Cattedra: Giulio Regeni, l’Egitto, la verità e la ragion di Stato

di Paolo Maria di Stefano -

ImmagineGli egiziani non lo ammetteranno mai, ma la morte di Giulio Regeni ha tutte le caratteristiche di un delitto di Stato, tra le altre cose malamente – molto malamente – dissimulato. Lo dimostra – oltre la creatività fantasiosa delle ipotesi offerte dall’Egitto all’Italia e il comportamento degli organismi inquirenti egiziani – la trasmissione televisiva condotta dalla giornalista Rania Yassen, in diretta sulla rete saudita Al Arabiya, la quale ha anche mandato a quel paese il giovane torturato e ucciso in una con tutti coloro che chiedono la verità e la punizione dei colpevoli, addirittura ipotizzando un complotto contro il suo Paese. Così facendo, la signora (!) Rania Yassen ha confermato quanto tutto il mondo civile pensa, ed ha mostrato di sé, della propria cultura, della propria umanità e della professionalità che la guida un’immagine quanto meno discutibile.
Ma ha anche offerto una via di uscita al Governo ed allo Stato egiziano: il suo licenziamento (che io auspico, anche se ormai in grande ritardo, ma non per questo meno significativo) potrebbe ridare all’Egitto un minimo di credibilità che uscirebbe peraltro rafforzata se fosse seguita dalla ammissione dei fatti: sì, siamo stati noi, ma si è trattato di un errore del quale chiediamo scusa. Oppure, siamo stati noi ed ecco le prove che Regeni ha tramato contro lo Stato egiziano e ne ha messo in pericolo la sicurezza.
E la questione probabilmente si avvierebbe a chiusura.
Non fosse altro che perché nella notte oscura della cultura la ragion di Stato è ancora da più di qualcuno ritenuta un buon motivo per la eliminazione fisica dei “nemici”. E magari anche per le torture le quali, come ognun sa, sono un mezzo per giungere alla verità.
E questa ultima, a sua volta, null’altro è se non quanto sostiene il dittatore – o l’uomo forte – di turno. Il quale, come tutti i dittatori sotto tutti i cieli e in ogni tempo se non è cretino è consapevole che la violenza genera sempre una reazione, e che il potere fondato su di essa e su di essa mantenuto è destinato a morte certa. In tempi più o meno lunghi, ma a morte inevitabile. Ed è proprio sul fattore tempo che si conta: finirà, il potere, come tutto al mondo, ma per mantenerlo un poco più a lungo la violenza è un mezzo talvolta efficace, in genere quando ci si accorge che l’insofferenza è in via di generalizzazione e non si trovano argomentazioni valide per acquisire il consenso dei “sudditi”. Generalmente si può osservare come sia proprio la violenza a ridurre la vita dei regimi, delle dittature, degli stessi dittatori e dei suoi accoliti. Un “potere forte” che riesca a trasformarsi in “potere condiviso e accettato” sarebbe certamente più vitale.

