Cattedra: Pubblica istruzione, più di qualcosa si muove, anche se non sembra

di Paolo M. di Stefano -

L’insegnamento della musica nelle scuole non mi pare sia una novità, e dunque non mi ha commosso particolarmente l’annunzio del Ministro. E neppure so quanto la musica faccia parte del suo bagaglio culturale e men che meno di “quale musica” si tratti.
L’argomento è comunque controverso, e con qualche probabilità un’eventuale risposta a quesiti quali “che tipo di musica insegnare”, “con quale livello di approfondimento”, “insegnare o meno nelle scuole a suonare uno strumento” , “limitarsi ad insegnare Storia della Musica”, “chi è deputato ad insegnare” (…) e via dicendo è troppo intrisa di opinioni personali e di alternative possibili per sperare in una visione oggettiva.
Anche perché, per esempio, almeno fino a qualche tempo fa media quali la radio e la televisione hanno inondato l’Italia di “musica leggera”, di “cantautori”, di “musica pop”, di “canzonette” (qualcuna anche di pregio), di “musica jazz” e di tutte le variazioni possibili, determinando un mercato della “musica riprodotta” soprattutto fatto di queste cose.
Che ovviamente hanno una propria dignità e in alcuni casi riescono ad attingere i vertici dell’arte, ma che, forse, non dovrebbero incarnare la moderna cultura musicale e avrebbero bisogno di qualcosa di più e di diverso dall’ascolto ripetuto in modo ossessivo.
Ad esempio, di basi di conoscenza legate alla “grande musica” ed alla “grande tradizione musicale” del nostro Paese e non solo.
Dunque, alla musica definita “classica”, ferma restando che la definizione è di puro comodo, tanto per intenderci. Forse, per quanto serve qui, si potrebbe parlare di “musica della tradizione storica”.
Il che (per inciso) potrebbe anche dare un’indicazione di massima sul metodo: partire dalla musica più antica per giungere per gradi fino alla musica contemporanea.

Se io avessi voce in capitolo suggerirei di prendere le mosse da due delle questioni alla ribalta in questi tempi: la crisi dei mercati e la creazione di posti di lavoro. Ad esse, aggiungerei che la musica è una forma d’arte, e che, dunque, forse varrebbe la pena di dare un’occhiata approfondita a quel “mercato dell’arte” che pure è di difficile definizione – perché di difficile definizione è l’arte in sé – ma che, comunque lo si consideri, è in crisi e, se funzionasse, procurerebbe numerose e varie prospettive di lavoro.

Le scuole servono anche a “fare i mercati”. Voglio dire che l’istruzione, la formazione, la cultura sono suscettibili di “generare” scambi anche economici e quindi di creare, vivificare, far crescere, mantenere e far morire i mercati. Tra questi, anche quelli relativi all’arte ed alla cultura.

Da più parti si sostiene che almeno da noi la crisi riguarda la maggior parte dei “prodotti culturali”. I teatri di prosa sono poco frequentati, almeno si dice; lo stesso accade per i locali nei quali si danno o si dovrebbero dare spettacoli di balletto, concerti, spettacoli d’opera, e via dicendo fino agli spettacoli cinematografici, alle mostre d’arte figurativa, ai Musei… Il tutto, con le ovvie connessioni con la crisi del mercato dei libri, con quella del mercato degli strumenti musicali, con quella del mercato della musica riprodotta (sembra, la musica classica in particolare). E con un indotto che, se non erro, per quanto riguarda le arti è particolarmente affollato e vario.
Qualcuno ha messo in evidenza come queste crisi siano innanzitutto “crisi di spettatori”, e poi anche crisi di autori, di compositori, di registi. E con questi, di datori di luci, di rammentatori, e via dicendo. Con le discussioni relative: la gente non va a teatro perché mancano autori ed opere degne di attenzione, oppure non vale la pena di scrivere e produrre dal momento che mancano i fruitori?

