Cattedra: “Un mot à Matteo Renzi”

di Paolo M. di Stefano -

Ho scomodato Rossini, il cui “un mot à Paganini” è forse la sola testimonianza della stima e della ammirazione che Gioacchino nutriva per Nicolò. Era un’Italia Maestra della musica e non solo, e lo era in tutto il mondo. Era un’Italia colta. E gli Stati Europei pendevano dalle sue labbra e dalla sua musica. Dalla musica… linguaggio universale, immediato quanto difficile.
Ma questa è un’altra storia.

L’Italia si è espressa in Europa e per l’Europa. E questo ha fatto premiando alla grande qualcosa di non facile individuazione. Forse non un Partito Democratico, che non appariva granitico e determinato più che tanto, come forse sarebbe stato opportuno, bensì orientato all’attendismo che, come sempre in politica, più che prudenza e saggezza sembra semplice attesa: attesa, della caduta del leader, nel silenzio quasi assoluto dei vecchi ma non del tutto rottamati politici di lungo, lunghissimo, variatissimo corso; oppure (o anche) attesa del momento opportuno per saltare sul carro del vincitore.
Il quale vincitore non è il partito, ma il suo segretario Matteo Renzi: è riuscito a “vendere” la concretezza e la rapidità assieme ad un ringiovanimento di parte (almeno) della compagine ministeriale. Il tutto, unito alla forma: una certa educazione ed un certo rispetto per gli interlocutori di qualsiasi livello e in qualsiasi circostanza.
Quasi certamente, un’operazione in gran parte mediatica, opera di una comunicazione non so quanto consciamente bene organizzata, ma certamente carica di suggestioni diverse da quelle tradizionali. Generazione giovane, voglia di fare, uso almeno in apparenza consapevole del tempo come risorsa, lampi di vicinanza agli interessi della gente e decisioni attese da tempo immemorabile.

Renzi ha vinto, e vincendo si è infilato in una serie pressoché infinita di problemi, la cui soluzione dovrà cercare e trovare da solo, più ancora di quanto non sia successo fino ad ora.

Non a caso, infatti, circoli di solito molto vicini al PD e creati da personaggi noti e forse anche prestigiosi, contornati peraltro dalla solita corte di opportunisti, cavalcano dubbi e distinguo senza offrire alternative che non siano motivate soltanto dalle resistenze ad ogni cambiamento in una con la preoccupazione di perdere quel tanto o poco potere di cui attualmente godono. E ciò fanno abbarbicandosi ai grandi temi di sempre, dalla Costituzione al Lavoro alla Giustizia all’Economia. Argomenti di così ampia portata da divenire nella pratica pure astrazioni.
E poi, la becera urlante opposizione, ormai tradizionale, che nulla offre oltre alla critica ed al rifiuto di qualsiasi progetto in via del tutto preconcetta. E che non esita a combattere la politica con le armi più datate e insulse della politica stessa. Tra queste, il non mantenere promesse solenni, quali l’abbandono in caso di sconfitta, e il parlare di “sostanziale vittoria” anche in caso di una sconfitta tutt’altro che di lieve entità.
Magari curando il mal di pancia con un farmaco la cui immagine non sono sicuro sia aumentata a seguito dello sketch televisivo di un ex comico oggi tragicamente ridicolo.
E forse anche affidandosi all’evocazione del figlio del sedicente guru della comunicazione del movimento, in questo confermando un diffuso atteggiamento dell’Italia piccola e modesta, secondo la quale i figli “so’ piezz ’e core”, in una con la certezza che “ogni scarafone è bello a mamma soia”.
Oppure – o anche – l’ormai patetica insistenza del presidente di un partito che al potere c’è stato, contribuendo alla crisi economica e sociale di cui l’Italia è vittima, e che il potere esercita per vie traverse, profittando della disponibilità al dialogo e dello spirito democratico di quelli da lui indicati più volte come il male assoluto. A me pare che una delle caratteristiche peculiari di questa parte dell’opposizione sia costituita dall’inaffidabilità di ogni e qualsiasi affermazione ufficiale e solenne del presidente, aduso a cavalcare tutto e il contrario di tutto, ed a smentirsi pochi momenti dopo l’aver annunziato il vangelo. Naturalmente, in vista della difesa di interessi propri e dei soliti sodali i quali, per di più, sembra attendano il riconoscimento di una nuova famiglia reale e di una principessa ereditaria, in una con l’assunzione di tutti i poteri e l’asservimento della magistratura e del parlamento.
Già visto tutto, o quasi.
E già tutto o quasi in gran parte combattuto e, almeno sulla carta, sconfitto.