Sulla ragion di Stato la letteratura è immensa a partire dal 1500 circa, e in essa la fantasia degli studiosi ha trovato un orizzonte infinito, zeppo anche di suggestioni.
In fondo, per dire e riaffermare cose semplici tanto da apparire addirittura scontate.
Oppure (o anche) per lasciarle sottintendere, non essendo in grado “la cultura dominante al potere” di argomentarle in modo convincente, anche perché non sempre conosciute a fondo, oppure perché strumentalizzate a fini diversi.
O entrambe le cose.
A me sembra di poter affermare che nei confronti della ragion di Stato in pratica da sempre ci si sia mossi su di un equivoco fondamentale: la necessità o l’opportunità di giustificare comportamenti, delittuosi quando tenuti dai singoli, quando a compierli sia “lo Stato” o anche quando, pur tenuti da singoli individui e strutture, questi abbiano agito “nell’interesse dello Stato”. L’equivoco probabilmente consisteva e consiste in questo: che si è sempre pensato che Stato e “Principe” fossero in rapporto di “mezzo” (lo Stato e la sua organizzazione) e utilizzatore (il “principe”) per meglio realizzare gli interessi di cui il “principe” era ed è portatore.
D’altra parte, a me sembra innegabile che fin dalla notte dei tempi qualcuno del branco (della tribù) abbia cercato di prevalere sugli altri componenti al fine di meglio soddisfare i propri bisogni, e che questo qualcuno abbia da sempre cercato di fare accettare i propri “vantaggi” come realizzazione e garanzia degli interessi del branco tutto, della intera tribù.
E poiché l’esercizio della forza e il privilegio sono sempre stati i modi più diretti ed immediati per affermarsi come detentori del potere, ecco che la violenza e l’iniquità sono state da sempre ritenute la sostanza vera della ragion di Stato. Trascurando alla grande un particolare non indifferente: il definire “interesse dello Stato” tutto quanto altro non era che “l’interesse del principe”.
Del tutto ignorando che lo Stato è “persona” e quindi “individuo”. In quanto tale, portatore di bisogni e di interessi assolutamente propri e dunque orientato alla soddisfazione di entrambi. Che è (intanto) una concreta definizione della “ragion di Stato”: soddisfazione dei bisogni di cui lo Stato è portatore e interessato a che questa soddisfazione avvenga nel migliore, più rapido, più facile e meno costoso dei modi possibili. E comunque, con precedenza sul “sentire” dei singoli.
Che è esattamente il “compendio” delle linee guida dell’operare di ciascuno di noi.

Sull’argomento ho più volte avuto occasione di meditare a fondo, dal momento che l’occuparsi di marketing impone l’esplorazione dei conflitti di interesse, del loro manifestarsi, delle attività di soluzione e di prevenzione, con annessi e connessi. Non è possibile, in questa sede, andare più a fondo, ma per gli eventuali interessati segnalo il mio “Il marketing e la comunicazione nel terzo millennio” (FrancoAngeli. Milano), nel quale ho elaborato anche una definizione di marketing (“gestione degli scambi”) che innova la materia, riconoscendone l’applicabilità e la reale utilizzazione in tutti gli scambi, per tutti i prodotti, sotto tutti i cieli e su ogni territorio e dunque anche per l’attività degli Stati e della Politica.
Forse, non è mai stata dedicata particolare attenzione alla prerogativa dello Stato di essere “persona”, seppur “collettiva”, e quindi non si è approfondita la vera natura dei bisogni e degli interessi propri dello Stato.
Si è in genere parlato dei bisogni della comunità – di ogni comunità – come sommatoria di quelli dei singoli individui che la compongono.
Che è un errore.
I bisogni di ogni e qualsiasi comunità sono la sublimazione (in un certo senso) dei bisogni dei singoli e dunque diversi da questi. Il bisogno di sicurezza della comunità Stato non è certamente eguale alla somma dei bisogni di sicurezza dei cittadini che lo compongono. Non lo è per le caratteristiche e non lo è per l’intensità, esattamente come accade per ogni e qualsiasi altra categoria di bisogni, a partire da quello di sopravvivenza.

Mai, per quello che so, si è svolta una approfondita ricerca sui “bisogni dello Stato” in quanto persona, così come mai si è approfondita la natura degli enti territoriali diversi dallo Stato e suoi componenti. In Italia, Comune, Provincia e Regione (in genere e ancora, magari anche arricchiti da fantasiose operazioni di sedicenti “ristrutturazioni”, la cui utilità è ancora tutta da dimostrare.
E, cosa ancora peggiore, neppure mi sembra sia stata condotta quella approfondita ricerca sui bisogni di una comunità super statale: non al momento della progettazione, non in fase di realizzazione. Un fenomeno forse inevitabile, questa mancanza, forse anche determinato dalla approssimazione crescente con la quale si ragiona in termini di Stato e di enti territoriali.
Se in pieno ventunesimo secolo si continua a discutere sui compiti – e quindi sulla giustificazione – di uno Stato, come si può immaginare di fare chiarezza sui perché e sul che cosa fare e il come farlo a proposito di una struttura che in qualche modo raggruppi Stati tra loro spesso diversissimi e comunque più che convinti di dover affermare la sovranità di cui si dicono dotati in una con gli interessi di cui affermano di essere portatori ma che – ripeto- non sembrano conosciuti più che tanto?

