Cattedra: Ma sei matto? Abbiamo cose più urgenti cui pensare
di Paolo Maria di Stefano -
Debbo riconoscere che tra i tanti pallini che agitano i miei pensieri, quello del sistema elettorale appare come il più insistente e fastidioso. Insistente, perché sembra il suono sgradevole di un tasto percosso all’infinito senza un disegno, per il solo scopo di produrre rumore anche generato dal progressivo deteriorarsi del martelletto e delle corde. E per questo fastidioso: perché si ripresenta soprattutto riproponendomi la consapevolezza della inutilità del mio proporre una soluzione, certamente innovativa e altrettanto certamente difficile ed impegnativa, ma pur sempre creativa e certamente degna di quella attenzione che dovrebbe condurre quanto meno ad un confronto, magari per dimostrarne la inconsistenza.
Né mi consola la consapevolezza di essere in buona e numerosa compagnia. Quel mal comune che per qualcuno è un mezzo, gaudio, secondo me rimane una tragedia.
Per di più, come ho accennato nell’editoriale, l’agitarsi dei nostri politici più che una colta discussione alla ricerca di una pianificazione di gestione corretta appare un vuoto starnazzare di pennuti alla conquista del cibo.
Evidentemente, la conoscenza della caratteristica della Politica quale attività di soddisfazione dei bisogni della comunità non è sufficiente, forse perché dai più scambiata per una sorta di argomentazione di vendita oppure – o anche – un puro slogan pubblicitario. Mentre non vacilla quella definizione di “arte del compromesso” che da troppo tempo per troppe persone ha identificato la Politica, anche confondendo un mezzo con l’oggetto.
Perché il compromesso non è che un mezzo del quale la Politica si serve per “disegnare ed attuare” l’attività che dovrebbe esserle propria, ma “non è” la Politica.
E neppure è sufficiente denunciare la pervicace autoreferenzialità della stragrande maggioranza di coloro che direttamente o indirettamente si occupano di Politica. Resta, l’autoreferenzialità, il primo attributo, irrinunciabile, almeno a giudicare dalla cura che i politici dedicano ad evitare le opinioni e le proposte provenienti da parte di chi non è strettamente associato al gruppo di riferimento. Il quale si distingue proprio per avere opinioni e organizzare discussioni assolutamente convergenti. Tutti vanno nella stessa direzione di massima; qualche piccolo passo fuori dai binari è concesso purché si rientri al più presto nei ranghi; la direzione obbligata è quella di chi è riuscito a farsi riconoscere come leader. Che ha una sua logica, evidentemente, ma che diviene assolutamente inammissibile quando non di un Partito si tratta, bensì di un “circolo”, per esempio, o di altra struttura il cui scopo dovrebbe essere costituito proprio dalla discussione più aperta, mezzo prioritario di arricchimento e di aggiornamento.
Il tutto a mio parere aggravato dal fatto che generalmente l’adesione incondizionata non è richiesta da un “pensiero del gruppo”, bensì dal pensiero della persona che di quel gruppo è o aspira ad essere leader e che, a sua volta, nel gruppo si fa porta voce di un leader del Partito o della corrente di riferimento, pretendendo il consenso con il leader-pensiero.
Che non va discusso e che non ha bisogno di contributi di sorta.
Quando era giovanissimo studente universitario, moltissimi anni addietro, ho rinunciato a far parte della Democrazia Cristiana proprio perché mi ero accorto dell’inutilità di una presenza come la mia, critica e problematica. Ed era la grande DC. Un paio di anni fa, un rigurgito di ottimismo mi ha portato ad entrare in un circolo vicino al PD – la nuova e non molto diversa democrazia cristiana (con le iniziali minuscole, questa volta: non è un errore!) – nell’illusione che i tempi fossero maturi per tentare di dare un contributo di diversità. Mi sono trovato in una cellula strutturata ad imitazione di quelle del vecchio Partito comunista, guidata da un avvocato interessato soltanto a diffondere il bla bla dei suoi capi, senza una minima apertura a quei contributi che i fondatori – persone degnissime e di cultura, almeno credo – dicevano di volere tanto da fondare i circoli in questione con annessa scuola di Politica. E dunque, visto che la mia presenza era inutile, l’ho scritto in modo educato e costruttivo al presidente del circolo e me ne sono andato.