Credo che il pericolo più immediato che Matteo Renzi corre sia quello di “comportarsi da vincitore”. Significherebbe non aver chiaro che la vittoria è stata determinata in percentuali altissime dalla incapacità e dalla vacuità degli avversari, e dall’antipatia che sono riusciti – in modi e per ragioni diverse – ad ingenerare nella popolazione. E neppure avere coscienza che le promesse annunziate e mantenute solo in parte non sono sufficienti: occorre individuare scambi politici concreti e quindi pianificare, produrre e comunicare perfettamente.

Ecco: comunicare. E’ uno degli elementi essenziali dello scambio, di qualsiasi scambio, e in Politica appare come quello più importante. Anche per questo il prodotto “comunicazione” va affidato a gestori competenti, professionisti ed eticamente (oltre che politicamente) impegnati. Lo sbaglio più grande commesso dall’ex comico mi pare possa essere indicato proprio nell’avere affidato la comunicazione del movimento ad uno dei tanti che, almeno nel nostro Paese, si “vendono” come professionisti del marketing, della distribuzione, della comunicazione e di quant’altro, con lo stesso sistema utilizzato dai politici: l’improvvisazione e la sicumera. Così come, invece, la forza dell’altro oppositore fu a suo tempo costituita dalla personale abilità di “venditore” e quindi di comunicatore, almeno per quella parte che direttamente e immediatamente opera sulla formazione del consenso: la “vendita”, appunto.
In entrambi i casi, a mio parere è stato commesso un errore dovuto alla scarsa professionalità nella produzione e nella distribuzione del “prodotto comunicazione”: il vendere prodotti in gran parte inesistenti; quando pure esistenti, privi di contenuti importanti; quando qualche contenuto ci fosse stato, carente di quella qualità necessaria a soddisfare in tutto o in parte i desideri dei portatori dei bisogni “politici” di riferimento. A questo, si aggiungono le caratteristiche formali del “prodotto comunicazione”: l’urlo e l’insulto, in un caso, l’ondivaga descrizione dall’altro.

Occorre che Renzi si occupi a fondo della comunicazione di sé, del Governo, del PD, senza nulla lasciare agli improvvisatori ed ai praticoni.
E questo è possibile soltanto se si “disegna un piano di gestione, un prodotto, una distribuzione assolutamente affidabile, convincente e verificabile”. E che tutto questo abbia le caratteristiche richieste dall’utilizzatore del prodotto politico il quale è ogni singolo componente la comunità di riferimento.
Se l’individuo non avverte una utilità per sé, non acquista il prodotto. Ma è anche vero che se “la comunità” non ha coscienza di sé, nel suo insieme e come individuo a se stante, come e in quanto comunità a sua volta non acquista.

E questo porta in primissimo piano il problema della “formazione” e della “istruzione”, attraverso le quali gli individui devono e possono esser formati ad essere membri di una comunità ed a comportarsi come tali; a “disegnare i bisogni” della comunità di riferimento; a “disegnare” i propri bisogni e quindi anche le proprie motivazioni ed i propri comportamenti alla luce ed in funzione dei bisogni della società.
Ecco allora che il compito più importante “caduto addosso” a Matteo Renzi – ma è funzione primaria di qualsiasi formazione sociale e dunque di qualsiasi Stato ed anche di qualsiasi unione di Stati – è l’occuparsi della gestione degli scambi relativi alla formazione ed alla cultura, pianificando i prodotti (beni e servizi), la distribuzione e la comunicazione di ciascuno.
Quella che va sotto l’etichetta di “pubblica istruzione” è quindi la materia più importante per un Governo e il Ministero cui è affidata la gestione è, a sua volta, quello più importante, perché responsabile della formazione dei bisogni e dei comportamenti di ogni e qualsiasi individuo in ogni e qualsiasi settore.

