Cattedra: Qualche nota su mafia e cultura

di Paolo M. di Stefano -

Due fatti hanno preceduto il Natale e chiuso un anno tutt’altro che tranquillo, e lasceranno impronte non trascurabili per l’anno che inizia e, probabilmente, per molto tempo ancora:

  • il malaffare e le infiltrazioni mafiose a Roma;
  • quella “buona scuola” alla quale il Presidente del Consiglio ogni tanto fa riferimento e che, almeno a giudicare dalla comunicazione in atto, si giova del silenzio del Ministro.

Io credo che quanto sta accadendo a Roma (e non solo, ovviamente, ma Roma è la capitale, e dunque tutto in qualche modo diviene più evidente e, anche per questo, più importante!) non vada assolutamente sottovalutato.
Neppure se, come è stato detto e scritto, (e da fonte autorevole, anche), si trattasse veramente soltanto di quattro ladruncoli.
E’ la stessa logica, questa del minimizzare, di quella che induce a ritenere che il sottrarre la merenda al compagno di scuola sia solo uno scherzo e che chi ruba un pollo sia in fondo nulla di più di una pallida ombra di ladro.
Di fatto, si tratta di ladri in tutti i casi: magari di terza categoria, magari incapaci, magari sfortunati, magari soltanto stupidi, ma ladri. E quando a scuola non si puniscono i ragazzini che rubano la merenda al compagno, da un lato si insegna che possono esistere furti del tutto trascurabili e che il rubare è anche possibile, addirittura lecito, purché non si superino certi limiti; dall’altro, che il professore che ride e sopporta è un complice. E più si diverte, più è complice. Con un insegnamento ulteriore: che attraverso il sorriso o la risata del tutore dell’ordine e della legalità, è possibile farla franca.
Cosa, quest’ultima – che se si tratta di scherzo, è possibile farla franca, quasi un diritto all’impunità – ampiamente sostenuta a proposito di quell’atto criminale e idiota di cui è stato vittima, qualche mese fa, un ragazzo napoletano e che qualcuno sostenne essere uno scherzo e del quale, tra le altre cose, non si parla neppure più.

Dice:ma da che mondo è mondo, i ragazzi a scuola hanno sempre ‘sottratto’ la merenda al compagno. In genere, al più boccalone; non di rado, ma molto più di rado, anche al più intelligente, al più furbo, al più smaliziato. Una vera e propria sfida. Lo abbiamo fatto tutti…”

“Lo abbiano fatto tutti” è pura figura retorica. Se io lo avessi fatto anche una volta soltanto, e mio padre lo avesse saputo, avrei avuto gravi problemi. Magari per paura, ma non rubavo la merenda a nessuno. Ma è anche vero che dei furbi ero complice: non li ho mai denunziati al professore. Anche perché questo era prontissimo a sanzionare la delazione, ma mai l’ho visto intervenire a difesa di una merenda.
Di più: il “furto di poco conto” è stato istituzionalizzato in quel “dolo buono” che ha portato a suo tempo a giustificare il negoziante che sottrae qualche grammo di prodotto magari soltanto mettendo un poco più di carta sul piatto della bilancia. Oppure, o anche, in quelle argomentazioni di vendita che, “vantando” il prodotto e le sue caratteristiche, inducono all’acquisto ed a prezzo più elevato di prodotti spesso non in grado di soddisfare il bisogno di riferimento nella misura desiderata dall’acquirente.

Roba da poco. E poi, lo fanno tutti”.