Risultato: il presidente mi ha tolto il saluto.
Nulla mi pare sia cambiato.
Dal momento che l’obbiettivo è diffondere il sacro verbo del leader di turno, senza discussione ma con grande disciplina di Partito, si continua a perdersi nei meandri delle soglie di sbarramento e dei premi di maggioranza e dell’opportunità o meno delle preferenze, da un lato, e del fare qualche cosa, qualunque cosa purché in tempi brevissimi dall’altro.
In fondo, in apparenza piccole deviazioni; nella realtà, veri e propri intoppi, perché manifestazioni di opportunismo spesso spinto oltre ogni limite e sempre unito al personalismo ed al carrierismo, in genere di pochi.
E dunque, la negazione stessa del concetto di Politica, quella con l’iniziale maiuscola.
Tutto questo ha certamente in comune principi di fondo assolutamente condivisibili almeno nell’enunciato. Sono quelle famose “questioni di principio” che la mia insegnante di lettere al liceo classico mi ha insegnato ad odiare perché – diceva – “dalle questioni di principio nascono le guerre”.
“I piccoli partiti hanno diritto ad essere rappresentati in Parlamento” è una delle questioni di principio sulle quali oggi – ma è forse sempre stato così – si discute alla grande.
In nome della libertà e dell’eguaglianza, ritengo.
Penso: cosa sono i “piccoli” partiti? E che limite ha l’attributo di “piccolo”? Ma non si potrebbe ipotizzare (quot homines tot sententiae – scriveva Terenzio nel Formione) che ogni individuo possa “essere” un piccolo Partito politico? E quindi, almeno, candidarsi ad essere eletto in Parlamento?
Una questione di “ numeri”: non esiste un Partito costituito da una sola persona, si potrebbe obbiettare, ma non è vero, ovviamente, se non sul piano puramente formale.
Questione probabilmente oziosa o, almeno, ininfluente.
Ma forse non più che tanto, quando si pensi che quando l’idea vive nel mondo degli interessi individuali non è poi così fuori dalla realtà la possibilità di raggruppare persone portatrici di interessi simili o assimilabili e procedere insieme affinché quegli interessi siano assunti e tutelati dallo Stato.
E nei così detti “piccoli partiti” la possibilità di strumentalizzare interessi più o meno simili e comuni non solo per cercar di difenderli, ma soprattutto per perseguire propri obbiettivi di potere è, almeno da noi, una realtà.
Al proposito, occorre fare attenzione. Chi cavalca un Partito a fine quasi esclusivo di affermazione e di potere personale è pronto a cambiare cavallo non appena ne ravvisi l’opportunità. Se vale anche per i “grandi partiti”, è quasi certo per quelli definiti “piccoli”, soprattutto se – come oggi accade da noi – si trovano nella posizione di poter esser determinanti per le sorti di un Governo forse meno traballante di quanto non si creda, ma certamente non dotato di una forza degna di un Ercole. Certo, occorre fare una scelta di fondo: essere il primo in Svizzera o il secondo a Roma, antico adagio che risale – mi pare evidente! – ai tempi in cui Roma era, almeno nell’immaginario collettivo – caput mundi.
E un’altra questione di principio sembra esser diventato il diritto ad una poltrona nel Governo dal momento che lo si sostiene e in modo che appare determinante. Una logica dello scambio che, ancora una volta, ha come punto di riferimento interessi non certamente della comunità. Il quadro sembra completarsi. E infatti, si parla di “ricatto dei piccoli partiti” , eliminare il quale è certamente interesse di quelli più grandi.
Ed ecco allora la soglia di sbarramento alta per chi vuole andare da solo, più bassa per chi opera in qualche modo “apparentato”.
Che è anche un invito, neppur tanto velato, alla pratica del familismo, del clientelismo e dell’inciucio. Ma anche – e mi auguro principalmente- ad un accordo sulle pianificazioni operative di alcuni scambi in materie rilevanti per la vita dello Stato e del Paese, sulle quali pianificazioni peraltro regna il più assoluto dei silenzi.
Naturalmente, è tornato a galla il problema delle preferenze. Ricordato che quel “porcellum” di cui si invoca la cancellazione – peraltro già avvenuta grazie alla Corte Costituzionale – è stato aspramente criticato proprio sulle preferenze per aver fatto del Parlamento un covo di “nominati”, si sta pensando di non consentirle. Dunque, di istituzionalizzare l’espropriazione di un diritto della “gente” o, meglio, del “popolo sovrano” di scegliere quanto più direttamente (e, aggiungo io, semplicemente) i propri rappresentanti.