E qui vale proporre una meditazione, che investe, oltre che l’istruzione, uno dei comportamenti della Politica e non solo. E la Politica è ricca di comportamenti tradizionali che andrebbero se non cancellati almeno modificati.

Una delle massime adottate toto corde e praticate con pervicacia dalla politica e dalla burocrazia e non solo suona “promoveatur ut amoveatur”.
Anche sorvolando sulle conseguenze che si legano al principio di Peter e che portano alla (tragica) conclusione che ogni e qualsiasi carica finisce per esser coperta da incompetenti, a me colpisce la possibilità della sua utilizzazione in modo consapevole a vantaggio proprio di colui che ne è oggetto.
Un segretario di un qualsiasi partito può – e non è raro il caso che così sia – essere incaricato di coprire uno dei Ministeri, con promesse di rinnovamento, come fanno tutti i Governi e tutti i Ministri. Ed è possibile che la segreteria del partito costituisca già il livello di incompetenza ricordato da Peter. In questo caso, i risultati positivi, già meramente eventuali, non si avvererebbero proprio anche per l’incompetenza del responsabile. Il quale, però, grazie a quella segreteria è divenuto Ministro, forse anche in virtù di meriti di carriera non valutati abbastanza a fondo al di là delle apparenze o dei titoli e delle prebende.
Accade, cioè, che il partito in una consultazione elettorale a stento si avvicini alla seconda metà dell’uno per cento.
Come ragiona il segretario? “Rassegno il mandato nelle mani degli iscritti”, dice, guardandosi comunque bene dal lasciare l’incarico di Ministro.
Ciascuno sa che dimettersi, in Italia, è talmente raro da esser divenuto segno di serietà e di onestà. In tal modo, il Ministro segretario dimissionario acquista un merito inconfutabile: le dimissioni, appunto.
Da segretario, ripeto, ma non da Ministro.
E’ possibile che questo rafforzi o quanto meno la poltrona.
Ma è anche possibile che un Presidente del Consiglio moderatamente avveduto, di fronte alla incompetenza politica dell’ex segretario, si lasci cogliere dal dubbio che, forse, anche il Ministero non guadagni dalla situazione e che l’immagine del Governo non ne esca rafforzata.
E che sarebbe bene che la poltrona di Ministro venisse assegnata diversamente.
Certo, si tratta di un ex segretario di un partito che fa parte della coalizione…Non possiamo dimetterlo tout court
Idea: noi italiani, grazie ai risultati elettorali, possiamo aspirare, perché è nostro diritto, ad un incarico di prestigio in Europa. E’ un fatto. Assegniamo quell’incarico all’ancora Ministro.
Promoveatur ut amoveatur, appunto. Come l’ex segretario e attuale Ministro aveva immaginato, l’incompetenza raggiunta e dimostrata gli procura un incarico di prestigio in Europa.
O forse anche no.
Il partito cui appartiene l’ex segretario ancora Ministro non è una presenza rilevante. In parole povere, non conta. E neppure conta più che tanto se chiede ed ottiene di entrare a far parte del PD.
Questo consente di dimettere il Ministro senza dovergli assegnare incarichi e vitalizi di sorta. E soprattutto, guadagnando un punto a favore dell’immagine del Governo e dell’Italia.
Un Presidente del Consiglio determinato, innovatore, deciso a rilanciare l’Italia in Europa e consapevole anche che ogni tipo di rilancio e di rinnovamento passa per la cultura e per la formazione e per la scuola…

Un Presidente del Consiglio con le caratteristiche appena indicate è anche in grado di valutare alcuni dei luoghi comuni che circolano in Italia e sono utilizzati come argomentazioni di vendita dagli interessati per meglio soddisfare o meglio conservare il potere e la ricchezza di cui (non tutti, peraltro) godono.
E’ il momento per farlo.