Al di là di ogni e qualsiasi diversa considerazione, a me pare assolutamente certo che “gli spettatori” siano sempre e comunque il prodotto di una cultura che si forma anche e soprattutto attraverso le scuole.
Con in più la necessità di disporre di una pratica che consenta di vincere la gran parte di quelle resistenze al cambiamento che in genere mortificano la cultura. Tanto per intenderci: per chi non “frequenta” la musica successiva a Mozart o Beethoven, le creazioni di Mahler , o di Luciano Berio o di Kurtard o di Sollima e di altri compositori contemporanei di quella che chiamiamo “musica colta” sono di difficile accettazione, ma non è assolutamente raro il caso di coloro che, in qualche modo “costringendosi ad ascoltare” , ne hanno scoperto il valore e li apprezzano.

Dunque, i giovani che hanno qualche consuetudine con i prodotti culturali e che sono stati formati all’uso di essi potranno un giorno costituire quella “domanda” alla quale si potrà rispondere con teatri e sale da concerto che avranno buone probabilità di essere affollate; con la disponibilità di autori e compositori e pittori e scultori e architetti e cesellatori (la casistica è infinita) quasi certi di trovare occasioni nell’arte di riferimento.

E di fare profitto.

Il che porta la scuola ad essere il primo e più importante fattore per quel “rilancio dell’economia” attraverso la creazione di posti di lavoro che tutti auspicano ma per realizzare il quale pare le idee non siano poi così tante.

Strategicamente, l’indicazione è che bisogna creare una popolazione di “conoscitori per pratica”, ovviamente non del tutto digiuni di basi teoriche dei quali una parte importante diverrà partecipante attivo ad una o più di esse, a seconda delle inclinazioni di ciascuno. Tra i giovani, qualcuno si appassionerà al teatro e vorrà diventarne parte attiva come autore, come attore, come regista, come datore di luci, come rammentatore; qualcun altro, avvertirà un richiamo da parte della danza, e vorrà divenire forse ballerino, ma forse anche coreografo o autore o quant’altro; e ci sarà chi, fulminato dalla musica sulla via della scuola, vorrà diventare musicista e dedicarsi ad uno strumento, oppure si dedicherà alla composizione, al canto, alla direzione d’orchestra, alla carriera di solista, alla regia…
E via dicendo. E sarà la stessa cosa per ogni e qualsiasi manifestazione dello spirito.

Si noti bene: per la musica e per il teatro di prosa e d’opera – ma non è detto che accada solo per questi – esempi di “contatti con le scuole” esistono e sono in qualche caso anche consistenti. A Milano, per esempio, sono organizzati abbastanza regolarmente spettacoli e concerti per le scuole, e i bambini delle scuole elementari e medie hanno da anni l’occasione di assistere a spettacoli alla Scala.

Tatticamente in pratica si dovrebbe trattare soltanto (si fa per dire!) di “pianificare correttamente le attività sul territorio e coordinarne lo svolgimento”.
Per le scuole di ogni ordine e grado potrebbe essere elaborata la pianificazione di partecipazioni guidate ai diversi eventi di ciascuna disciplina artistica. Magari anche con priorità al teatro d’opera, a quello di prosa, ai concerti, alle mostre d’arte ed alle visita ai siti d’interesse archeologico e storico. Il tutto, seguendo un percorso storico che cominci dal repertorio classico e giunga fino alle maggiori manifestazione d’arte contemporanea.
Classi accorpate potrebbero essere guidate agli eventi a cura di esperti dell’arte di riferimento.
E questo si potrebbe realizzare (senza esagerazioni) nel corso dei circa otto mesi di scuola, magari anche con qualche invasione nel periodo di vacanze estive.
I ragazzi delle elementari potrebbero essere impegnati per una o due volte al mese; quelli delle medie inferiori, due o tre; medie superiori ed Università potrebbero disporre partecipazioni più numerose ed anche specialistiche.