“Sopravvivere” per uno Stato pare possibile solo se si difendono a oltranza sovranità e interessi dei propri cittadini: una affermazione vuota di significato, se non esiste un quadro certo di cosa lo Stato sia e dunque quali siano i suoi interessi, in che rapporto questi siano con gli interessi dei singoli e, a maggior ragione, di cosa sia una comunità di Stati, come si disegnino i bisogni e gli interessi di cui è o dovrebbe essere portatrice, in che rapporti questi sono con quelli degli Stati componenti.
Ecco, allora, che quella “ragion di Stato” perde ogni significato, a meno che non la si consideri sinonimo di “ragion del gruppo dominante”.
E quindi di interessi “privati” raramente coincidenti con interessi “generali” e con il “bene comune”.
Che pare essere la sola certezza.
Se così è, con molta probabilità a tutta l’elaborazione dottrinale circa la ragion di Stato si può pensare come ad un gigantesco “argomentario di vendita” volto a fare accettare al pubblico di riferimento come soddisfazione di propri bisogni e tutela di propri interessi azioni che in realtà è probabile siano rivolte “contro” la generalità a vantaggio di pochi detentori del potere e in genere della maggior parte della ricchezza.

E come accade per tutte le argomentazioni di vendita di successo, anche la ragion di Stato opera su di un substrato culturale accuratamente preparato nei secoli e divenuto parte del DNA di ciascuno di noi, svincolato da ogni considerazione e valutazione di ordine giuridico, etico, morale.
Un che di ineluttabile, sul quale è inutile discutere: così è, anche se non vi pare.
Ed ecco, forse, che l’ipocrisia irrompe nel caso Regeni, come è accaduto in tantissimi altri casi nel corso dei secoli. Consiste, l’ipocrisia, non solo e non tanto nel comportamento dello Stato che ha torturato e ucciso, ma anche e soprattutto (perché più grave, a mio parere) in quello dello Stato cui appartiene il sacrificato.
Nel caso specifico, l’Italia la quale, pur sapendo tutto sulla ragion di Stato, finge di ignorarne la natura e dunque finge di non sapere che ogni e qualsiasi domanda in materia è destinata a rimanere senza quella “risposta vera” che si dice di pretendere. E finge, anche, di condannare l’Egitto che proprio in forza della ragion di Stato si dice non collabori con la giustizia italiana.
La realtà è che esistono verità che non si raccontano e neppure si ammettono, magari solo come ipotesi, pur sapendo che verrebbero, se non accettate, subite senza drammi particolari: è una delle anime della Politica.
A livello planetario.
A questo, forse è bene ricordare si aggiunge una “memoria della gente” quanto meno precaria. La gente è pronta a dimenticare, e quanto la gente dimentica è come non fosse mai accaduto. Allora, non è almeno ipotizzabile che il silenzio che avvolge ormai la sorte di Giulio Regeni possa essere stato utilizzato come mezzo per chiudere la faccenda, scomoda per tutti?
L’accostamento può apparire disdicevole, ma un modello (allora) innovativo di una grande casa automobilistica tedesca e (allora) pubblicizzato a trombe spiegate riuscì a capottare in curva, così rivelando un punto debole di grande gravità. Il costruttore reagì con intelligenza: invece di impegnarsi in una campagna di comunicazione che avrebbe richiesto investimenti importanti, e per di più dal risultato incerto, scelse di tacere. Non se ne parlò più, e la vettura ebbe un successo di acquirenti più che soddisfacente.