Che si rubi e si cerchi di guadagnare in ogni modo è fatto assolutamente accettato. “La gente” non si aspetta altro e dunque che imprenditori, politici, faccendieri e chi altro cerchino di dirottare a sé ogni e qualsiasi tipo di risorsa, cerchino non solo di sfruttare le occasioni, ma di crearne di nuove, e si facciano un punto di onore di evadere le tasse e di finanziare illecitamente i partiti è nelle cose, ed il successo e la professionalità si misurano dalla quantità di risorse rubate e dall’essere riusciti a farlo senza essere scoperti.
E’, in fondo, anche il senso di quel “cogliere le opportunità” che ogni economista si fa un punto d’onore di insegnare nelle Università e nei corsi di formazione aziendale, e di perseguire nelle imprese. Direttamente, o nelle vesti di quei consulenti di gestione, il cui unico obbiettivo sembra essere dimostrare che, loro presenti, il bilancio è migliorato.
Aritmeticamente, almeno.
Con questo in più: l’elaborazione del concetto di “economia” come disciplina e pratica avulsa dalla morale, dall’etica e, secondo qualcuno, anche dal diritto.
Un mondo ideale: sfrutto a mio vantaggio ogni occasione e realizzo appieno i principi dell’economia, che sono il cromosoma principe di ogni essere vivente.
Un ambiente culturale nel quale si vive l’illusione di agire liberamente, senza vincolo alcuno se non quello costituito dal realizzare un utile quanto più elevato possibile.

La comunanza di questo tipo di cultura genera un ambiente così bene amalgamato che diviene quasi impossibile intervenire per modificarlo e migliorarlo. Poiché si tratta non solo di una realtà magmatica ma anche – per quanto contraddittorio possa apparire – di un magma cementificato. E bisognerebbe, forse, dedicare un’attenzione particolare alla circostanza che sia il magma che il processo di cementificazione sono nati molto prima di quanto in genere non si creda: probabilmente immediatamente dopo l’avvento dell’uomo, certamente al momento dell’ingresso del genere umano nella storia. Sembrano essere componenti stabili del cromosoma della comunità umana e quindi di tutte e di ciascuna le sue componenti.
In una con quella “centralità dell’individuo” che a mio parere è male intesa e diviene, proprio perché tale, fonte distorta di ogni pensiero, di ogni azione, di ogni valutazione e, in fondo, di ogni manifestazione di quella che va sotto il nome di “intelligenza”. E dunque anche del diritto, che sempre di più appare come manifestazione della forza di una parte della società; e della stessa organizzazione sociale, che nel diritto trova il proprio modo di essere e le vie di quel cambiamento che proprio per questo non sempre coincide con l’evoluzione in meglio della società; e nel sistema economico, che nell’affermazione dell’individuo, della sua forza, della sua capacità di profittare delle occasioni trova non soltanto giustificazione, ma anche diviene fonte di valori e dunque di valutazioni.
Non è assolutamente un caso che il potere e la ricchezza, conquistati senza esclusione di colpi, siano considerate la prova del successo e quindi del valore dell’individuo, e lo rimangano fino al momento in cui egli ne dispone. Nello stesso istante in cui uno dei due fattori viene a mancare, il soggetto interessato tende a passare, nella valutazione sociale, dalla parte del torto, ed a lui si attribuisce buona parte dei mali che affliggono la società.
E ci si ricorda, allora, di strane cose che si chiamano etica, morale, onestà, rispetto della libertà, solidarietà, cultura, semplice educazione…
Tutte astrazioni che sempre di più sembrano far parte del patrimonio dei deboli, dei perdenti e che continuano ad essere quei “punti di debolezza” che i nostri economisti insegnano vanno individuati per vincere la concorrenza.