Queste che possiamo chiamare “lezioni di spettacolo” dovrebbero entrare a far parte integrante dei programmi scolastici, e quindi anche essere oggetto di valutazione a tutti gli effetti.

Il Ministero della Istruzione Pubblica – l’annotazione non mi sembra peregrina – potrebbe diventare il più importante dei Ministeri italiani.
Oltre all’esercizio delle funzioni che gli sono proprie e che di per sé ne farebbero il più importante di qualsiasi dicastero, l’essere il coordinatore di progetti relativi all’insegnamento delle arti potrebbe significare l’attivarsi strumentale – e quindi in qualche modo subordinato – di altri Ministeri: del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo; di quello della Cultura e dei Beni Culturali; di quello dello Sviluppo Economico, di quello dell’Economia e Finanze e di quello delle Infrastrutture e dei Trasporti. Almeno.
E vorrebbe significare l’acquisizione di un potere di indirizzo e di controllo senza precedenti.

Anche di responsabilità concrete e concretamente valutabili, è vero. E già questo sarebbe un problema: i nostri Politici si assumono oneri e responsabilità solo “per annunzi” e per materie la cui genericità e indeterminatezza rende quanto meno opinabile ogni valutazione e dunque ogni giudizio.
Di più, c’è la resistenza dei Ministri (di tutti, per la verità) a “cedere poteri” ed a lavorare in team.
E allora…

E’ noto che la Politica, i Politici e, tra questi, i Ministri si limitano a “comunicare programmi” ed ad “indicare obbiettivi” guardandosi bene dallo scendere in quei particolari che sono assolutamente essenziali perché l’idea, ogni idea, abbia una probabilità anche minima di divenire realtà.
Così sembra essere per l’annunziato insegnamento della musica nelle scuole, ad esempio. Nessuno ha neppure provato a descrivere cosa esattamente significhi “insegnare la musica nelle scuole” e “come esattamente l’idea possa essere tradotta in realtà”.
Il che, ovviamente, non ha impedito al Ministro di proclamare quella che, probabilmente, per Lei è una novità e disegno di un orizzonte più vicino.
E non lo ha fatto quasi certamente per non scoprire le proprie carte e non mettere a rischio la valutazione che di Lei avranno in Italia, in Europa e nel mondo e, con l’immagine, gli incarichi ai quali certamente aspira. Tipico atteggiamento, peraltro, di un qualsiasi consumato politico.
Ma chi conosce il nostro Ministro della Pubblica Istruzione che, oltre ad essere linguista di chiara fama, ha saputo amministrare da manager di alto livello l’Università da Lei retta per più di un mandato, sa che il disegno è più o meno quello che qui di seguito tento di delineare.

Qualcuno potrebbe dubitare di tutto questo. I Politici italiani non brillano per creatività e per concretezza, se si eccettuano gli interessi del gruppo di appartenenza e, in più di un caso, quelli del tutto personali.
E perché il Ministro della Istruzione, della Università e della Ricerca dovrebbe fare eccezione?

Ma la creatività del Ministro è fulgidamente attestata da qualcosa di assolutamente stupefacente: essere riuscita a fare della linguistica l’anima del terzo millennio.
E vale la pena di partire da lontano, anche per non contribuire a creare equivoci e malintesi sempre possibili.

C’era una volta il diario scolastico. Pare viva tutt’oggi. Era la maggior fonte di conoscenza, il massimo forziere di quelle pillole di saggezza le quali, checché se ne dica, tanta parte avevano nella formazione culturale delle giovani generazioni. E costituivano anche una riserva non trascurabile di “citazioni citabili” nelle conversazioni salottiere. In questo, per la verità, superati dai bigliettini confezionati con i Baci della Perugina: parlavano prevalentemente d’amore e si collegavano direttamente con il cioccolatino alle nocciole vestito di stelle celesti su fondo d’argento.
Tutte citazioni – dei diari e dei cioccolatini – che divenivano talvolta spunti di ricerche ed approfondimenti; sempre, informavano.
Magari in modo indiretto, ma informavano.

