Cattedra: Sindacati, lavoro, economia. Non tutto ma un po’ di tutto

di Paolo M. di Stefano -

Il Parlamento legifera anche contro il Sindacato. Pare il senso dell’affermazione del Presidente del Consiglio, sulla quale si sono scatenati tutti o quasi i mezzi di comunicazione.
Anche perché non era mai successo che un Presidente del Consiglio, un Capo del Governo, un Primo Ministro prendesse così chiaramente posizione in una materia di assoluto rilievo quale è quella degli interessi dei lavoratori e dunque delle funzioni del sindacato e dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro (Stato compreso) e tra sindacati e Parlamento e, naturalmente, tra Economia e Politica.
E forse anche tra Politica e Democrazia.

Allora, intanto, una puntualizzazione che a me sembra assolutamente necessaria: Democrazia non significa assenza di autorità e neppure assenza di responsabilità.
Democrazia vuol dire che la sovranità è una prerogativa del Popolo, e che questo può scegliere da chi e come essere governato. E che, dunque, delega il potere, e quindi, l’autorità e la responsabilità. Che in sintesi estrema significa che la responsabilità dell’attuazione della volontà popolare è affidata a soggetti che “devono sapere” cosa il popolo vuole e “devono sapere” come raggiungere gli obbiettivi.
Ma soprattutto “accettano e si assumono la responsabilità delle proprie azioni”, e ciò possono fare in quanto in grado di disporre e di esercitare il potere necessario ad attivarsi.
Molto malamente, ma il concetto è sintetizzato in quell’attributo di “sovrano” che continua ad essere enunciato come “proprio del Parlamento”, il quale “sovrano” non è, ma esercita la sovranità popolare entro i limiti che gli sono attribuiti.
Non è “sovrano”, il Parlamento, ma per volontà popolare è dotato di autorità e di potere, come nessun’altra organizzazione.
E ciò perché “esprime lo Stato” nel suo insieme, nella sua totalità.
E questo può fare perché lo Stato in quanto soggetto in sé è portatore di bisogni ai quali, attraverso le strutture che gli sono proprie, deve dare la migliore soddisfazione possibile.
Ed è proprio attraverso l’identificazione della scala di bisogni di cui è portatore che lo Stato si descrive.

Compito della Politica è proprio l’individuazione dei bisogni e delle priorità dello Stato in quanto persona, e la ricerca e l’attuazione della loro soddisfazione.
Di qui, il primato della Politica su qualsiasi altra attività dello Stato, segnatamente sull’Economia, tema sul quale torneremo tra poco.
Ora mi sembra urgente sottolineare che nell’attività di “individuazione e descrizione” dei bisogni di cui è portatore come nella “formazione della scala lungo la quale essi si dispongono”, e quindi delle priorità, i singoli individui, prevalentemente attraverso le organizzazioni di cui dispongono – se e quando sia così – “dialogano” tra di loro e con lo Stato, al fine di consentire alla Politica di conoscere quanto più profondamente possibile i bisogni e gli interessi di tutti. E ciò con la consapevolezza che i bisogni dello Stato non sono altro che la mediazione tra i bisogni di ciascuna delle sue componenti, nessuna delle quali ha il diritto di affermarsi se questo comporta sacrifici eccessivi per le altre.
Il che ci porta immediatamente al compito dei sindacati e alla loro attività.

Nati per difendere i lavoratori dai soprusi dei datori di lavoro, nella dialettica del massimo utile con il minimo sforzo – comune ad entrambe le parti – hanno nel tempo probabilmente bene assolto al compito di descrivere i bisogni della forza lavoro ed anche a quello di proporre soluzioni praticabili: dalla giusta mercede a ogni altro limite allo sfruttamento eccessivo ed all’avvilimento della dignità di “persona”, diritto naturale all’essere umano.
E il disegno della “dignità del lavoratore” è stato proposto e in gran parte accettato dalla Politica, che ha esercitato il proprio compito più o meno bene, utilizzando lo strumento che le è proprio ed esclusivo: il “fare” le leggi.
Nel corso degli anni e dell’evoluzione della società, sono stati evidenziati “eccessi d’uso della dialettica” che sembrano aver turbato un equilibrio raggiunto con molta fatica; l’azione dei sindacati ha rotto i confini della reciproca comprensione e, soprattutto, quelli dei poteri della Politica e dello Stato.
Ma soprattutto i Sindacati sono riusciti a rifugiarsi nella difesa a oltranza dei lavoratori i quali, almeno da noi, sembrano essersi convinti che “il padrone” era ed è un nemico da sfruttare, prima, e da abbattere poi.
Oggi, non mi pare che i Sindacati abbiano preso coscienza che la loro azione deve concretarsi in proposte operative che non si esauriscano negli aumenti di stipendi e salari (probabilmente veramente impossibili e antistorici) e nel posto fisso a qualsiasi costo (anche questo, forse non più generalizzabile come un tempo).
A me non pare di aver ascoltato i sindacati elaborare pianificazioni strategiche e operative per il lavoro ed i lavoratori.
Opporsi per opporsi è facile, oltre che stupido.
E non aiuta certamente a uscire da una crisi che è “del sistema”.