Ed è anche opportuno, forse, ricordare che “concorrenza” in fondo significa competizione degli individui tra di loro; degli individui con la comunità di cui fanno parte, che a sua volta è individuo; delle comunità tra di loro; delle comunità con quelle di cui a loro volta sono componenti; e via così.
Tanto per chiarire: i componenti di una famiglia sono individui in competizione tra di loro, ciascuno teso a “trarre il meglio” dall’ambiente e dai suoi componenti. La famiglia in quanto individuo a sua volta ha il compito di prevenire e risolvere i conflitti tra i suoi membri alla luce dei bisogni e degli interessi che della famiglia sono propri e ne fanno, appunto, un individuo diverso, investito di una autorità che gli conferisce poteri più ampi di quelli di cui godono padre, madre, figlio e figlia in quanto individui a loro volta.
E le regole che la famiglia si dà sono a un tempo il “disegno” della struttura e il mondo della libertà dei singoli.
Si può legittimamente sostenere che i singoli disegnano la famiglia la quale a sua volta conoscendo se stessa e il mondo che la circonda ed usando il potere di cui dispone “ridisegna” se stessa ed ogni suo componente.
E anche è da notare che ogni famiglia è un individuo in competizione con ogni altra famiglia e con ogni altra organizzazione. Un individuo “collettivo” – se questo aiuta a chiarire il concetto-, in questo esattamente eguale ad ogni e qualsiasi organizzazione.
Il che mi pare aiuti a chiarire il compito proprio di tutte le organizzazioni immaginabili: individuare i bisogni e gli interessi di cui sono portatrici e tutelarli, anche se necessario sacrificando in tutto o in parte la soddisfazione dei bisogni e la tutela degli interessi dei singoli.
Che credo possa essere la descrizione del fine ultimo del potere: tutelare all’interno e all’esterno gli interessi della comunità di riferimento.

Non c’è dubbio che le organizzazioni che noi indichiamo come mafie facciano parte integrante degli individui “collettivi” e giochino il proprio ruolo secondo le regole di struttura e di comportamento che si sono date.

Bisogna non sottovalutarle, le mafie. Ma è necessario, anche, non guardare a loro semplicemente considerandole associazioni per delinquere, ovviamente a scopo di lucro; corpi sostanzialmente estranei allo Stato ed alle istituzioni, alle imprese pubbliche e private, alla Politica ed agli affari, da perseguire perché autrici (le mafie) di comportamenti proibiti dalle leggi e dai regolamenti.
Forse, meno dagli usi e dalle consuetudini, che non è storia diversa più che tanto.

Ma che rafforza l’idea che “le mafie siamo noi”.
Non nel senso che ciascuno di noi, da solo o in compagnia, attui comportamenti mafiosi e dunque sia un mafioso aderente ad una qualsiasi mafia, quanto nel senso che la mafia null’altro esprime se non l’esasperazione, l’eccesso nell’uso di quelle libertà economiche e sociali che diciamo essere le garanzie che lo Stato offre ai suoi cittadini.

Le mafie siamo noi perché i principi del sistema economico e i comportamenti politici contengono in sé il nocciolo delle mafie: il cercare il profitto e la sua massimizzazione non soltanto cogliendo le opportunità, ma creandole se necessario; il continuare a sostenere e ad insegnare che il sistema economico prescinde dal diritto e dall’etica; l’affermare che l’individuo è al centro di tutte le cose e che in lui, in ciascuna persona, è il riferimento per ogni e qualsiasi valutazione; il non curare la specializzazione dei “politici”, come se il fare politica non fosse una professione degna di tutte le attenzioni possibili, in una con il non attribuire la giusta importanza alla creatività ed all’aggiornamento dei principi economici … tutto ciò che “struttura” la nostra società è anche quanto struttura le mafie.
L’individuo “mafia” nasce e vive nell’ambiente stesso in cui nasce e vive ciascuno di noi, in cui nascono ed operano le imprese, e in quello stesso in cui nasce ed opera lo Stato. E questo fa con gli stessi sistemi e con la stessa cultura.
Con una sola differenza: i limiti previsti nei rapporti tra le organizzazioni e tra gli individui.
Così, l’affermazione di sé – obbiettivo generale che per le “non mafie” può essere legittimamente perseguito soltanto se non lede lo stesso diritto da parte degli interlocutori – per le “mafie” può essere realizzato senza esclusione di colpi.

Non dobbiamo dimenticare mai che lo Stato e le mafie hanno obbiettivi molto simili: costituiscono insiemi organizzati al fine di meglio garantire la soddisfazione dei bisogni dei propri membri, e che in questo sono in concorrenza ciascuno con qualsiasi altra organizzazione avente lo stesso fine ultimo. E lo sono in un mondo – quello dell’economia – che si assume come svincolato dall’etica, dalla morale e in gran parte dagli interventi del diritto.

