Cattedra: Ultime da Aristofane

di Paolo Maria di Stefano -

Economia, tormentone da sempre, così come da sempre lo è la Politica e, ovviamente, gli annessi e connessi che vanno dai rapporti tra le due discipline alla valutazione delle persone destinate ad occuparsene, ai dubbi se sia meglio un Politico oppure un Tecnico al dicastero dell’Economia.
Forse qualche meditazione “trasversale” può aiutare.
Non tanto i Politici, la cui autoreferenzialità è ampiamente conosciuta, ma ciascuno di noi a comprendere meglio quanto accade.
A partire dal 1500 circa, tutti gli economisti – con riguardo particolare agli accademici – hanno assunto le sembianze dell’edera (nota quanto esteticamente piacevole infestante parassitaria) abbarbicandosi a sir Thomas Gresham, l’inglese divenuto celeberrimo per l’enunciazione di quella che va sotto il nome di “legge di Gresham”: la moneta cattiva scaccia la buona. I sacri testi la citano tutti, anche ricorrendo ad esemplificazioni banali per meglio farne comprendere la portata.
E come tutti gli autori di testi ritenuti “sacri”, sir Thomas vive ancor oggi di gloria e di rendita.
Più ancora di Teodoro Mommsen, che nel 1850 circa arricchiva la sua Storia di Roma di orpelli suggestivi quanto fantasiosi (o quanto meno indimostrati), e più di tanti altri, allievi nell’arte di decorare la verità, peraltro già di per sé più che problematica.
Poi la fantasia sembra essersi spenta – e non per amor della scienza – e agli inventori della storia e dell’Economia del mondo contemporaneo non resta che l’ingenua quanto dispendiosa credulità di lettori accalappiati con bieche argomentazioni di vendita, oppure di altrettanto biechi profittatori dell’ignoranza altrui per costruire e mantenere potere e danaro. Oppure ancora – che è la cosa peggiore – la fiducia di studenti ai quali docenti che nulla sanno somministrano pozioni di non-cultura che saranno pagate a caro prezzo da tutti.
Anche perché è su di queste che i Politici basano tutto il loro sapere, così almeno in parte giustificando quella che oggi qualcuno chiama “anti Politica”, anche dimostrando di non aver capito più che tanto. L’anti Politica è, infatti, una pura invenzione neppure troppo intelligente. Al massimo, si dovrebbe parlare di “repulsione per i politici”, che della Politica hanno fatto mero strumento di arricchimento a beneficio di pochi (e naturalmente a scapito della maggioranza), in questo suffragando il Pareto del “venti/ottanta”.
E via così. Si può divagare all’infinito, come sempre accade quanto ci si occupa di Politica e di Economia, fonti inesauribili di delusione per quella “gente comune” che – si narra – dovrebbe essere depositaria della sovranità.
E allora…
E allora, sir Thomas Gresham vive di rendita su qualcosa che Aristofane aveva trasmesso agli spettatori di allora – attentissimi quanto pazienti- con il suo “Le Rane”.

Un salto nella storia
Forse è vero che non c’è null’altro da fare, se non attendere lo sviluppo degli eventi.
E prendere atto, anche, che mentre gli eventi, la cronaca, sono frutto immediato delle nostre azioni e quindi in qualche modo “dipendono” da noi (almeno in quanto attori), il loro sviluppo sembra essere regolato da leggi che a noi sfuggono, e che quindi – non conoscendole se non da un punto di vista puramente formale, epidermico quasi – non ci mettono in grado di prevedere gli effetti e le evoluzioni di quanto abbiamo fatto o non fatto più o meno consapevolmente.
E forse è anche vero che non si possa dubitare della veridicità della pillola di saggezza popolare che nega ogni valore a quell’historia magistra vitae che Cicerone proclamava nel suo De Oratore.
Con una avvertenza. E’ diffuso almeno quanto cretino il sostenere che la storia non abbia mai insegnato niente a nessuno: la verità sembra, piuttosto, che solo pochi riescano ad imparare dalla storia la quale insegna e come e quanto, ma sempre di più parla a sordi e mostra a ciechi.
Salvo le debite e concrete eccezioni, anche in forza di un altro “sentire” generale che si esprime “non c’è regola senza eccezioni” dimenticando – fece notare qualcuno – che anche questa essendo una regola ha le sue eccezioni. O potrebbe averle.
Significa che da qualche parte esistono regole senza eccezioni.
E se una di queste fosse quella che recita “la moneta cattiva scaccia la buona”?

