assolutamente ovvio che – almeno allo stato attuale della natura umana – ai fini della individuazione della primazia tra le unioni non possa che pensarsi alle unioni eterosessuali.
E si noti bene: si tratta di una primazia “assoluta” perché “assolutamente naturale” e quindi tale da portare a qualificare come “fonte di disturbo” e “contraria alla natura umana” qualsiasi tentativo di equiparazione delle unioni omosessuali.

E se di primazia si tratta, occorre ricordare che nella società umana (e non solo) e in pratica la “primazia” significa “prevalenza giuridica ed economica di attribuzione dei diritti e di tutela”. E, forse soprattutto, significa chiara definizione della natura dei fenomeni, in particolare delle “unioni”.
La pienezza dei diritti va senza dubbio riservata alle unioni del primo tipo, per le ragioni già dette: alle altre, si può giungere a riconoscere tutti quei diritti che:
- non abbiano nulla a che vedere con la procreazione naturale, e che
- non ledano in alcun modo i diritti e quindi la vita e lo sviluppo delle unioni che possono provvedere alla procreazione naturale.

Viene allora in evidenza l’opportunità di formalizzare l’unione eterosessuale al fine di identificare esattamente il soggetto della pienezza dei diritti.
Il matrimonio è questa formalizzazione, e lo è ad substantiam. Significa che l’unione si riconosce in quanto matrimonio e acquista rilevanza perché è il matrimonio che ne disegna i contenuti.

Consegue che le coppie eterosessuali che decidono di non contrarre matrimonio pur essendo in grado di generare naturalmente e pur facendolo, così come liberamente hanno scelto di non formalizzare il rapporto, liberamente hanno scelto di rinunziare ad alcuni dei diritti che nascono dal matrimonio. Diritti che lo Stato può estendere, ma che, se lo facesse, comporterebbero confusione, fino a rendere probabilmente inutile la formalizzazione delle unioni, e quindi pregiudicandone l’esistenza stessa. In altre parole, tutte le unioni tra eterosessuali sarebbero eguali, e dunque tutte le unioni avrebbero gli stessi contenuti di diritti.
Che sarebbe una scelta, legittima ma non priva di conseguenze per la società. Per esempio, due che si uniscono senza formalità alcuna garantirebbero in misura ridotta la sicurezza della prole, la sua educazione (…) almeno nel senso che i figli non potrebbero beneficiare di diritti che sono riservati e costitutivi delle unioni formalizzate nel matrimonio.

La questione tutta delle unioni – anche di quelle omosessuali, ovviamente – mi pare sia complicata dal considerare i termini “matrimonio” e “famiglia” coincidenti, quasi sinonimi. Forse, assegnando alla “famiglia” un ruolo generale di contenitore, qualcosa cambierebbe.
Nella tradizione romana, che è la nostra e di altri Paesi non solo europei, la “famiglia” è appunto un contenitore all’interno del quale occupano un posto ben definito:
- le unioni composte da marito, moglie, figli nati in costanza di matrimonio, formalizzate dalla confarreatio e dalla coemptio e, per quanto concerne i contenuti di diritto, dalla manus maritalis, che comporta una sorta di primazia del ruolo del marito e qualche complicazione in caso di divorzio;
- le unioni composte da marito, moglie, figli nati al loro interno, non formalizzate da una qualsiasi liturgia matrimoniale, bensì fondate sull’usus, sulla convivenza la quale è comunque costitutiva di diritti e di doveri, diversi da quelli generati dalla confarreatio e dalla coemptio, in un certo senso meno numerosi ma non per questo portatori di negatività. Si pensi, ad esempio, alla maggiore libertà della donna, che in questo tipo di unione non è sottoposta alla manus maritale, anche se, probabilmente, non può godere di garanzie particolari in caso di divorzio;
- le unioni composte da persone dello stesso sesso, nel diritto romano non prese in considerazioni proprio perché non in grado di generare figli, ma non per questo – almeno per quanto ne so – demonizzate e punite: l’omosessualità beneficiava di una sorta di “constatazione di esistenza”, forse non da tutti apprezzata ma scandalosa non più che tanto e forse anche non “delittuosa”.
Resta che se esistesse traccia di unioni omosessuali, queste si dimostrerebbero “categoria” della famiglia.

È sufficiente per invitare a ripensare circa la coincidenza tra famiglia e matrimonio?
Il ridurre il concetto di “famiglia” a quello di “matrimonio” sembra una forzatura o comunque una elaborazione forse neppur tanto giustificata da una visione religiosa. La confarreatio, ad esempio, era un vero e proprio matrimonio religioso e, come abbiamo visto, soltanto una “categoria” componente la famiglia.
Se tutto questo – e quanto non detto per ovvie ragioni di spazio e di tempo – ha qualche senso, non sarebbe il caso di invitare i “difensori della famiglia” (quelli che proprio mentre stilo questa nota sono a Roma per dimostrare) ad approfondire il loro pensiero proprio nel senso che “famiglia” non vuol dire esclusivamente “matrimonio”?

Non potrebbe darsi che la questione potrebbe essere più facilmente risolta se si parlasse di:
- unioni formalizzate dal matrimonio (religioso o civile);
- unioni “dichiarate”, ma non formalizzate se non attraverso una dichiarazione di convivenza.
Di queste ultime, potrebbero far parte le unioni omosessuali, che acquisterebbero così gli stessi diritti delle unioni eterosessuali, con la sola limitazione che, non potendosi parlare di procreazione “interna”, vedrebbero ridotto il proprio patrimonio di diritti proprio in materia di rapporti con i figli eventualmente generati in precedenti unioni dichiarate o formalizzate di tipo eterosessuale.
Una possibile riduzione dei diritti potrebbe immaginarsi stabilendo il divieto di adozione dei figli del partner, e l’automatica assegnazione di essi a quella parte della precedete unione che ha conservato la caratteristica della eterosessualità. E questo nell’esclusivo interesse dei figli, i quali hanno il “diritto naturale” ad una padre e ad una madre e quindi ad un ambiente eterosessuale.