Forse con una differenza di non secondo momento: le mafie sembrano molto più vicine agli interessi personali dei singoli che le compongono di quanto non sia lo Stato, non fosse altro che per ragioni di dimensioni. E’ un po’ come ragionare in termini di amministrazione di un villaggio, da un lato, e di uno Stato, dall’altro. Se è vero che in entrambi i casi si tratta di “fare il bene comune”, una cosa è individuare e far propri i bisogni di una comunità di trecento persone, altra e ben diversa cosa è quando quella comunità è composta da decine di milioni di individui.
Tra i quali, oltre tutto, sono le stesse mafie.
E quella “vicinanza” fa sì, anche, che i membri della comunità si sentano “in prima persona” considerati e oggetto di attenzione e destinatari in tutto o in parte delle attività della comunità in quanto soggetto agente: sentire che si sfalda con l’ingrandirsi della comunità, si perde nella nebbia fino a diventare estraneo.

E allora, forse tre suggerimenti.

Il primo e più importante: tutti noi dobbiamo essere educati a “pensare in grande”, nel senso di riconoscerci quali membri di una comunità umana il cui compito è soddisfare i bisogni di cui è portatrice in quanto comunità, appunto, e dunque bisogni che siano diversi da quelli di ciascuno di noi e da quelli di ciascun altro individuo collettivo, e che in più di un caso impongono sacrifici alla soddisfazione degli stati individuali.
Il secondo, che dobbiamo anche far nostra l’idea che il sistema economico deve essere fondato sulla “giusta” (corretta, etica, legale) distribuzione della ricchezza a sua volta prodotta in modo corretto, etico, legale, giusto.
In entrambi i casi, la funzione delle scuole, degli insegnamenti, è di importanza assoluta.
Anche perché se l’insegnamento è corretto e limita i sempre possibili effetti distorti, il lavoro di tutti coloro che – con l’esempio, con la parola, con il sacrificio personale – cercano di intervenire sulla personalità, sull’educazione e sui comportamenti dei soggetti definiti mafiosi sarebbe senza dubbio facilitato e i risultati ottenuti di rilievo maggiore di quanto oggi non sia.
Il terzo, forse il più importante: dobbiamo tutti partecipare con il massimo delle possibilità di ciascuno a “creare l’ambiente” favorevole alla rinuncia della forza, della violenza, della sopraffazione, dell’egoismo, della corruzione – che sono i mezzi principali di cui le mafie si servono.
Questo significa anche – oltre all’impegno di ciascuno e di ciascuna organizzazione a “formare” una società “onesta” – la consapevolezza che non si può lasciare il compito di contrastare l’azione delle mafie e in particolare la “formazione mafiosa dei giovani” all’azione ed al sacrificio di singole persone. Tutti coloro che contrastano “sul territorio” l’attività mafiosa vanno supportati, aiutati, incoraggiati; i sacerdoti impegnati in questa che è una vera e propria guerra devono trovare la solidarietà e il concreto aiuto di una Chiesa che – mi pare incontestabile – della solidarietà umana e dell’avvenire della società dovrebbe aver fatto la propria “causa ultima”, in una con la difesa di tutti quei valori ai quali le azioni di tutti noi dovrebbero essere improntate. Ogni opportunismo andrebbe cancellato.

Le mafie – i comportamenti mafiosi – hanno trovato da sempre a Roma, perché fulcro del potere e della politica e degli affari collegati, un importante punto di riferimento e un ambiente più che favorevole. Non che le altre città (e Stati diversi) siano immuni dall’attività delle mafie, ma Roma è da sempre la più esposta. Perché riferimento dei poteri, ripeto, e della Politica.
A dicembre, il bubbone sembra essere esploso.
Forse, qualcuno pagherà.
Ma, come si dice sia successo a Milano dopo tangentopoli, tutto rimarrà come prima – mutatis mutandis – se non si interverrà con decisione e in profondità.
Che vuol dire cambiare le regole dell’economia, e dunque il sistema; modificare la cultura dei politici; agire sulla cultura della gente.