E proprio in tema di Economia, Governo e Sindacati sembrano aver trovato un punto d’incontro: né i Politici e neppure i Sindacalisti sembrano essersi resi conto che il nostro sistema economico è in agonia e che ogni e qualsiasi tentativo di ricostruirlo “come era” è destinato a fallire.
Ce lo rappresenta quella stagnazione che in Italia si avvicina al quarto anno, ma che nel resto d’Europa (e non solo) non appare prossima alla fine.
Il capitale è ed è destinato a rimanere un elemento essenziale di qualsiasi sistema economico, rappresentando quell’insieme di risorse al quale si aggiungono il lavoro, l’organizzazione e la comunicazione al fine dell’ideazione, della produzione, della conoscenza e della distribuzione di beni e di servizi destinati ad essere “acquistati” dai portatori di bisogni e, attraverso l’atto di acquisto, a retribuire capitale, lavoro, organizzazione e comunicazione e dunque ad alimentare il sistema.

Ragionare in termini di capitale anziché di capitalismo è causa prima della crisi del sistema. Perché si considera il capitale non come un fattore dell’economia di valore e importanza pari agli altri, ma come “il” fattore primo di riferimento e dunque privilegiato nella distribuzione della ricchezza prodotta.
Che è la radice del conflitto di cui il nostro attuale sistema economico si nutre e che ha portato e porta alla radicalizzazione degli interessi e dunque a quelli eccessi che ne costituiscono il cancro.
E il conflitto tra capitalismo e lavoro è andato in metastasi.
In questo aiutato, anche, dal malinteso senso della libertà, fatta coincidere con l’affermazione a oltranza dei propri interessi.
I diritti non sono infiniti e il loro esercizio e la loro difesa non sono illimitati.
Compito dei sindacati è proprio quello dell’individuazione del numero e del contenuto dei diritti e dei limiti all’esercizio di ciascuno di essi, in una con proposte e pianificazioni che, portate alla Politica, consentano l’elaborazione di norme di comportamento “giuste”.
Ed anche “etiche”.
Per quanto possibile ad esseri umani, per definizione limitati e fallibili.
E forse non è un caso che i sindacati – quale ne sia la natura – urlino la difesa di diritti e dimentichino di sottolineare l’adempimento dei doveri, in una attuazione divenuta perversa della logica e della dialettica.
Ma soprattutto a me sembra che i sindacati – ripeto, tutti i sindacati – da molti anni a questa parte non siano stati in grado di proporre al legislatore piani operativi della gestione dell’economia, del lavoro, della ricchezza prodotta.
Una cosa sola sembra sappiano fare: criticare ogni e qualsiasi proposta e protestare.

E’ però anche vero che la Politica dimostra di avere le stesse carenze. Il legislatore da sempre ricorre a leggi che, nella migliore delle ipotesi, sono pezze a colori, e che in genere non brillano per qualità. E ciò non ostante in Parlamento seggano (anche) seri professionisti, ciascuno almeno in teoria capace di “costruire” leggi di qualità.
Allora, il dialogo si svolge su argomenti e questioni non correttamente identificate, con strumenti inadeguati quando non del tutto dannosi, e con il risultato di costruire muri e muretti alla lunga divenuti un vero e proprio labirinto dal quale non si riesce ad uscire.
Con una sola possibile soluzione: l’abbattimento.
Che significa ridisegnare il sistema economico partendo almeno dal principio che la ricchezza prodotta va equamente distribuita e che i fattori dell’economia hanno tutti lo stesso valore perché tutti concorrono in modo essenziale alla costruzione, al mantenimento ed all’adeguamento del sistema.