E’ certo che nessuno dei diari scolastici dell’anno appena iniziato ha riportato quel “da professoressa do sei meno all’inglese di Renzi” che il ministro della Pubblica Istruzione ha pensato bene di affermare e che “La Repubblica” ha diligentemente citato il 19 settembre a pagina 8, nel “breviario” di Gianluca Luzi: non hanno fatto in tempo. Per il 19 settembre, i diari erano già stati non solo già stampati e distribuiti alle librerie, ma anche acquistati.
Peccato.

Gli studenti – e non solo – avrebbero potuto iniziare ad avere la prova provata che veramente la scuola è una delle priorità assolute del Governo e, ovviamente, del Ministro alla Pubblica Istruzione. E, con essa, la conferma che l’innovazione e la creatività – non disgiunte da una professionalità esemplare – sono vive e vitali in una Politica che, finalmente, si ammanta di modestia e discrezione.

La strategia del Ministro è esemplare. I Sacri testi affermano che:
1. è buona norma partire da una definizione chiara, condivisibile e possibilmente condivisa della materia di cui si tratta;
2. ogni affermazione, soprattutto se innovativa, va esposta morbidamente, in modo quasi casuale, perché deve essere accettata, non imposta;
3. è bene aver chiari i punti di forza e di debolezza di ciò che si vuole ottenere, anche per elaborare correttamente tutta la comunicazione indispensabile e in particolare le argomentazioni di vendita opportune perché il prodotto sia accettato.

Sono le basi indispensabili perché il detto dei sacri testi si concreti in sacri principi di comunicazione che abbiano buone probabilità di raggiungere il destinatario, essere compresi, e dunque essere condivisi.

Chi meglio di un maestro della comunicazione può conoscere ed applicare le regole appena sintetizzate? Non solo, naturalmente, ma almeno queste.
Ed ecco, allora, il Ministro della Pubblica Istruzione lanciarsi in una sintesi estrema e apparentemente innocua di quella che resterà nella storia come espressione massima della creatività e della innovazione della Politica nel mondo della Cultura. (notate le maiuscole?)

“Da professoressa” esordisce il Ministro. E qui subito una serie di problemi, sorti anche per la confusione che pare regnare in Italia sulla qualifica di “professore”, che non è, come molti (troppi) sono portati a credere in automatico spettante a chi insegna per il solo fatto di insegnare. Sembra che da noi il titolo spetti di diritto soltanto ai docenti universitari e, se non vado errato, soltanto ai titolari di cattedra e agli associati.
Più o meno.
Ora, sia pure limitato ai docenti universitari titolari di cattedra (ordinari) e agli associati, di quale disciplina occorre essere cultori e insegnanti per potere esprimere giudizi sulla qualità in senso lato della conoscenza di una lingua e dell’eloquio che ne consegue?
Domanda di non poco conto, per rispondere alla quale bisogna forse ricordare che la Ministra è docente ordinaria di linguistica presso una Università piccola e ormai screditata quanto si vuole (vedasi in proposito la classifica delle Università italiane stilata dal Sole24ore), ma pur sempre Università.

E se un docente di linguistica sottolinea che “da professoressa” assegna un voto alla conoscenza di una lingua (nello specifico, dell’inglese), si può immaginare che il riferimento sia la linguistica, appunto. Il che risponde almeno in parte alla domanda. Così:

un docente di linguistica è in grado di valutare la qualità ed il livello di conoscenza di una lingua da parte di chi ne fa uso. Con un risvolto immediato, seppure di rilevanza non assoluta: di quale lingua e di quante?
Pare che nel mondo si parlino tra le seimila e la settemila lingue. Tra queste, in testa ad una possibile classifica dovrebbe essere il Cinese (un miliardo e duecentotredici milioni di persone) seguito a distanza dallo Spagnolo e dall’Inglese (circa trecento trenta milioni di persone per ciascuna), dall’Arabo con circa duecentotrentamilioni di persone), dall’Hindi e dal Portoghese con più o meno centoottanta milioni di persone, e via dicendo. Pare che l’italiano sia al diciannovesimo posto, con circa sessantadue milioni di utilizzatori. E’ il risultato di una ricerca – forse frettolosa – su Internet, dove comunque non ho trovato cenni degni di nota per le lingue morte (latino e greco in testa, almeno per noi) e neppure alla presenza o meno tra le sei- settemila di quelle lingue che noi chiamiamo dialetti.
Ma forse non è importante più che tanto.
Forse invece lo è il sapere di quali lingue e di quante di esse un linguista è in grado di valutare la conoscenza da parte di chi le parla. Voglio dire: se il Presidente del Consiglio si fosse espresso – magari a puro titolo di cortesia – in arabo o in hindi, “da professoressa” il Ministro sarebbe stato in grado di esprimere una valutazione?
Non ho una risposta, ma un dubbio sì.
E me lo tengo.

Quidam de populo potrebbe forse ignorare cosa la linguistica sia. Ed è probabile che quel qualcuno si lanci come un sol uomo sul vocabolario della lingua italiana e legga: Linguistica: “Lo studio delle lingue nella loro storia, nelle loro strutture e nei loro rapporti con la storia della cultura e le classi sociali” (Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana). Tanto per la cronaca: subito sopra c’è la definizione di Linguista quale “cultore di studi linguistici” e, subito sotto, di linguistico come “attinente al fenomeno della lingua, specialmente come oggetto di indagine o classificazione”.
Dal canto suo, il nuovo Zingarelli definisce la linguistica come “studio scientifico e sistematico del linguaggio e delle lingue naturali”.
Che è bello ed istruttivo.
Ma che, soprattutto, non giustifica più che tanto quel “da professoressa do sei meno all’inglese di Renzi”.
Dunque occorreva dare della linguistica una definizione diversa da quella canonica, chiaramente insufficiente, e dichiarare a voce spiegata che la linguistica è la disciplina che consente di parlare alla perfezione tutte le lingue e dunque anche di esprimere giudizi sul loro uso da parte dei “non nativi” sarebbe stato non soltanto non diplomatico, ma forse addirittura offensivo, e avrebbe certamente provocato reazioni. Ecco, allora, il percorrere una via sufficientemente morbida per stimolare la curiosità di coloro che in qualche modo hanno interesse all’approfondimento delle cose. E solo chi è spinto all’approfondimento può proiettare la propria mente al di là dei confini delle convenzioni, e quindi non giungere con approssimazione frettolosa alla conclusione che il Ministro, nell’altra vita (quella universitaria) insegnasse inglese.
E con la diplomatica cortesia e discrezione che le sono proprie, – anche in modo di poter negare di aver mai fatta affermazione simile, che è modo proprio della politica e dei politici -, la ministra lascia intendere che la linguistica è una disciplina che consente di conoscere a fondo qualsiasi lingua e dunque anche di valutarne il grado di conoscenza da parte di chi la usa. E senza parere, porta alla ribalta una nuova e più moderna definizione della linguistica come “strumento di conoscenza di tutte le lingue naturali e di giudizio della sintassi, della grammatica, della costruzione e della pronunzia e dunque dell’uso di ciascuna di esse”.

