Cattedra: Scaricabarili, il gioco più antico del Mondo

di Paolo M. di Stefano -

Lo scaricabarili è il più antico mestiere del mondo. Narra la Bibbia (Genesi, 3, 9-13) «Il Signore Dio chiamò Adamo e gli disse “dove sei?”. Il quale rispose “ho udito la tua voce nel paradiso, ho avuto paura essendo nudo e mi sono nascosto.” A cui disse “E chi ti ha fatto conoscere d’essere nudo se non che hai mangiato dell’albero del quale ti avevo comandato di non mangiare?”. Rispose Adamo: “ La donna che mi desti a compagna m’ha dato quel frutto e ne ho mangiato”. Disse il Signore Dio alla donna: “Perché hai fatto ciò?” La quale rispose: “il serpente mi ha ingannato, ed ho mangiato”».
Quale altra prova è necessaria a dimostrare che la più antica professione del mondo è il giocare a scaricabarili, e non la prostituzione, come tutti sembrano credere?

Intanto, una annotazione apparentemente di scarso rilievo: noi tutti, me compreso, abbiamo sempre utilizzato il termine in un maschile singolare inesistente: scaricabarile. Il corretto maschile singolare, connaturato al lemma, è scaricabarili. E allora? Niente, puro amore di precisione, necessaria a mio parere perché al giorno d’oggi pare che l’uso corretto delle parole sia divenuto un optional. Avete notato che recentemente in uno di quei lunghi e complicati talk show televisivi ammantati di cultura, a proposito della querelle in corso sulle leggi relative al lavoro è ricomparso “la reintegra”, obsoleto modo di indicare “il reintegro”? La circostanza che a parlare di “reintegra” fosse una sindacalista (o forse o anche una onorevole particolarmente sensibile ai problemi del lavoro) non mi pare una giustificazione. Innanzitutto perché il sindacalese è un linguaggio che sarebbe grave errore richiamare in vita; poi, perché si è più volte ampiamente constatato che spingere il femminismo fino ad aggiungere un sesso alle parole non è pratica pagante.

E appare ovvio e naturale che nel gioco dello scaricabarili i politici siano in primissimo piano, seguiti a distanza assai ravvicinata dai manager pubblici e dalle burocrazie tutte intere. Ovvio e naturale perché mancano non soltanto gli obbiettivi, in una con quella di corrette pianificazioni operative, ma anche e soprattutto manca quella professionalità che dovrebbe garantire la corretta gestione degli scambi, delle transazioni, delle relazioni, dei rapporti a tutti i livelli.
E quando si è abituati ad improvvisare, nulla di più facile trovare nelle circostanze e nei comportamenti altrui l’alibi all’inefficienza propria.

Adamo non aveva pianificato quel fatale mangiare la mela, non fosse altro che perché non sapeva pianificare: naturale scaricare su Eva; e neppure Eva aveva pianificato alcunché, e dunque altrettanto naturale scaricare sul serpente.
Quest’ultimo, invece, sembra aver pianificato il tutto, strategicamente e tatticamente, individuando l’obbiettivo ultimo (trascinare gli esseri umani fuori dal Paradiso terrestre, in modo tale da poterli indurre a peccare impiegando risorse minime per ottenere risultati massimi, operando in un ambiente più favorevole); identificando il soggetto più sensibile (quella Eva che egli sapeva essere in qualche modo più debole di Adamo ma anche dotata di un potere pressoché assoluto sull’uomo); predisponendo le appropriate argomentazioni “di vendita” e correttamente comunicandole.
Obbiettivo raggiunto: Dio ha cacciato Adamo ed Eva, e il serpente – seppure costretto a strisciare e a divenire oggetto di repulsione e disprezzo (oltre che materia prima per scarpe, borse e cinture) – ha trovato l’ambiente ideale per conquistare il mercato d’elezione.
Con un’annotazione ulteriore: Adamo ha risposto a Dio che gli chiedeva conto e ragione del suo comportamento: «la donna che mi desti a compagna mi ha dato quel frutto e ne ho mangiato». Lo scaricabarili è stato giocato diplomaticamente: non io, il responsabile, ma la donna e, qui lo dico e qui lo nego, tu stesso, o Dio, che quella donna mi hai dato. E che, sia detto per inciso, ho pagato con una costola. Non un dono, dunque, ma una vera e propria vendita, con tanto di prezzo. Per di più, non cercata. Tanto per chiarezza.

Che è l’essenza stessa della politica e della burocrazia: evitare di assumersi qualsiasi responsabilità, in una con il mettere le mani avanti nell’ipotesi che fosse necessario precisare le responsabilità.
Solo che Adamo ne ha parlato direttamente con Dio; la politica e la burocrazia, invece, si guardano bene dall’attaccare i propri dei, almeno fino a quando li ritengono vincitori.
Con questo in più, mi pare.
Adamo era innocente, nel senso di privo d’ogni malizia.
Politici e burocrati, invece, della malizia, del secondo fine, dell’equivoco hanno fatto il proprio pane quotidiano.