La costruzione di un nuovo sistema economico è e non può non essere la priorità della Politica. Sempre, ma oggi in particolare. Tentare di ricostruire il sistema attuale è un errore che potrebbe rivelarsi mortale per la stessa civiltà.
E “nuovo sistema” non significa la distruzione di quello attuale. E’ stato già tentato, in nome di quella proposta della “lotta di classe” e dunque dell’affermazione di una componente sulle altre in una vera e propria guerra guerreggiata, con sangue, feriti, morti.
Gravissimo errore e fallimento forse ancora più grave.
Non si tratta di distruggere un sistema, bensì soltanto (!) di cancellarne gli aspetti negativi e di costruire un quadro che, nella cornice di una equa distribuzione, collochi al posto corretto il capitale e la sua retribuzione, il lavoro e la sua retribuzione, l’organizzazione e la sua retribuzione, la comunicazione e la sua retribuzione.
Si tratta di costruire una nuova e diversa cultura, che ponga la collaborazione al posto della competizione; l’utilità sociale sullo stesso piano della utilità individuale; l’onestà e il senso del dovere al posto della corruzione e dell’ignavia; lo Stato di pieno diritto tra gli operatori economici; il “pubblico” sullo stesso piano del “privato”; la formazione, la specializzazione e la professionalità in Economia e in Politica condizioni essenziali per l’esercizio delle professioni; l’istruzione, la formazione e l’aggiornamento alla base dell’essere cittadini (…); da ultimo, la religione del modello matematico sembra essere sempre di più uno dei cancri non solo del nostro sistema economico, ma di tutta la nostra cultura. I modelli matematici non perdono occasione per dimostrare la propria inadeguatezza, perché inadeguata è non solo la conoscenza dei fenomeni cui si riferiscono, ma anche le interconnessioni e quindi il coordinamento tra di essi.
Vogliamo ripensare alla materia?

Più volte, da queste pagine, si sono proposte soluzioni non soltanto praticabili, ma anche di rapida realizzazione e, probabilmente, di buona efficacia.
Un disegno concreto di quel “fare” di cui parla il Governo e che in qualche modo, per quanto confuso, episodico, parziale si cerca di realizzare.
Certo, da qualche parte occorre cominciare, magari nell’attesa di pianificazioni di gestione per quanto possibile complete ed affidabili.

Per esempio: si parla tanto di corruzione. Non è possibile immaginare che un argine alla corruzione possa essere costruito stabilendo norme di incompatibilità precise, dettagliate, senza eccezioni di sorta? E che coinvolgano parenti, amici, benefattori, clienti e sodales? E che si estendano al privato e alle Università ed ai concorsi… Se ne è parlato, qui, addirittura immaginando una traccia di normazione.

Ed anche tanto si parla di amministrazione della giustizia. Ma è mai possibile che non si ragioni a fondo in termini di procedure (civile, penale, amministrativa), e si ricorra, invece, a modifiche di contorno, spesso soltanto formali, quasi sempre peggiorative? Anche di questo si è fatto cenno in queste pagine. Anche sostenendo che i guai della Giustizia hanno il fondamento forse più pesante proprio nella incapacità o nella non volontà del legislatore di elaborare leggi che non si prestino più che tanto ad interpretazioni spesso contrastanti: i Giudici – è bene ricordarlo – hanno la sola funzione di applicare le leggi e di farlo rapidamente e con certezza. E allora, dar loro norme dal significato certo potrebbe non guastare. Ed anche evitare la sovrapposizione di norme troppo spesso contrastanti, quasi un esercizio di capacità da parte del legislatore di rincorrere un record quantitativo delle leggi.