Siamo duemila anni prima di Gresham e circa duemilacinquecento prima di noi quando Aristofane fa dire al suo corifeo:
“Spesso abbiamo notato che nei confronti dei buoni cittadini la città si comporta come la moneta antica con quella nuova. I pezzi non falsificati, quelli migliori tra tutti, coniati secondo le regole, validi dappertutto tra i Greci e tra i barbari, noi non li usiamo, e preferiamo invece questa robaccia di bronzo, fatta non più tardi di ieri col conio peggiore. Così anche tra i cittadini, quelli che conosciamo per nobili, saggi, giusti, educati nelle palestre, alla danza, alla musica, questi li scartiamo, e ci avvaliamo invece delle facce di bronzo, forestieri, furfanti e figli di furfanti, gli ultimi venuti, che un tempo la città non avrebbe usato nemmeno come capri espiatori. Ma almeno adesso, sciocchi, cambiate sistema, tornate a usare le persone utili: se avrete successo, bene; se fallite, almeno diranno i saggi che qualunque cosa vi succeda vi sarete impiccati a un buon albero”. (traduzione di Guido Padovano – BUR, classici greci e latini con testo a fronte).

Avevo a disposizione anche una traduzione ad opera di un grecista a me ignoto, in versi a rima baciata: interessantissima, perché probabilmente molto datata e dunque anche atta a sottolineare la antichità del riferimento. Ed è forse bene anche chiarire subito che di “antichità” si tratta, e non di vetustà o addirittura di obsolescenza dell’analisi.
A puro titolo di saggio:
“Agio avemmo spesse volte d’osservare come Atene
A quel modo coi più onesti cittadini si contiene
Ch’usa pur con le monete vecchie e il nuovo princisbecchi.
Tutti sanno che fra quante mai n’usciron dalle zecche,
vuoi d’Elleni, vuoi di barbari, dappertutto, quelle sono,
e non altre, le più belle: quelle che rendono buon suono,
hanno quella buona impronta, sono prive di mondiglia
Pure, Atene non le adopera, e ai bronzini oggi s’appiglia…”

Duemila cinquecento anni! Le Rane sono del 405 a.C.! Già a quel tempo, Aristofane sosteneva che la legge oggi nota come “di Gresham” si applicava non soltanto alla moneta, ma investiva e regolava i rapporti tra gli uomini.
Non sapeva, Aristofane, che mi avrebbe tolto l’illusione di essere stato io, molti anni orsono nell’occuparmi di gestione degli scambi, a sottolineare il fenomeno in forza del quale non soltanto in Economia la moneta cattiva costringe ad uscire dal mercato quella buona, ma la stessa cosa accade per gli esseri umani e per le loro costruzioni “istituzionali” (e non solo). In tutti i rapporti, in tutte le transazioni, particolarmente quelle che si definiscono “politiche”, la mediocrità tende a sostituire l’eccellenza; l’ignoranza, la cultura.

Tornando alla mia delusione, nessuno che non abbia almeno ottanta anni e non abbia a suo tempo frequentato il liceo classico sembra aver mai sentito nominare Aristofane: una parte della mia “creatività” è giustificata dall’ignoranza altrui.
Come sempre accade, perché tutto è relativo.
Una cosa è certa: da almeno duemilacinquecento anni la moneta cattiva scaccia dal mercato quella buona. Così, nella società, in Politica e sul mercato rimane il pattume, la cultura e l’etica restando tesaurizzate lontano dal quotidiano, e molto spesso raccolte e conservate invano da predestinati all’oblio. Esattamente come accade anche per l’educazione, la c cortesia, il rispetto per gli altri e, purtroppo, anche per la libertà, che non a caso sembra avvicinarsi sempre di più all’anarchia.
E l’Italia – maestra di civiltà- sembra essere concreto esempio di come i versi di Aristofane avrebbero potuto essere scritti ancor oggi, senza neppure il rischio di apparire superati.
E per quanto io possa saperne, è soltanto la verità a godere del privilegio dell’incorrotta immortalità.
Ma la verità abita troppo spesso nelle stanze del mistero.