Qualcuno ha accennato all’intrinseca contraddizione tra il pensiero del ripristino delle preferenze perché espressione di un diritto (e dunque ragione importante per modificare il “porcellum” ) e la volontà di mantenerne l’abolizione, a garanzia di attributi che gli eletti dovrebbero avere ma che la scelta popolare non garantirebbe.
Ancora una volta: ma vogliamo renderci conto finalmente che i Partiti, da sempre, hanno presentato agli elettori perché li votassero personaggi “del Partito” o a questo straordinariamente vicini? Dunque, il diritto di scelta da parte degli elettori è sempre stato assolutamente limitato, anche se, forse, in modo meno becero da quello rappresentato dal “porcellum”.
Il che fa della questione un falso problema, che rimarrebbe tale anche nell’ipotesi di una totale liberalizzazione delle scelte, improponibile, io credo, ma disegnabile in sede di “ipotesi di lavoro”. La differenza consiste nella circostanza – non trascurabile, ovviamente – che “la gente” sarebbe portata a credere che si realizzi un cambiamento effettivo e concreto, e che il “diritto a scegliere” le sia stato restituito.
Che la dice lunga sui rapporti tra argomentazioni di vendita e progetto politico.
E ancora, l’abolizione delle Provincie e il mutar del Senato. Argomentazioni di vendita entrambe, appunto. In realtà e in entrambi i casi, solo una rinunzia a revisioni e controlli ancor più necessari oggi, vista la conclamata incapacità dei legislatori e degli amministratori rispettivamente di “produrre” leggi di alta qualità e di dar vita ad amministrazioni efficaci e corrette.
E in materia sarebbe a mio avviso opportuno un esame veramente approfondito proprio in termini di pianificazione di gestione degli scambi aventi per oggetto le leggi (e dunque dalla loro produzione, alla comunicazione, all’apprensibilità ed al controllo dell’efficacia e dunque anche dei comportamenti relativi) per quanto riguarda il Senato, e delle pianificazioni relative alla gestione dei territori per quanto concerne le Provincie ed i rapporti tra queste e le Regioni di cui fanno parte, da un lato, e i Comuni che le compongono, dall’altra.
Il bicameralismo perfetto è nato per essere garanzia della qualità delle leggi: se non lo è più, significa che il Parlamento funziona in modo distorto. Che è un problema più che altro di procedure.
Per le Provincie, il caso appare diverso solo perché regna sovrana la confusione sui compiti, sulle competenze (e magari anche sulle procedure). L’autonoma produzione di pianificazioni di gestione del territorio da parte dei Comuni dovrebbe trovare nelle Provincie il solutore dei conflitti di interesse eventualmente generati da pianificazioni contrastanti, e dunque le Provincie dovrebbero essere garanti di piani comunali armonici e realizzabili. E l’elaborazione del piano di gestione della provincia così nato dovrebbe a sua volta essere oggetto di soluzione dei conflitti tra i diversi piani di gestione provinciali e di armonizzazione da parte delle singole regioni.
E tra piani di gestione delle regioni e piani di gestione dello Stato dovrebbe avvenire la stessa cosa.
E se così fosse, non si tratterebbe più di abolire le Provincie, bensì di ridisegnarne le competenze, al fine di ottenere piani di gestione del territorio armonici, efficaci e strutture efficienti a tutti i livelli. Anche realizzando, così, il migliore impiego delle risorse.
Che è esattamente quanto fa una qualsiasi impresa che voglia una vita proficua e felice per il più lungo tempo possibile in un mercato che tutto è, meno che non competitivo.
Tra l’altro, un sistema economico liberale funziona bene proprio applicando questi (ed altri, ovviamente) principi, avendo anche cura di evitare ogni eccesso.
E forse non è superfluo segnalare che l’organizzare lo Stato come accennato più sopra realizzerebbe quella “autonomia locale” alla quale più di qualcuno si ispira, ma che ancora una volta pare essersi rivelato un puro slogan pubblicitario ed anche una semplice argomentazione di vendita.