Sicché lo scaricabarili è stato esteso ai “rapporti tra le cose”: leggi, regolamenti, decreti attuativi, mansionari e competenze in testa. Che sono, sì, frutto di attività (dis)umana, ma che sembrano godere di vita propria. Di fronte ad un’ingiustizia, il legislatore sosterrà sempre che le leggi sono chiare e ben costruite, ma non correttamente interpretate e non correttamente applicate da una Magistratura che straripa dai poteri che la Politica le ha assegnato; il Magistrato, sempre dirà di aver applicato la legge secondo il mandato ricevuto, e che l’ingiustizia è da ascriversi al legislatore; il difensore della parte soccombente dirà che il risultato infausto è dovuto a una magistratura politicizzata e a leggi mal fatte e peggio lette; il Collegio giudicante sosterrà innanzitutto di non avere altro potere che quello di applicare le leggi e poi, a seconda delle materie e delle circostanze, che il processo è stato male impostato e che la definizione di “ingiustizia” è soggettiva, di parte; la “gente”, a seconda delle propensioni di ciascuno, che la Magistratura sbaglia; e questa, che “la gente” è male informata a causa dell’uso di parte (quando va bene) dei mezzi di comunicazione e di un’ignoranza sempre più crassa e sempre più diffusa, fino a investire non soltanto i giornalisti (ignoranti e di parte), ma anche le scuole di ogni ordine e grado…
E via così, fino al mento in cui non ci si imbatte in una qualche questione di principio valida un po’ per tutti i settori dei rapporti umani, ed a proposito della quale si porta in gioco la storia e la filosofia e la cultura dei millenni trascorsi.
Lo scaricabarili diventa sinonimo di pensiero.
Che è bello ed istruttivo.

Torniamo a scaricabarili definito “gioco di ragazzi”. Chi di noi ha impiegato più di qualche minuto a cercar di definire cosa sia il “gioco”? Ed a comprendere che differenza esistente tra il gioco dei ragazzi e quello degli adulti? Questa seconda questione è, almeno apparentemente, abbastanza semplice: a seconda dell’età dei partecipanti, il gioco può essere descritto come “fatto da ragazzi” e “fatto da adulti”, che non significa però affatto che si tratti sempre e soltanto dello stesso gioco, dal momento che non di rado certe regole in qualche modo cambiano. E soprattutto, cambiano le valutazioni sul gioco stesso: se fatto da ragazzi, il gioco di gonfiare con la pompa ad aria compressa un ragazzino per qualcuno appare giustificato proprio dall’essere considerato, il delinquente, un “ragazzo”; forse non sarebbe stata la stessa cosa se ad usare il compressore fosse stato un “adulto”. Napoli docet. Ma, a parte le variazioni dovute all’interpretazione di “ragazzo” e di “adulto”, che cosa è veramente un “gioco”?
Qui le cose si fanno più serie, forse, e più difficili, certamente, tanto che i dizionari dedicano intere pagine a cercare una definizione per quanto possibile esaustiva. Senza risultati apprezzabili più che tanto.
Io mi limiterò ad invitare chi ne avesse interesse a (ri)leggere Eric Berne e il suo Games people play, nel quale il padre ancora oggi indiscusso della analisi transazionale fa coincidere il termine “gioco” con quello di “transazione”, e quindi di rapporto.
Tutto ciò che noi facciamo è gioco.
E non è un caso che il francese, l’inglese e probabilmente altre delle lingue parlate nel mondo usino il verbo “giocare” a proposito, per esempio, del suonare uno strumento musicale oppure di recitare un testo teatrale.

Ed è proprio l’annotazione di Berne che mi ha fatto scattare un’idea: le ricerche scientifiche dirette a creare l’uomo, anche se non proprio dal nulla (viste le risorse impegnate), certamente tengono in debito conto l’attuale natura e lo sviluppo del genere umano, e dunque progettano l’uomo del futuro prendendo le mosse dal presente. Che significa (anche): quali sono le caratteristiche fondamentali di comune appartenenza?
E ho fatto una scoperta sensazionale.

Il prototipo dell’essere umano del futuro è già in test e ha un nome: Beppe Lang. E gioca a fare il comista.

Beppe Lang, comista, nasce, vive e opera nel mondo della comunicazione, con speciale professionalità nell’ambito della comunicazione verbale, quella corporea, quella visiva.
E’ il risultato dello spirito della società nuova concretizzato da una stampante 3D.