Una sbirciatina alla cronaca
A me pare che esista un altro principio, che “legge” propriamente non è, ma che non per questo appare meno realistico e praticato: mai dimettersi dalla carica ricoperta, per nessuna ragione al mondo, a meno che non si tratti di una questione di vita o di morte (fisica, perché quella morale non ha più senso) oppure (accade molto più spesso di quanto non si possa supporre), di uno scambio vantaggioso. Che può anche consistere nella impunità. E la cronaca è ricca di esempi, alla portata di tutti anche perché da tutti in qualche modo avvertiti e vissuti.
Le dimissioni volontarie e irrevocabili sembrano relegate e patrimonio esclusivo delle persone perbene. E dunque di una minoranza – in Politica, certamente, ma non soltanto – che crede in quelle strane cose che si chiamano “valori” e che ha ancora il senso della dignità della persona e della carica. Il problema (uno dei problemi) è che le dimissioni di una persona perbene e capace lasciano libero un ufficio che viene immediatamente occupato da qualcun altro, in genere molto meno capace e molto meno perbene.
Il quale, magari, gabella come “valore” l’ambizione smodata e trova sostenitori sufficienti per fargli da piedistallo.

E naturalmente eleva a sistema la menzogna, ancora una volta vendendola per “opportunità Politica”. Che, se si vuole, è molto simile al comportamento del venditore di un ronzino che ne decanta le virtù affinché il potenziale acquirente lo paghi come se fosse un purosangue, e nulla cambia se al posto dell’animale c’è un’automobile o una casa oppure anche una bottiglia di olio o un metodo di cura o, ancora… Da noi esiste la figura del dolus bonus, nei confronti del quale tutti noi assumiamo un atteggiamento normalmente conciliante: il negoziante che risponde alla nostra domanda che il prosciutto che lui vende è il migliore del mondo, secondo noi acquirenti fa il mestiere che gli è proprio, e nessuno di noi si attende che dica che la sua merce è scadente o addirittura pessima e che il concorrente di là dalla strada ha prodotti migliori.
Salvo, come di rito, eccezioni.
Il problema è che fino a quando si tratta di una mozzarella, forse la cosa può apparire non grave. Ma allorché non di mozzarella si tratta ma di gestione della cosa pubblica e quindi di Politica, secondo me le cose cambiano radicalmente, e quel dolus bonus acquista caratteristiche molto vicine alla “prava volontà di ledere altrui” che è la definizione giuridica del dolo. E se proprio si vuole pensare che il politico che promette sia in buona fede, allora è forse il momento di meditare sulla sua cultura e preparazione professionale, anche ricordando che ignoranza, imperizia, inosservanza di leggi e regolamenti per il diritto sono una colpa e non sempre lieve.

Il tutto, a prescindere da quella “promessa al pubblico”, cui i politici ricorrono ad ogni piè sospinto e che giuridicamente li obbligherebbe a mantenere gli impegni assunti con la promessa, appunto. E’ vero che in caso di inadempimento gli elettori hanno la possibilità di non rinnovare il mandato ai politici, ma a me sembra altrettanto vero che sarebbe opportuno ragionare in termini di “sanzione giuridica penale e/o amministrativa” e dunque esaminare la possibilità di introdurre una apposita figura di reato quando si tratti, appunto, di promesse politiche.
Con il che si metterebbe un freno alla propalazione irruenta quanto suggestiva di promesse relative ad una riforma al mese, che io mi auguro sia una manifestazione di ingenua speranza di un giovane che, se fosse un astronomo, si direbbe convinto di poter risolvere il problema della individuazione di pianeti abitati e di esseri viventi nell’universo in più o meno due mesi di osservazione.