E tutto questo ci porterebbe a ragionare in termini di sistema fiscale, perché ogni pianificazione di gestione va “valorizzata” e si tratta di identificarne i costi e dunque le fonti di finanziamento e di valutarne l’utilità creata, che non è in termini di mero profitto, ma richiede la capacità di valutare anche l’utilità sociale che lo Stato – ogni Stato – deve perseguire. Dunque, il prodotto “sistema fiscale” e la sua applicazione va gestito proprio in termini di scambio: produzione, comunicazione, apprensibilità. Perché fare accettare tasse e imposte e balzelli è esattamente come la vendita di un qualsiasi altro prodotto, bene o servizio che sia: se il potenziale acquirente è convinto della bontà del prodotto, tende ad acquistarlo; se, invece, non lo è, non lo acquista e, se costretto a farlo, mette in atto tutti i mezzi possibili per evitare una “penosità” (Wilfredo Pareto) per lui eccessiva.
Che tradotto significa: il sistema fiscale nel suo insieme e ciascun tributo vanno “venduti”, e dunque lo Stato e chi per lui o con lui devono mettere in atto tutte le forme di comunicazione adatte a cancellare gradi di penosità ed a convincere all’acquisto. Resta che la condizione di base perché “la linea di prodotti imposte e tasse” sia accettata è che abbia la capacità di convincere della propria utilità. Che potrebbe anche significare “deve essere un buon prodotto, un eccellente prodotto”.
Passatemi una brevissima nota polemica: chi di noi è passato indenne nei meandri del pagamento di alcuni degli ultimi tributi con scadenza gennaio? Ma è mai possibile che il legislatore non si renda conto che, soprattutto quando si tratti di sostenere un sacrificio, è assolutamente necessario che il contribuente non soltanto sia convinto dell’equità della spesa e dell’utilità di essa, ma anche e direi soprattutto sappia che il modo per sostenerla è il più facile, rapido e indolore. Vogliamo scommettere che, tra le altre cose, diminuirebbe l’evasione?
Ma torniamo a bomba.
Io continuo a pensare che questi ed altri problemi, forse più gravi e immanenti, possano trovare una soluzione in quel diverso modo di affrontare la questione elettorale sul quale da anni continuo a battere, peraltro rigorosamente da solo. Questo:
sottoporre agli elettori pianificazioni di gestione e non programmi suggestivi almeno quanto vaghi e garantire la professionalità, l’onestà e la correttezza delle persone di riferimento.
Questa seconda condizione non credo meriti considerazioni particolari. Dovrebbe essere assolutamente scontato che è nell’interesse dello Stato (e delle istituzioni) e dei Partiti che i cittadini siano rappresentati da persone professionalmente preparate al massimo livello, della cui capacità ad operare con onestà e correttezza assolute nessuno possa dubitare.
Cosa non facilissima, mi rendo conto, e di certezza non assoluta, ma molto si può e si deve fare. Tra le quali: escludere tutti coloro che abbiano subito condanne (non solo definitive) di qualsiasi tipo, con ciò anche accettando il rischio, inevitabile, degli errori di una Magistratura che è umana e dunque anche fallibile; stabilire tutte le incompatibilità opportune a seconda delle cariche da ricoprire; identificare con precisione le professionalità necessarie per ciascuna materia; disegnare le sanzioni previste per gli errori e le mancanze cui si incorre nell’iter della professione… E via dicendo.
E’ più interessante, invece, la prima.
Sottoporre agli elettori pianificazioni di gestione significherebbe la novità concreta di un sistema che chiede i voti comunicando la materia di cui ci si occupa, il risultato previsto, il tempo, il luogo, i soggetti attivi, il come e i costi. Che per i geni che in Italia si occupano di marketing e, purtroppo, soprattutto di pubblicità sono i famosi “5 W e 1H”.
A cominciare dal piano che il Partito ha per la gestione dello Stato, e che dovrebbe far parte integrante ed essere giustificante della esistenza stessa del Partito. Dovrebbe contenere i valori cui il Partito si ispira e sui quali si è costruito e dunque la descrizione conseguente delle priorità che disegneranno lo Stato.
Tra l’altro, dalle priorità discenderebbero molte delle differenze tra i vari partiti.
E questa è cosa possibile e realizzabile senza difficoltà particolari.