Non è vero che gli imprenditori operanti nel nostro Paese siano talmente preparati e professionali da poter competere con successo in Italia e in Europa e nel mondo.
Naturalmente, salvo eccezioni prestigiose e importanti.
La maggioranza degli imprenditori e dei manager italiani pare essersi dimostrata non in grado di gestire gli scambi di cui i prodotti delle proprie attività sono oggetto, e di farlo in modo che fossero preferiti ai prodotti concorrenti da parte degli utilizzatori e dei consumatori. Che non vuol dire che non si sia avuto più di qualche successo. Significa solo che il successo è del tutto casuale e, quando si verifica, precario.
Gli imprenditori italiani – sempre salvo eccezioni prestigiose e importanti – hanno troppo spesso tratto profitto principalmente da operazioni valutarie, totalmente ignorando le regole di quel “marketing” che hanno sempre creduto esser limitato alle ricerche (poche e spesso inutili ed anche costose), alla pubblicità (non eccessiva più che tanto, ma più che di sovente improvvisata e inconcludente: nel 1968, se ricordo bene, fu fatta pubblicità ad un detersivo “triologico”!) ed alla promozione delle vendite (fondata in genere sull’uso del prezzo, e quindi – almeno per il nostro attuale sistema economico – perdenti per definizione).
E per i manager…Una tragedia: qualcuno aveva letto una parte del Kotler, non aveva compreso granché ma aveva realizzato che bastava citarlo per acquistare la credibilità necessaria a sopravvivere in una impresa, il cui titolare ignorava spesso le caratteristiche dello scambio.
E per i docenti di marketing… una tragedia ancora, in particolare quelli che insegnavano (e insegnano) nelle nostre Università, alcuni dei quali non hanno visto un’impresa neppure per sbaglio e non conoscono nulla del mercato. Eppure, insegnano marketing internazionale oppure gestione d’impresa oppure ancora marketing finanziario o anche comunicazione internazionale e questo fanno a danno di giovani fiduciosi.
Allora è forse il caso di prendere in considerazione la possibilità di lavorare in termini di “formazione alla professione di imprenditore” e “formazione alla professione di manager d’impresa”, e di impedire che – come accade da noi – chiunque non sappia far niente e niente abbia fatto si improvvisi e si venda come “consulente” d’impresa, di comunicazione, di pubblicità… Così come sarebbe opportuno rivedere la formazione professionale della burocrazia e dei burocrati: gli “impiegati dello Stato” non sono per definizione incapaci, inconcludenti, profittatori e quant’altro. Si tratta spesso di ottimi elementi ai quali manca quella formazione corretta che potrebbe derivare da una scuola che, insegnando la “professione di impiegato e dirigente pubblico”, prepari a “ragionare e praticare in modo sociale”. Che vuol dire anteporre la soddisfazione dei bisogni e gli interessi “comuni” a quelli individuali.
E che vuol anche cominciare ad insegnare che profitto ed utilità sociale sono le due facce di una stessa medaglia.
Con la consapevolezza che la funzione delle università è quella di preparare i giovani a specializzarsi, non di produrre specialisti nelle singole discipline.
Forse, l’accettare questo principio imporrà un qualche cambiamento nel numero delle università e degli insegnamenti e, soprattutto, nella qualità di entrambe.
E anche, forse, nella ripartizione delle risorse pubbliche, le quali andrebbero destinate innanzi tutto alla qualità “degli scambi relativi all’istruzione ed alla formazione” da parte della Comunità. Che non significa troncare i rapporti con i privati, bensì soltanto garantire l’eccellenza della formazione pubblica.

Tutto questo potrebbe anche costituire una indicazione di cosa fare in Europa e per l’Europa, anche provvedendo ad impedire che si continui a “vendere” agli elettori italiani (e non solo) l’idea di sfasciare l’Unione, di cancellare l’euro, di abolire l’unità d’Italia.
Se siamo convinti che si tratti di falsità e di impossibilità, magari anche suggestive e per questo ancor più pericolose, perché non stabilire che ogni e qualsiasi tentativo di dividere l’Europa, così come di dividere l’Italia, è un reato?
Con quel che ne segue.
Infine: siamo proprio sicuri che l’Italia si affermi in Europa e nel mondo “parlando inglese”? Che i corsi del nostro prestigioso Politecnico di Milano si vendano meglio se svolti in inglese? Forse, il successo degli architetti e degli ingegneri italiani non è dovuto alla lingua, ma alla qualità degli insegnamenti. O no?
Francesco in Terra Santa mi pare abbia parlato italiano… Sempre che non si sia trattato del miracolo di Pentecoste: ciascuno ha compreso lo Spirito Santo nella propria lingua.