E in materia la scuola deve assumersi le proprie responsabilità e svolgere un ruolo determinante. Cosa possibile solo se la Politica riacquista il senso etico – prima ancora che giuridico – del perseguire il bene comune. Quella “buona scuola” alla quale fa riferimento il Presidente del Consiglio è probabilmente soltanto una affermazione di buone intenzioni. Non pare che le proposte fatte dall’esecutivo, seppure –si dice- scaturite da un sondaggio ampio, siano in grado di portare l’istruzione degli italiani a livello di eccellenza e tanto meno di intervenire su quella “educazione” che consenta di ridurre entro limiti fisiologici le attività definite “mafiose”. Allora, intanto sarebbe assolutamente necessario affidare “la Politica della istruzione pubblica” a personalità che incarnino principi di comportamento ispirati ad un’etica assolutamente oggettiva e priva di ogni e qualsiasi cedimento.
Poi, operare secondo principi di assoluta eccellenza: la scuola pubblica – intendendo per tale la scuola gestita dallo Stato – deve porsi sul mercato dell’istruzione e della formazione come la migliore in senso assoluto, e ad essa ed a questo risultato deve essere destinata ogni risorsa “pubblica”.
Non ha senso alcuno finanziare le “scuole concorrenti” (definite generalmente private): non esiste che l’impresa “scuola di Stato” – che deve creare prodotti di eccellenza in un ambiente eccellente ai fini di un’eccellente distribuzione e di un’altrettanto eccellente comunicazione – non esiste, dicevamo, che uno Stato riduca in povertà la propria scuola, la privi di risorse assolutamente necessarie, e questo faccia per finanziare le imprese “scuole private”.

E in un mondo di eccellenza della scuola pubblica dovrebbero essere attuati tutti quegli accorgimenti che abitueranno i giovani a combattere ogni e qualsiasi forma di ingerenza mafiosa.
E’ nella scuola che si potrebbero sperimentare le norme sulle incompatibilità, indispensabili nel mondo della gestione dello Stato e degli Enti pubblici territoriali e non, così come nel mondo del “privato”.
Ricordando che le mafie si nutrono anche del “familismo”, perché non cominciamo ad evitare che il figlio, la moglie, il fratello, il cognato di un docente universitario raggiungano la cattedra nella stessa università o anche nella stessa facoltà? E perché non impedire che uno studente frequenti la stessa scuola nella quale il padre, la madre, un parente prossimo svolgano la funzione di insegnante o di preside? E perché l’assegnazione di una cattedra non deve essere impedita dall’esistenza, nella stessa scuola, di un familiare insegnante? E, anche, potrebbe essere incompatibile la frequenza ad un corso di laurea da parte del figlio di un docente nello stesso corso e nella stessa università. E non si potrebbe controllare meglio di quanto non accada oggi a chi vanno gli appalti di qualsiasi tipo (ad esempio, l’impostazione e la gestione dei sistemi informatici), stabilendo che nessuna impresa o persona fisica o altro legato da rapporti di parentela diretti o indiretti con il committente possa partecipare alle aste e comunque possa ricevere l’appalto?
Fuori dal mondo della scuola e dell’istruzione, io credo che non pochi benefici porterebbero norme che impediscano ad uno dei coniugi di svolgere funzioni pubbliche nello stesso settore in cui opera l’impresa in cui l’altro coniuge è impiegato o dirigente. La stessa cosa potrebbe essere prevista per i figli. E andrebbe stabilito il grado di parentela o di affinità entro il quale la incompatibilità opera.
Naturalmente, nel caso degli uffici pubblici, l’incompatibilità andrebbe stabilita a carico del pubblico ufficiale, ma potrebbe non escludersi la possibilità di dichiarare inammissibile l’assunzione di impiegati e dirigenti in imprese private che operino nello stesso settore in cui lavora come pubblico impiegato un parente o un affine.
Detto per inciso: il Parlamento potrebbe dare un primo esempio concreto, stabilendo l’incompatibilità nel caso di elezione di parenti o affini e anche dell’assunzione o della conservazione dell’ufficio da parte del pubblico impiegato quando sia eletto alla Camera o al Senato un parente o un affine.