Qualche esempio? Secondo me, poiché molti partiti dichiareranno di perseguire “una giusta ed equa distribuzione della ricchezza”, occorrerà essere chiari circa il modo ed i tempi di realizzazione; e la stessa cosa dovrebbe accadere se la materia fosse il sistema economico nel suo insieme e la sua evoluzione, anche perché la distribuzione della ricchezza del sistema economico è l’anima.
Così come conseguenza diretta è “il lavoro”, con annessi e connessi, ivi compresi i “diritti dei lavoratori”.
A questo proposito, forse non è peregrino ricordare che “il lavoro” è una sorta di “prodotto fatale”. Nasce, cioè, sempre. Quando ci si attiva nel mondo esterno, certamente: non esiste attività che non generi lavoro, che non “sia” lavoro. Ma è un lavoro anche il solo pensare: produce qualcosa che può anche non esser destinato all’esterno da noi, ma la produce.
E così come tutto è prodotto, si può concludere che tutto è lavoro. Il vivere è un lavoro.
E credo che tutto questo non sia privo di conseguenze per la Politica così come non lo è per l’Economia.
In queste come in tutte le altre materie, i Partiti hanno un punto di riferimento importante in quella che va sotto il nome di piramide di Maslow, che disegna i bisogni ed i comportamenti degli individui ma che può e deve essere utilizzata anche per creare una piramide affidabile dei bisogni dell’individuo chiamato Stato.
A questo proposito, peraltro, tutti parlano di “interessi dello Stato”, ma non mi sembra esista in Italia nessuno che abbia provveduto a definire i “bisogni dello Stato” ed a disegnarne una scala, e il tutto a prescindere dalla confusione (sovrana e non solo tra i politici) tra interessi e bisogni.
Sul piano della attuazione pratica di un sistema elettorale che sottoponga agli elettori “pianificazioni di gestione” sarebbe illusorio immaginare una serie di proposte assorbenti tutto il mondo della gestione degli scambi, sia pur limitato – il mondo – al soggetto attivo chiamato “Stato”. Al momento, non esiste formazione Politica in grado di stilare tutte le pianificazioni opportune, e neppure sarebbe realistico proporle tutte e tutte insieme all’esame ed alla approvazione del “popolo sovrano”.
Come accade per ciascuno di noi, anche lo Stato è portatore di bisogni propri che lo caratterizzano e che vanno soddisfatti al meglio. Per l’individuo, disegnare una mappa dei bisogni di cui è portatore è praticamente impossibile, forse con la sola eccezione di quelli relativi alla sopravvivenza fisica. Ma “a certezza limitata”. Per lo Stato, la cosa potrebbe apparire forse meno difficile, poiché esso è prodotto umano e dunque meno sofisticato dell’uomo stesso. Ma non poi più di tanto, perché i bisogni e gli interessi di uno Stato non coincidono con la somma dei bisogni e degli interessi degli individui che lo compongono. E soprattutto, non con la loro “qualità”. Difficile, dicevo, ma non impossibile. Sempre che si abbia contezza che i bisogni dello Stato sono “diversi”, propri di una struttura composta da più individui diversi dallo Stato e divisi anche tra di loro e decisi a soddisfare i propri bisogni anche a scapito della soddisfazione dei bisogni altrui.
E quindi anche di quelli dello Stato.
Ed esattamente come accade per le persone fisiche, descriverne i bisogni significa farne il ritratto. Per ciò che riguarda lo Stato, individuarne i bisogni significa “descriverlo”, conoscerne le “cause”, costruirne l’organizzazione. E contemporaneamente, disegnare le competenze di tutti i suoi organi. Ed anche stabilire i costi di produzione, quelli di comunicazione, quelli della apprensibilità. Che può anche dirsi così: lo Stato è soggetto attivo in ogni e qualsiasi scambio che lo veda come produttore. E come produttore di beni e di servizi oggetto di scambio non può prescindere dal produrre la comunicazione e la distribuzione, che di ogni prodotto destinato allo scambio sono elementi essenziali.
In tutto questo, e in quanto per ovvie ragioni neppure accennato, certamente è ravvisabile un campo d’azione infinito per i partiti politici e per le formazioni diverse che intendono “fare Politica”, magari a cominciare proprio da quella descrizione dello Stato e dei suoi bisogni della quale ci siamo occupati fin qui.