E’ creatura dei network, generata per incarnare la sintesi della cultura attuale, improntata – quest’ultima – a due caratteristiche fondamentali. La prima, la comunicazione urlata, gridata il più possibile al fine di farsi sentire sovrastando gli altri, meglio se costringendoli al silenzio; la seconda, quel comunicar veloce che vanta, almeno in Italia, origini nobilissime, cantate dal Vate per antonomasia.

Chi non ricorda Gabriellino e il suo «rapidità, rapidità gioiosa, vittoria sopra il triste peso, aerea febbre, sete di vento e di splendore, moltiplicato spirito nell’ossea mole, rapidità, la prima nata dall’arco teso che si chiama vita»: chi non ricorda? Come, nessuno!?
Non importa. Dimenticavo che Gabriele D’Annunzio, principe di Montenevoso, nelle nostre scuole non si legge più: il tempo corre, e abbiamo ben altro da fare!
E neppure, io credo, c’è più chi ricorda la traduzione in parletico (quel parlar sintetico, da sempre cenerentola tra le arti, oggi quasi del tutto scomparsa) dei pochi versi sopra citati: «Rapi rapiiosa, vittriso, aebbre, sentosplecato, spirossea mole, raprima nata dall’arso chechi mavita», opera di un allievo che, come il Vate, della velocità aveva un senso totalizzante da trasfondere anche nelle arti, e in particolare nella letteratura, apparentemente la più refrattaria così alla velocità come ai decibel. Per fortuna, a questo pongon talvolta rimedio il teatro, la lettura ad alta voce e la declamazione.

E il vuoto creatosi attorno al parletico è ancor più incomprensibile quando si pensi che l’economia è divenuta il solo vero valore del genere umano: non è forse vero che il tempo è danaro? Risparmiar tempo è dunque una forma di economia, e libera risorse da destinarsi ad altri impieghi più redditizi. E in termini di risparmio del tempo necessario ad esprimersi, il parletico resta ancor oggi insuperato. Di più: non è anche vero che il costo della carta è divenuto insostenibile? Scrivere in parletico significa almeno dimezzarne il consumo, esattamente come esprimersi in questa benemerita lingua essenziale. Si pensi ai benefici diretti ed indiretti nel settore libraio: minor consumo di carta, minore necessità di scaffalature nelle librerie e nelle biblioteche con conseguente risparmio di legno e di spazi a parità di libri; maggiore possibilità da parte degli editori di stockare nei sottoscala e nelle cantine i titoli proposti dagli aspiranti autori…

Beppe Lang è stato ideato, progettato e costruito da una gestione della comunicazione attenta alle esigenze attuali e future, alle richieste di una generazione di referenti che della rapidità e dell’urlo ha fatto una religione, e che ha compreso tutto il male che l’approfondimento genera, la specializzazione procura e l’educazione e il rispetto per gli altri cementano, perché, a ben guardare, irrispettosi proprio dei sacri principi della rapidità e dell’urlio.
Per questo, Beppe Lang, di professione comista, sintetizza in sé le doti dell’attore (prevalentemente comico, ma anche più che talvolta tragico) e del pianista. Le prime, quelle più aderenti alla parte Beppe, gli consentono di urlare in teatro e nelle piazze e anche ricorrendo a tutti quei mezzi di comunicazione che consentono l’uso del sonoro e quindi delle corde vocali; le altre, quelle che attengono più specificamente alla natura Lang, di esprimersi al massimo dei decibel a disposizione e correndo in una sorta di formula uno musicale utilizzando lo strumento apparso più idoneo a concretare velocità e sonorità: il pianoforte.
Dice: ma il tamburo e la grancassa…? Molti decibel, ma poche note e non in grado di sviluppare grandi velocità; allora, viola, violino, violoncello…? Certamente dispongono di una quantità di note e di una estensione maggiore, ma quanto a volume lasciano a desiderare; e gli strumenti a fiato, allora…? gli ottoni, volendo, urlano forte, ma non possono fare più che tanto quanto a numero di ottave; e i legni… idem; e l’arpa e i suoi fratelli… tutti troppo gentili e quindi troppo facilmente soverchiabili.
Il pianoforte, invece, è il re degli strumenti anche in questo senso: estensione ricchissima e possibilità di portare il suono ai massimi livelli, ed anche di emettere note che si inseguono a velocità difficilmente eguagliabili.
Soprattutto quando si dispone di mani dotate di un’apertura in grado di coprire dodici tasti e forse di più, martellandoli con l’energia propria di una natura giovane e forte.