Data la definizione, se ne dovrebbero trarre conclusioni. Una delle quali sembrerebbe essere questa: la Ministra ha parlato “ in qualità di professoressa”. Lo ha detto in modo inequivocabile.
Ma certamente la Ministra non intendeva dire che il semplice essere “professore” abilita a parlare ogni idioma: farlo è appannaggio della linguistica, la materia che Ella insegna (o che dovrebbe insegnare) e che la pone nell’Empireo dei docenti.
Dunque, io che sono abilitato a seguito di regolare esame di Stato all’insegnamento di materie giuridiche ed economiche (compresa la statistica) e che ho insegnato marketing in corsi aziendali, in corsi di perfezionamento e in più di una Università, non per questo sono in grado di valutare la conoscenza dell’inglese da parte di chicchessia. E infatti non lo sono.
Lo sarei solo se fossi linguista.
E forse, se disponessi anche della cadenza propria della periferia della Toscana, simpatica, bella e forse anche colta Regione, ammalata però di “toscanite acuta”, tara ereditaria che affligge troppi toscani (la quasi totalità) e che appartiene alla numerosa famiglia dell’autoreferenzialità, patologia tipica dei docenti universitari e dei politici, non senza invasioni in settori diversi, segnatamente nell’imprenditoria e nella managerialità italiche.
Dicevo: insegnante di linguistica e d’accento toscano, cose che appartengono alla Ministra e ad un ristrettissimo numero di eletti, e che, per quel poco che ne so, la Ministra conserva orgogliosamente anche quando si esibisce nell’inglese.
Che ovviamente intride della propria straripante personalità.

La nuova definizione di linguistica consentirebbe, naturalmente, conclusioni ulteriori, quelle dalle quali un qualsiasi politico italiano è solito astenersi, poiché il solo trarre conclusioni logiche sarebbe negazione della politica. Un politico non può, non deve, servirsi della logica che, come ognun sa, alla Politica ed alle politiche è estranea. Almeno, fino alla formulazione di enunciazioni condivise e dunque accettate dalla maggioranza dei votanti alle consultazioni di riferimento. E non è detto che logica e accettazione e condivisione abbiano legami nella e con la Politica.
Se la linguistica è quella adombrata dalla Ministra, a che serve predisporre insegnamenti e cattedre dedicati ad ogni specifica lingua (con impegno non trascurabile di risorse finanziarie e umane) quando basterebbe sostenere e superare l’esame di linguistica per discettare su e con ciascuna e su e con tutte?
Laggiù, lontano lontano, ai bordi dell’orizzonte, si delinea la cancellazione degli insegnamenti di tutte le lingue, con un notevole risparmio di tempo e di danaro. E si noti bene: di tutte le lingue in assoluto, e dunque anche della lingua italiana.
Ma pensate al risparmio che si potrebbe realizzare?
In una futura università che formi insegnanti di lingua, basterebbero i corsi di linguistica per essere in grado di insegnare lingue morte e lingue vive e di valutarne la conoscenza da parte di docenti e discenti; i corsi potrebbero essere di linguistica generale con eventuali specializzazioni in tutte le lingue e i dialetti parlati al mondo a seconda della richiesta e delle opportunità. Con, in più, il vantaggio di una materia – la linguistica, appunto – che sarebbe approfondita costantemente nel corso di tutti gli anni di studio. E, volendo, oltre.
Con un vantaggio ulteriore: la linguistica diverrebbe il collante tra i diversi paesi e le diverse regioni del mondo.
E un mondo linguista non può che essere unito.

Una cosa – per la verità, con qualche altra di scarsa importanza – mi stupisce: che la Ministra, pronta come è sempre stata a cogliere ogni opportunità, nel corso della sua intensa azione di rinnovamento della scuola non abbia speso una sola parola in favore dell’insegnamento della linguistica fin dalle primarie. Ma forse lo ha ritenuto ovvio. O forse, si riserva di farlo in futuro.

E ancora un vantaggio, al quale è bene fare un cenno: l’aver superato gli esami di linguistica ai diversi livelli renderebbe immediatamente abilitante il titolo conseguito alla fine degli studi universitari. E dunque, ancora un risparmio. Anche perché le valutazioni conseguite nel corso degli studi riuscirebbero a tracciare una graduatoria di merito assolutamente affidabile, visto e considerato che i docenti universitari sono conoscitori e giudici estremamente corretti e le loro valutazioni assolutamente oggettive e specchio del merito.
Soprattutto se fosse correttamente valutata la cadenza toscana.