Nella mia oramai lunga vita professionale (e non solo) non ho mai conosciuto un giovane, magari appena laureato in una qualsiasi delle dodicimila discipline nelle quali oggi è possibile conseguire il diploma, che non affermasse “se mi dessero il potere, io in tre giorni risolverei il problema dell’Economia” (o qualsiasi altro di moda). Quando ero giovane io, un amico appena iscritto alla facoltà di medicina e chirurgia ebbe a giurare che, se fosse dipeso da lui, il tumore lo si sarebbe vinto in tre giorni; io molto più avanti con gli anni, un laureato in matematica, responsabile del sistema informativo di un circolo milanese legato alla sinistra, ha messo per iscritto che se gliene avessero dato il potere i problemi della Economia sarebbero stati risolti in tempi brevissimi. In questo secondo caso, si trattava del rampollo di un docente universitario e dunque di un avente diritto alla cattedra in una università; nell’altro, solo delle speranze e delle illusioni di un giovane non dotato di privilegi particolari, per quello che ne so divenuto un apprezzato primario anestesista.

Anche perché assolutamente impreparati a stilare pianificazioni di gestione operative, a mia conoscenza nessuno, grazie a Dio, ha avuto questo potere taumaturgico, e nessuno è riuscito ad appropriarsene. Sono bastati i danni dei praticoni della Politica, non disgiunti da quelli provocati dalla improvvisazione, che in Politica regna sovrana.
Fino ad ora.

La cronaca ha registrato la fine del giochino tradizionale dei media, quel toto-ministri che ha imperversato fino a ieri e che, come accade da sempre, non si capisce bene se serva a bruciare i nomi di volta in volta indicati oppure ad aumentare le probabilità di nomina. Con molta probabilità, non serve a niente altro che a “fare notizia”, forse con gratificazione soprattutto per gli illustri ignoti, come accade per ogni citazione, da sempre e dovunque.
Il giochino è stato sostituito dall’altrettanto interessante ricerca spasmodica di qualcosa da dire su ciascun nominato, illuminandone la personalità e la carriera utilizzando “politicamente” le luci a disposizione.
Ed anche quelle che a disposizione non sono o non dovrebbero essere.
Il che si presta ad un pensiero non del tutto peregrino: io spero – e credo di non essere il solo, seppure io nutra più di qualche dubbio in materia – che Matteo Renzi abbia approfondito la conoscenza di ciascuno dei candidati ad uno qualsiasi dei ministeri, senza lasciarsi fuorviare da successi di carriera o da titoli accademici oppure anche da attuali posizioni in uno dei partiti che formano la maggioranza, troppo di sovente qui da noi frutto di familismo, di un arrivismo sfrenato e di un egocentrismo che non ammette orizzonti diversi dal proprio ego.

Vuol dire chiedersi che cosa di positivo, di costruttivo, di creativo il soggetto ha fatto per la struttura nella quale ha vissuto e dalla quale ha ricevuto i riconoscimenti di carriera, di stipendio, di potere. Troppi, in Italia, riescono a raggiungere traguardi importanti in tempi spesso assolutamente brevi, profittando della educazione e dello spirito democratico o anche soltanto dell’amor di pace di chi li circonda. E soprattutto, con titoli professionali (in senso lato) mediocri quando non insufficienti. Non è un caso che le nostre università siedano agli ultimi gradini della cultura mondiale, come non è un caso che le nostre imprese non possano vantarsi di essere la luce dell’economia del mondo.
Neppure – io credo – basta a fugare i dubbi la circostanza innovativa del numero delle signore chiamate a far parte della “squadra di Governo”. Seppure io possa affermare con cognizione di causa e per pluriennale esperienza che le donne sono state le migliori allieve dei corsi che tenevo – da professore a contratto e quindi biecamente sfruttato – all’Università e che le tesi di laurea meglio svolte e documentate sono state opera delle studentesse, non riesco a convincermi della bontà della scelta fatta sulla base del numero. Le donne non meritano incarichi perché fino ad ora – e tutt’ora- in minoranza nelle posizioni che contano, ma perché migliori degli uomini, più preparate, più concrete, più creative e più disponibili al dialogo, più disposte a ragionare in termini di “bene comune”, di “utilità pubblica”. Salvo eccezioni, ovviamente.
E se appena provo a valutare le scelte di Renzi con questi criteri… beh! qualcosa di più di un dubbio mi assale.

