Cattedra: Si può fare? Non si può. Ma perché? Perché no

di Paolo M. Di Stefano -

I partiti politici – quelli che per qualche strana ragione sono accreditati della funzione di guida - hanno dedicato e dedicano molto del loro tempo a trarre dalle tragedie della immigrazione argomentazioni facilmente “vendibili” ai potenziali elettori, perché agganciate – le argomentazioni – agli istinti primordiali, agli egoismi personali, a tutto quanto è posto “prima” del pensiero, del raziocinio, dei valori, della cultura e della civiltà.
E almeno in apparenza, che il tempo dedicato alla immigrazione sia aumentato ha un aspetto positivo.
Tutti sembra si siano accorti che finalmente anche Francia e Germania hanno iniziato a prender coscienza che il fenomeno è inarrestabile e che quanto fino ad ora messo in atto è inadeguato e insufficiente a dargli una soluzione quale che sia.
Il che non toglie che, con la mancanza di fantasia tipica dei politici, i rimedi proposti il più delle volte siano peggiori del male. Centinaia di chilometri di filo spinato non fermano i disperati che vogliono raggiungere la Germania, per esempio, ma sferrano un colpo mortale all’immagine del Paese che li ha seminati e dell’Europa tutta. E così l’uso delle armi, dei lacrimogeni, della violenza in genere.
E quanto di positivo è stato messo in atto, almeno nel rispetto della vita umana e della solidarietà, ha più di un risvolto negativo del quale pochi sembrano accorgersi.

Così, per esempio le navi di molti Paesi, il nostro in testa, si spingono fino al limite delle acque territoriali libiche per salvare i profughi e portarli sulla terra ferma.
Con il risultato di dare una mano non indifferente ai trafficanti i quali si fanno pagare attorno ai millecinquecento euro a persona e possono contare sul poter percorrere attorno alle trenta miglia in tutto con barche vecchissime, strapiene di gente alla quale a mala pena, forse, e non a tutti si da qualcosa da mangiare e da bere – quando va bene – e si riconosce il diritto di respirare, a meno che non occupino un posto nella stiva. Nel qual caso, per millecinquecento euro hanno soltanto la possibilità di rannicchiarsi immobili nella sporcizia, al buio, senza potersi muovere e senza poter respirare se non fino a quando rimane un poco d’aria a disposizione.
Poi, hanno il diritto o forse il dovere di morire.
Domanda: se le nostre navi arrivano fino a meno di trenta miglia dalla costa, non si potrebbe pensare ad organizzare la raccolta dei profughi in qualche porto, magari egiziano?

Si può fare? Non si può. Ma perché? Perché no.

I migranti viaggiano nelle condizioni accennate senza neppure un documento di riconoscimento. Solo una volta raccolti dalle nostre navi e sbarcati in uno dei nostri porti inizia una procedura lunga complessa e talvolta disperante per cercare di dare un nome ai vivi come ai morti. Spesso, senza riuscirci.
Se le nostre navi li raccogliessero in un porto “amico”, non si potrebbe procedere alla identificazione al momento dell’imbarco? E magari anche a distinguere tra profughi “di guerra” e profughi per ragioni economiche? E addirittura, conoscere fin dall’inizio la destinazione desiderata?

Si può fare? Non si può. Ma perché? Perché no.

Italia e Grecia sembrano essere i Paesi maggiormente interessati al fenomeno. Sarebbe una buona cosa se collaborassero e organizzassero i propri interventi in modo coerente, magari cercando anche di coinvolgere altri Paesi. Oltre tutto, sarebbe un colpo se non mortale certamente gravissimo ai trafficanti di uomini, africani, mediorientali e autoctoni, che organizzano e lucrano sulla pelle dei migranti. Non solo a quelli all’origine, ma anche e forse soprattutto alla “mafie” di ogni tipo che in Italia certamente, in Grecia probabilmente, hanno nel traffico e nella movimentazione dei nuovi schiavi un punto di forza dei propri affari.

Si può fare? Non si può. Ma perché? Perché no.

L’Europa si compone di un numero (a mio parere esagerato, perché evidentemente non amalgamato e dunque non correttamente gestibile) di Paesi, ciascuno dei quali tenta di tutelare in ogni modo i propri interessi a discapito di quelli degli altri. Ma tant’è: l’Europa è una realtà, traballante e imperfetta quanto si vuole, ma una realtà. E dunque, bisogna affrontare il problema dell’arrivo dei profughi come una realtà unica, in grado di prendere decisioni vincolanti e affidabili, nell’interesse di tutti, profughi compresi.

Si può fare? Non si può. Ma perché? Perché no.