Beppe Lang, comista, è oggi una delle eccellenze musicali, noto in tutto il mondo, adottato in Italia senza riserve, ospite quasi fisso di tutti i network televisivi, capace di suscitare lunghissimi minuti di applausi entusiasti da parte del pubblico. La velocità delle sue esecuzioni gli consente, nelle due ore canoniche di concerto, di regalare agli ascoltatori almeno un venti per cento in più di note di quanto non sia possibile ad un pianista “normale”. Che, tradotto in pagine pianistiche, significa l’uno per l’altro almeno una sonata.
Se, poi, si aggiunge il volume del suono, un concerto di Beppe Lang ha la grandiosità di un’intera giornata di grande musica eseguita da una grande orchestra in un grande teatro per un grande pubblico.

E non finisce qui.

Beppe Lang, comista, la musica la recita. Meglio, la dipinge, mimando i sentimenti, le sensazioni, le emozioni che lo spartito gli suggerisce. E questo fa con tutto il corpo, seppure nei limiti cui è costretto dall’esser seduto su di uno sgabello e dal non poter allontanare più che tanto le dita dalla tastiera e le estremità inferiori dai pedali. Il parletico del linguaggio del corpo così realizzato si svolge attraverso il distendersi all’indietro in una con l’assunzione di espressioni assorte e sognanti, in una sintesi estrema di quelle doti di attore comico che, invece, utilizza appieno ogniqualvolta possa liberamente esprimersi utilizzando le corde vocali e la comunicazione gestuale.

Risalta, in questo, la genialità dei progettisti. Beppe Lang è costruito in modo di poter disporre di due sorgenti espressive unite, sì, ma distinte: la fonte Lang, dalla quale scaturisce tutto ciò che è musica, e la fonte Beppe, che produce rivoli, torrenti, fiumi di comicità. E questo non solo e non tanto al fine della eccellenza delle prestazioni e dunque del successo, ma anche – e qualcuno sostiene soprattutto – per il migliore impiego delle risorse a disposizione: invece di disperderle in due personalità distinte, si è pensato di progettare e realizzare un prodotto unico, così ottenendo un rapporto costo/ricavi ed uno qualità/prezzo di tutto rilievo.

Quando non si tratta di suonare, i suoi creatori lo hanno programmato per urlare di politica, e la politica è materia congeniale agli urlatori.
Così, Beppe Lang si agita sul palco, gridando concetti il più delle volte privi di senso, utilizzando un vocabolario non ricco più che tanto, ma infarcito di insulti e volgarità.
Che sembrano essere sempre di più il pane dei politici di strada, e non solo di questi.
Che ciò che dice abbia scarso senso è ovvio: Beppe Lang è stato inventato per andare diritto allo scopo, e lo scopo primo di un politico è non far pensare gli ascoltatori. Potrebbe rivelarsi un boomerang. E così come quando suona corre, in modo che nessuno sia tentato di approfondire una battuta, quando parla somiglia ad un torrente in piena, di fronte al quale la gente non pensa ad altro che a correre.
E altrettanto ovvio è che il vocabolario usato sia infarcito di parolacce e di insulti: con riferimento al parletico, volete mettere l’efficacia e l’economia di un “vaffa” di fronte allo stesso concetto espresso per esempio così: “i signori sono pregati di prestarsi ad atti sessuali da molti ritenuti contro natura, ma non ignoti alla nostra storia” ?

La progettazione una e bina di Beppe Lang consente anche di raggiungere livelli di sinergia altrimenti impossibili, e comunque non della stessa qualità.
E proprio per cercar di ottenere effetti interessanti quanto meno di immagine, attorno a Beppe Lang si è creata la leggenda di un bambino di due anni fulminato da Tom e Jerry e dal Liszt sulla via della crescita. Il che lascia intravedere il seme della eccezionalità del genio: aveva solo due anni, ma la memoria di quella rapsodia ungherese per pianoforte gli è rimasta dentro ed ha generato la pianta della grande musica.
L’albero della comicità, invece, sembra abbia bisogno di ulteriori messe a punto. E’ rimasto rachitico, stento, tutt’altro che imponente: qualche sorriso, sì, ma più per solidarietà che per quell’apprezzamento profondo di cui un attor comico ha intimo bisogno.
Il tentativo di seminare quel poco di comicità nel vasto mondo della politica non sembra dar risultati apprezzabili: c’è ben altro che fa ridere in quel campo, e in quanto a doti di comicità i politici sembrano inarrivabili. Certo, si può cercare l’eccellenza e il successo attraverso le strida e le urla, ma non è sufficiente.

Beppe pare dunque una palla al piede di Lang, mentre a Lang potrebbe guardarsi come ad un’opportunità per Beppe.
Comunque, l’intero sembra rispondere a quel bisogno di un popolo che da quelle che ritiene sue eccellenze attende risposte coerenti alla propria natura, ed è disponibile a concedere potere e successo a chi queste risposte è in grado di fornirle.
Che è ciò che conta.