E allora…
E allora, forse è vero che non c’è null’altro da fare, se non attendere lo sviluppo degli eventi.
Significa che da qualche parte esistono o potrebbero esistere regole senza eccezioni.
Il giusto sentire della società, comunque, molto più spesso di quanto non si creda, smentisce il detto che afferma che la Giustizia non é di questo mondo. Non lo è, forse, in modo compiuto e brillante, e forse neppure immediatamente avvertibile, ma molte sono le probabilità che almeno in parte si realizzi. Per esempio, facendo in modo che chi tradisce sia a sua volta tradito da qualcuno che gli è simile e che egli ha scelto come collaboratore forse anche creduto fidato, ignorando proprio quanto somigliante gli fosse, e magari giustificando la scelta in base ai risultati da quello raggiunti proprio con l’ambizione smodata, con il disprezzo per gli altri e con la disponibilità ad utilizzare tutte le armi a disposizione. Pugnalata alle spalle compresa.
Perché, anche, è proprio di chi è accecato dall’ambizione dimenticare l’analisi delle attività altrui e dei modi con i quali l’alleato ha gestito e amministrato l’ufficio che gli ha procurato la qualifica di cui si fregia.
Salvo eccezioni, sempre lodevoli ma – anche – sempre più scarse. E quindi, ancor di più degne di lode. Memento per il Presidente incaricato.

Ancora, un pensiero.
Che è un secondo “memento” per il Presidente incaricato: occorre stilare una o più pianificazioni di gestione – meglio, una per ogni materia – e comunicarle agli italiani e non solo.
Ripeto: pianificazioni di gestione e non mere dichiarazioni d’intenti, arricchite al massimo dal nome di programmi.
Da anni, ormai, cerco di portare avanti questo principio: che la Politica deve elaborare piani di gestione “dello Stato”, determinando anche le priorità.
Con una prima immediata conseguenza: che i Partiti devono poter disporre di “teste” pensanti di altissimo livello, professionalmente e moralmente, in grado, appunto, di stilare affidabili piani di gestione, con tanto di risposte a quei famosi “5 W?” di cui tutti si riempiono la bocca, ma con i quali quasi nessuno ha mai avuto a che fare più che tanto.
E, almeno, con una seconda conseguenza, anch’essa immediata: un vero significato alle elezioni ed alla opposizione. Le urne approverebbero “piani di gestione”, e dunque darebbero a Parlamento e Governo precise indicazioni sul cosa, come, chi, quando, perché e dove.
E, terzo memento: il lavoro è un prodotto fatale. Significa che lo si crea pianificando le materie, i settori, i relativi cicli di vita: dall’attuazione delle pianificazioni e quindi dalle singole gestioni operative nasce fatalmente il lavoro. Che è una chiara indicazione di “come” si “crea” lavoro: individuando la priorità tra le attività assegnate allo Stato e pianificandone la gestione, e dunque anche individuando e valutando gli effetti in termini di “creazione di posti di lavoro”.