La gran parte di coloro che così drammaticamente arrivano da noi, fugge dalla miseria e dalla fame. Fame e miseria alla cui esistenza la nostra civiltà non è estranea, e soprattutto fame e miseria moltiplicate da regimi “non democratici”, maestri nell’appropriarsi delle risorse che andrebbero divise tra tutti. È d’uso da noi predicare circa l’insegnamento della democrazia a quelle popolazioni, sempre concludendo che la democrazia è una conquista culturale che non può essere imposta, e forse neppure insegnata nel senso proprio del termine. Dovrebbe maturare nelle coscienze e divenire uno dei cromosomi della persona, di ciascuna persona.
In materia siamo coltissimi, sappiamo tutto e siamo pronti quanto meno a sostenere che democrazia è sovranità popolare e che si tratta della migliore soluzione possibile ai problemi della gestione dello Stato, in aperto contrasto con i regimi autoritari.
Che è bello ed istruttivo, ma può comunque generare qualche dubbio. Questo, per esempio: se la sovranità è nel popolo ed è il popolo ad esercitarla, non è forse pensabile che il popolo possa scegliere un regime autoritario, magari persino dittatoriale?
E se è un diritto del popolo sovrano lo scegliere il tipo di Stato e dunque anche propendere per un regime autoritario, non è possibile immaginare che “il popolo” dovrebbe e potrebbe essere formato a ragionare in termini di gestione dell’autorità e dell’esercizio del potere? Con un vantaggio… fantascientifico: il dittatore di turno conoscerebbe le regole per un corretto esercizio del potere. Che si riducono, queste regole, in fondo ad una soltanto: il potere va esercitato in modo da far coincidere gli interessi del dittatore con quelli del popolo, che tra l’altro è la sola garanzia di “durata” della dittatura.
Io credo che noi tutti dovremmo riesaminare le nostre cognizioni in materia di democrazia e di rapporti con l’autorità e l’esercizio del potere, ed anche pensare ad una possibilità fantascientifica, appunto, che è quella di una “scuola di dittatura”.
Rimettere comunque in discussione il concetto stesso di democrazia potrebbe portare a risultati di non secondo momento.

Si può fare? Non si può. Ma perché? Perché no.

Un lavoro interessante potrebbe essere anche quello di riesaminare e verificare una serie di definizioni e di concetti in tutti i settori dello scibile umano.

Come quel concetto di proprietà che, nel corso dei millenni, si è sostanziato nell’ esercizio di un non ben conosciuto e definito diritto di libertà, vissuto quale esercizio dell’arbitrio e della ineducazione e dell’egoismo e dell’egocentrismo e di quanto altro possa essere messo in atto contro la comunità, nell’interesse esclusivo proprio dell’individuo e dei sodales.
Che tra le altre cose è con tutta evidenza la negazione del concetto stesso di “Politica” che è senza dubbio il complesso di attività – di pianificazione e di gestione – diretta a soddisfare i bisogni della società umana nel suo complesso, in vista non soltanto della qualità attuale di vita di comunità più o meno estese e potenti e ricche, quanto soprattutto di quella futura.
E negazione del concetto di Politica è anche quella idea di “potere” che sembra animare ciascuno di noi quale libertà di soddisfare bisogni individuali e tutelare personali interessi, con ogni mezzo o quasi. Ciò che chiamiamo “potere” dovrebbe essere considerato, invece, strumento per affermare “la vita della società nel suo complesso, del genere umano nella sua interezza” utilizzando a questo fine i mezzi ritenuti più idonei, dalla formazione al dialogo al convincimento fino alla “costrizione” anche fisica.
E allora, il gioco di quei “politici” che si appoggiano agli egoismi ed alle ignoranze “della gente” per conquistare, mantenere e accrescere il potere e la ricchezza assomiglia ad un gioco intimamente sporco, immorale. Certamente, ad un gioco che nella realtà ignora totalmente quel “bene comune” di cui qualcuno favoleggia, ma che il più delle volte è anch’esso un concetto non chiaramente definito, con tutto ciò che la mancata certezza comporta.
Ma è forse possibile che il vero male della nostra società risieda in un cocktail di libertà e di proprietà i cui ingredienti (libertà e proprietà, appunto) si siano avariati nel corso dei secoli. Per eccesso di dosaggio dovuto proprio alla “interpretazione” data a ciascuno di essi, per cui il risultato finale sembra estremamente vicino ad un insieme non bene amalgamato di anarchia (forma di libertà andata a male) e abuso, a sua volta degenerazione (anche) dei diritti che l’essere proprietario comporta.
Che l’eccesso di “libertà” conduca direttamente all’anarchia appare evidente.
E allora, non sarebbe il caso di tornare a ragionare tutti insieme, a partire dalla scuola, sui concetti di libertà, di etica, di diritto, di proprietà, di potere, di Politica? E non sarebbe opportuno verificare se e in che misura il concetto di proprietà quando si tratta dello Stato e del suo territorio non sia in realtà un eventuale diritto di pre-uso, e dunque un “Jus utendi” ma non “abutendi”?