Quanto alla burocrazia: in genere, lo sport preferito dai politici è la ricerca dei responsabili, partendo dallo scarico di ogni e qualsiasi responsabilità propria. Attività facilitata da un numero impressionante di leggi mal fatte per opera di legislatori incompetenti ed anche portatori di interessi definibili come “privati” o “di parte”.
In questo la burocrazia gioca un ruolo di rilevanza assoluta, praticamente ergendosi a scudo in difesa dei suoi membri, con il risultato, in genere, di un’impunità generalizzata, al massimo valorizzata dall’individuazione del classico capro espiatorio il quale, peraltro, se e quando condannato, se la cava con un’ombra di pena.
Se è vero, come è vero, quanto scriveva Cicerone (De officiis, 1,10) “summum jus, summa injuria”, peraltro preceduto da Terenzio (Punitore di se stesso, IV, 5) che afferma, forse esprimendo un concetto più profondo e completo, “in summum, saepe summa est malitia”, le leggi attuali consentono tutto e il contrario di tutto, proprio perché mal fatte e peggio assemblate.

E allora:

  • occorre intervenire d’urgenza con leggi ad hoc, di rapidissima applicazione e di semplicissima (univoca) interpretazione. E se anche fosse veramente impossibile ricorrere alla retroattività, almeno in grado di disegnare un sistema nuovo di responsabilità professionale, tecnica, ideativa, realizzativa. A tutti i livelli;
  • occorre immediatamente snellire e rendere veloci i procedimenti dei Tribunali preposti ad amministrare la giustizia in materia. Il che può farsi, a mio parere, con decretazione giustificata dalla gravità degli eventi e dall’importanza della soddisfazione dei bisogni di sopravvivenza e di sicurezza delle popolazioni;
  • occorre punire immediatamente e pesantemente l’opera di chiunque strumentalizzi (o tenda a farlo) le leggi, a fini impropri. E questo può esser fatto con l’uso immediato e massiccio di “decreti di interpretazione”, diretti ad indicare il vero obbiettivo e il vero significato delle norme.

Naturalmente, non è possibile qui esaurire l’argomento, oggetto di una quantità infinita di studi, di analisi, di pubblicazioni, di comunicazioni; e neppure esaminarne tutte le sfumature.

Ma credo che qualcosa ancora possa esser detto. Per esempio:

  • il terreno è propizio a testare la “qualità” delle leggi e del legislatore, oltre a quella degli interventi sugli enti territoriali e dunque sulle competenze di ciascuno e sulla coerenza dei provvedimenti. In questo, s’io fossi il legislatore riesaminerei la struttura dello Stato nel senso della responsabilità dei Comuni nella gestione delle materie – dall’ideazione alla pianificazione ed al controllo finale – fino a quella degli eventuali enti territoriali intermedi e dello Stato stesso, in base a quei principi che regolano le imprese e dei quali i nostri politici ed i nostri economisti si riempiono la bocca. Si tratta di ridisegnare la funzioni di coordinamento, armonizzazione, controllo e dunque di prevenzione ed eventuale soluzione dei conflitti di interessi e di competenza tra gli enti;
  • il terreno è anche propizio alla “creazione di posti di lavoro”: il lavoro è un “prodotto fatale” che scaturisce immediatamente dal “fare”. E mettere in sicurezza i torrenti è indiscutibilmente un “fare”. Obbligato, anche;
  • inoltre, il terreno è particolarmente propizio a ragionare in termini di “pianificazione fiscale” e dunque di individuazione degli obbiettivi, delle risorse occorrenti per il raggiungimento di ciascuno, della pianificazione operativa, del controllo dell’uso corretto delle risorse.

Infine, una divagazione: poche cose, nella nostra lingua, sembrano così semplici e sono di così largo uso come il sillogismo, definito dal Devoto Oli “il tipo fondamentale di ragionamento deduttivo della logica aristotelica, costituito da tre proposizioni e cioè da una premessa maggiore affermativa o negativa, da una premessa minore, da una conclusione derivata necessariamente”. In fondo, è soltanto una definizione quasi colta di quel nostro comune e diffusissimo “trarre le conclusioni” che tanto ci affascina. Noi passiamo la vita a “trarre le conclusioni” in genere senza preoccuparci più che tanto di verificare la correttezza non tanto e non solo delle premesse iniziali, quanto di quella della logica costruzione delle conclusioni e della loro rispondenza alla realtà.

Il che ci consente di procedere per slogan non verificati.
Esattamente come il sillogismo che segue: premessa maggiore, sia a Napoli che a Genova si è avuta la prova che l’uomo è intriso di imbecillità; premessa minore, Napoli e Genova sono unite dal mare; conclusione: dunque, il mare è veicolo di imbecillità. Corollario: aboliamo il mare.

Non fa una grinza. Pare.