A proposito del lavoro, a me pare che molte cose sarebbero da approfondire, cose o del tutto ignorate oppure date per scontate.
Intanto, non ho mai sentito qualcuno che parlasse del lavoro come di un prodotto destinato allo scambio. Cosa, forse, talmente chiara a tutti da esser data per scontata. Anche perché da sempre “il lavoro” si produce e si vende esattamente come qualsiasi altro prodotto, e dunque è da sempre considerato nella pratica quotidiana un “servizio” destinato allo scambio.
Forse, a livello puramente inconscio.
Credo di aver notato che al lavoro non si è mai pensato come ad un prodotto servizio strumentale. Quanto meno, se qualcuno lo ha fatto mi è del tutto sfuggito. Nulla del genere ho trovato nei “sacri testi” e neppure in quei comunicati sindacali stilati in un linguaggio non di rado improbabile, contorto quanto oscuro, così tanto di moda negli ultimi trenta anni del novecento. E neppure, per la verità, nei discorsi dei sindacalisti di oggi i quali, tra l’altro, sembrano aver molto meno da dire di quelli di un tempo.
Probabilmente, i sindacalisti delle origini avevano un vantaggio: dovevano lottare per la conquista di condizioni migliori per chi “chiedeva lavoro” e dunque per chi proponeva in vendita un prodotto in fondo inflazionato e per questo, in forza della legge della domanda e dell’offerta acquistabile a prezzo bassissimo.
Oggi, i sindacalisti si trovano di fronte a dover difendere posizioni acquisite divenute in qualche modo e per più di una ragione non più rispondenti alle condizioni di mercato. E dunque, in pratica se non indifendibili, certo di difesa non facile. Il prodotto lavoro subisce gli effetti di una offerta tornata ad essere eccessiva e pertanto “da pagare a prezzi discendenti”. E sembra che siano proprio le “posizioni acquisite” in aggiunta al salario e agli stipendi ad esser causa importante della diminuita propensione dei potenziali “datori di lavoro” alla assunzione. Non dimentichiamo che la concorrenza nella “vendita di lavoro” vede proposte non solo a salari e stipendi più bassi, ma anche a condizioni “di completamento e contorno” molto meno impegnative per le imprese (e per gli Stati). E allora, la difesa a oltranza del “prezzo del lavoro” si rivela in gran parte perdente. E’ come pretendere che io consumatore paghi cinquanta euro per un prodotto che si trova sul mercato a venti o a quindici.
Che è esattamente quanto è accaduto e sta accadendo.
E che è anche il vantaggio che noi abbiamo lasciato ai cinesi, per esempio, e anche, sotto forme meno complesse, ai lavoratori dei Paesi dell’ex Unione Sovietica.
In soldoni: il lavoro all’Est dell’Europa costa meno. Io imprenditore lo vado ad acquistare là, a costo di spostare in tutto o i n parte la mia impresa. Ed anche: il prodotto cinese (diverso dal lavoro) costa meno. Io consumatore lo acquisto perché risparmio; io imprenditore, faccio la stessa cosa e non solo per il prodotto chiamato lavoro, ma per tutta una serie di prodotti “strumentali” e “complementari” i quali, se fabbricati ed acquistati in Italia, renderebbero eccessivo per il costo del mio prodotto principale, e per il mio potenziale cliente consumatore o utilizzatore il prezzo finale.

E tanto per riassumere: che il lavoro sia un prodotto è una diretta conseguenza del fatto che non esiste niente che non sia risultato di attività, e quindi prodotto. E proprio in quanto prodotto, il lavoro deve avere caratteristiche precise: la attitudine a soddisfare bisogni (l’utilità), la apprensibilità (chi ne ha bisogno deve poterne disporre), la conoscenza (il portatore del bisogno deve conoscerne le caratteristiche) e la limitatezza (che è la condizione prima, nell’attuale sistema economico, perché il lavoro possa avere un valore).
Se a questo si aggiunge la caratteristica della “fatalità”, ci si accorge immediatamente che non si può parlare di “creazione del lavoro” se non elaborando pianificazioni operative della gestione dei singoli fenomeni di scambio.
Non si crea lavoro se non decidendo dove, perché, chi, come, a quali costi, quando intervenire.
E’ pura tautologia.
Ma la tautologia non può essere fine a se stessa.

Ancora una volta, un barlume di luce sembra venire dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, il quale sembra intenzionato a “valorizzare” il nostro patrimonio artistico, che ancora una volta si afferma essere “il maggiore al mondo”.
“A prescindere”, avrebbe forse detto Totò.