Circa il diritto “ad usare” non mi pare sorgano problemi particolari e insormontabili. Quanto all’abuso della proprietà il discorso sembra più complicato. Perché complessa è la figura stessa della proprietà, la sua stessa origine, il suo modo di atteggiarsi e di esser tutelata.
Non è questa la sede per un trattato sulla proprietà, per ragioni ovvie. Qui è solo possibile ricordare come non a caso sia tutt’altro che facile individuare e dimostrare l’acquisizione della proprietà a titolo originario, tanto che nei sistemi giuridici si ricorre alla tutela del possesso ed al riconoscimento dei “modi di trasferimento”, la prova dell’acquisto originario della proprietà essendo da sempre riconosciuta come “diabolica”.
Che significa tante cose, ma una in particolare: che chiunque ritenga di essere proprietario di qualcosa per diritto originario (divino o meno che sia) non è nel giusto.
E da qui una immediata conseguenza: è ipotizzabile che non sia vero che noi siamo “proprietari” del territorio, e che al più si possa immaginare ciascuno di noi titolare di un diritto “di uso” del territorio che è di proprietà dello Stato, e dunque in via mediata di tutti.
Non possiamo, quindi, rifiutare l’accoglienza ai migranti in nome di un diritto di proprietà.
La terra è di tutti, e tutti hanno il diritto di abitarla.
Checché se ne dica, noi possiamo “eticamente” soltanto accogliere nel miglior modo possibile e nel miglior compromesso possibile coloro che giungono là dove abitiamo.
Non abbiamo il diritto di respingerli e men che meno, come da qualche parte si suggerisce, di ucciderli.
Così come chi arriva non ha il diritto di prevaricare o cacciare chi è arrivato prima, bensì soltanto quello di trovare il modo migliore possibile di convivenza, nel rispetto del “mondo che trova”.
La cultura dei Paesi cosiddetti avanzati appare, oggi, faticosamente avviata sulla strada del rifiuto della violenza, della conquista con la forza delle armi, dell’annullamento della dignità degli altri esseri umani.
Ma non si vede accenno ad un ripensamento del contenuto della natura e del contenuto della proprietà, che è, in fondo, un ripensare al significato della affermazione “è mio” ed alle sue attuazioni nella pratica.
“E mio perché io abito qui da prima che tu arrivassi” ha certamente un senso, che appare però diverso quando si tragga la conseguenza “e dunque tu non hai diritto di essere accolto e di usare del “mio” spazio. Forse, il significato più logico di “è mio” è quello di “tu non puoi appropriartene, ma puoi usarne con me”.
Può darsi sia tutto sbagliato, ma vogliamo ripensare al diritto di proprietà, soprattutto dei suoli, ai suoi limiti, al suo esercizio?

Si può fare? Non si può. Ma perché? Perché no.

I nostri giorni hanno posto con insistenza la questione della “famiglia” in vista di un riconoscimento delle unioni omosessuali. Sembra che lo stesso concetto di “famiglia” si vada indebolendo e che una eventuale legislazione che accetti le unioni omosessuali possa distruggerlo addirittura. Sembra questo almeno il timore di una parte della cosiddetta società civile.
Con grande approssimazione, pare si siano creati due schieramenti, ovviamente contrapposti: quello del clero cattolico che pensa non possibile una famiglia fuori dal matrimonio (credo, civile o religioso che sia), e quello laico, per il quale le coppie omosessuali hanno diritto agli stessi riconoscimenti che spettano alle coppie eterosessuali.
Forse, bisognerebbe riesaminare il concetto stesso di “famiglia”, anche ricordando che i nostri padri maestri del diritto pensavano alla “famiglia” come ad una comunità composita, della quale facevano parte soggetti anche non “sposati” e nella partecipazione alla quale non sembra si distinguesse più che tanto tra omosessuali ed eterosessuali. Una vera e propria cellula sociale, ordinata gerarchicamente ed organizzata “nel comune interesse”. In questa cellula è sempre stata di rilevanza notevole l’unione tra un uomo e una donna, più o meno formalizzata, e questo perché solo da questa unione potevano generasi quei figli che avrebbero perpetuato la specie. Ai figli ed ai loro genitori era riservato un trattamento particolare.
Di matrimonio, nel diritto romano, si è sempre parlato solo con riferimento dell’unione di un uomo e di una donna in vista della possibilità di procreare.
E allora, perché non fare tesoro di questa esperienza, riservando il matrimonio agli eterosessuali, e definendo in modo diverso le unioni tra omosessuali? E perché non riservare alle coppie in grado di generare figli proprio perché tali diritti diversi da quelli riservati agli omosessuali che vogliono vivere insieme, ma che non possono generare “per via di natura”?
Forse sarebbe necessario anche prendere coscienza che è nell’interesse dei figli nascere e crescere “secondo natura”, in una famiglia composta da un padre e da una madre, e quindi stabilire che il generare figli deve derivare dal rapporto tra uomo e donna in via del tutto naturale, salvo interventi “curativi” su uno o su entrambi i coniugi. Dunque, seppur sia vero che l’unione tra due donne (ma non quello di due uomini) può essere allietata dalla nascita di figli per via artificiale, la pienezza dei diritti “matrimoniali” è riconosciuta alle coppie eterosessuali in quanto probabilmente “capaci di generare figli per via naturale”.
Vale la pena di pensarci. Come vale la pena di ragionare in termini di “diversità” che non vuol dire inferiorità, bensì solo “diversità”, appunto. Diversità oggettiva tra eterosessualità e omosessualità. E dalla diversità qualche differenza “nella vita nel suo complesso” pur sempre scaturisce.

Si può fare? Non si può. Ma perché? Perché no.