Io sostengo da anni che il problema del turismo in Italia non è una questione di “beni culturali” a disposizione, e neppure di quel “marketing turistico” che si traduce in pratica in spese pubblicitarie elevatissime quanto inefficaci e attività promozionali costosissime quanto inutili, bensì di assoluta “ineducazione culturale” degli operatori a tutti i livelli alla gestione degli scambi di competenza. A cominciare da coloro che parlano di “marketing turistico” riducendo gli interventi a ricerche di mercato, pubblicità e promozione delle vendite, ignorando ancora una volta che il marketing è la gestione degli scambi, dalla ideazione alla produzione, alla comunicazione, alla apprensibilità di un prodotto – il turismo- che è per definizione prodotto complesso, oggetto di uno scambio assolutamente complesso a sua volta e che dunque “non deve” essere affidato alla i improvvisazione ed alla non cultura di cui oggi e da noi l’attività turistica (e culturale) è palesemente afflitta.
Salvo le solite eccezioni, che sembrano troppo poche, però.
Ho conservata nella memoria un fine settimana a Venezia, alcuni anni orsono, ovviamente mai più ripetuto. Un bagno di sangue tra sfruttamento bieco e totale del turista e maleducazione di albergatori, osti, custodi e quanti altri: la sensazione di esser null’altro che una vacca da mungere. Che deve anche ringraziare.
E ricordo anche qualcosa di simile sulla riviera amalfitana, dove tra l’altro un cameriere da gag cinematografica, alla fine di una colazione (pranzo di mezzogiorno) assolutamente mediocre in un ristorante con qualche pretesa estetica, chiese “tutto perfetto?”
Per non citare Pompei, tutt’altro che solo esempio di discutibile gestione.

Ricordo anche una seconda colazione in Francia, alla mensa Michelin a Clermont Ferrand alla quale eravamo capitati per puro caso, affamati e stanchi: non solo siamo stati ricevuti con cortesia e professionalità, ma il cesto di formaggi che ci è stato presentato lasciava senza fiato. Vino ottimo e conto assolutamente modesto. Da mensa operaia, appunto. Il tutto, sintomo evidente di una educazione al “turismo” parte integrante dei cromosomi. E una conferma che la nostra scelta di tornare in Francia almeno due settimane ogni anno era giusta. A proposito, avete mai avuto occasione di fare un raffronto “turistico” e non solo “per quantità di resti” tra Pompei e Vaison la Romaine?

Banalità. Ma cosa costa ricordare che il turismo è disciplina complessa, della quale fa parte anche la cultura dell’accoglienza e della ospitalità? E che, dunque, buona parte del successo è affidata alla formazione dei cittadini, oltre, naturalmente, che alla manutenzione dei siti e dei monumenti, alla professionalità delle guide e dei custodi, alla formazione degli amministratori (politici) alla gestione degli scambi turistici (…)?
Tutti settori, questi e quelli per brevità non ricordati, suscettibili – se oggetto di attente e coerenti pianificazioni di gestione – di creare posti di lavoro e ricchezza.
E, anche, di dar vita ad un indotto di non poco valore, al quale anche occorre pensare in termini di preparazione professionale.

E ancora, brevissima annotazione: guardatevi attentamente dagli uomini di marketing italiani, operanti o meno nelle imprese. Non dimentichiamo che non è assolutamente vero che noi si disponga di cultura imprenditoriale. L’Italia certamente ha a disposizione imprenditore illuminati, ma quanto a professionalità nella gestione degli scambi…

Ma c’è qualcuno che crede veramente alla capacità di imprenditori e dirigenti della Perugina nel formare il successo di quella Casa? Abili venditori di se stessi, questo sì. Ma non è un caso che Ferrero abbia successo ancor oggi, mentre la Perugina – e con essa Motta ed Alemagna – sono allo stato di fantasmi del passato? E qualcun altro crede veramente che il successo della Fiat sia stato realizzato grazie alla professionalità gestionale degli imprenditori e dei dirigenti degli anni dell’inizio? O non è piuttosto vero che, se fossero stati allora gestori capaci, la Fiat oggi…

Che non significa che non esistano eccezioni. Ma il problema sta nel fare delle capacità gestionali a tutti i livelli la normalità e dunque anche il vantaggio dell’Italia sui Paesi concorrenti.
Che non sarà mai il frutto della improvvisazione e neppure della fretta.