Allora, si potrebbe:
- chiedere ad ogni formazione Politica di indicare e motivare le proprie priorità;
- chiedere che ogni formazione Politica elabori almeno tre pianificazioni di gestione di materie coerenti con le priorità rappresentate;
- far sì che ogni formazione Politica sottoponga agli elettori le pianificazioni elaborate.
Un vantaggio non trascurabile sarebbe costituito dalla possibilità del popolo sovrano di conoscere e valutare quanto proposto e di controllarne la realizzazione.
E per i Partiti, si realizzerebbe la possibilità di “nominare” specialisti della materia e dunque di ridurre i rischi paventati delle preferenze.
Ogni pianificazione di gestione – in altre parole – costituirebbe un “pacchetto” costituito dal piano gestionale, dai piani operativi che lo compongono, e dai professionisti responsabili. Con un ulteriore vantaggio per tutti: i partiti sarebbero costretti all’utilizzo di professionisti di grande spessore, per di più responsabilizzati dall’accettazione “pubblica” della pianificazione che devono portare a compimento.
E ancora:
le pianificazioni relative alla scuola di ogni ordine e grado (dalla alfabetizzazione alla specializzazione, e dunque alla cultura nella sua completezza) dovrebbero essere un passaggio obbligato per ciascun Partito.
La ragione a mio avviso ovvia è che la preparazione culturale di ciascun Partito verrebbe conosciuta e valutata attraverso i “piani di formazione” proposti.
L’obbiezione che si solito si muove quando si parla di questo argomento – la cultura e la formazione- è soprattutto che i risultati si potranno vedere tra anni, anche molti anni, mentre assai più urgente è occuparsi di altre materie.
Che assomiglia non poco alla logica per la quale il sindaco di una qualsiasi città preferisce costruire uno stadio oppure organizzare una fiera o anche commissionare un arco di trionfo piuttosto che ristrutturare un edificio scolastico o arricchire una biblioteca pubblica. Lo stadio si vede; una biblioteca aggiornata è assai meno sentita da chi sarà chiamato al voto.
Chiaramente, una logica soltanto apparente e, per di più, dannosa, e spesso per questo fuorviante.
Tra i settori (le materie) dei quali si afferma la priorità sulla scuola sono ovviamente la ripresa dell’Economia e la creazione di posti di lavoro.
Dimenticando che la scuola e la cultura sono il motore di tutto, e dunque se funzionano in modo eccellente, allo stesso modo creano Economia eccellente ed eccellente lavoro.
Ancora una volta, un tentativo di comunicazione “per esempio”.
L’Italia pare lamenti lo stato pre-agonico o agonico dei teatri – quasi tutti – per i quali mancherebbero spettatori interessati e quindi paganti. Non solo dei teatri di prosa, ovviamente: di tutti i teatri, delle sale da concerto ai teatri d’opera a quelli sperimentali e così via.
Chiunque di noi ha potuto notare come l’interesse per certe forme d’arte (e non solo) nasca con la conoscenza e si sviluppi nel tempo, anche specificandosi per materia, per genere, per tendenza…
La caduta verticale dell’Italia nel settore della grande musica, per esempio, è anche dovuta alla non lodevole circostanza che la musica non si “pratica” più nelle case e in famiglia. E certamente non si insegna nelle scuole oppure la si insegna in modo inappropriato. Conseguenza: al più, si ascolta qualche registrazione o riproduzione, sempre meno – dicono- di musica colta.
Dunque: crisi dell’ascolto della musica colta, con l’ovvia conseguenza della crisi della produzione e riproduzione della stessa; crisi della vendita di strumenti musicali (li acquistano soltanto coloro che sperano di suonare in orchestra o di intraprendere la carriera del solista); crisi delle scuole di musica (il mercato “dei musicisti” è in netto calo, non ostante le molte eccellenze di cui l’Italia ancora dispone e disporrà: non c’è posto per gli strumentisti); crisi delle orchestre (mi riferisco sempre alla musica colta) e quindi sbocchi ridotti per i nuovi “laureati in musica”; conseguente crisi dei teatri nei quali si fa musica; scarso mercato e dunque crisi per i compositori di musica colta… Si può procedere all’infinito, e non soltanto per “materia” principale, ma anche per i mille rivoli che l’indotto disegna, dalla scenografia alla manutenzione degli impianti, all’editoria, alla critica…
Mi chiedo: ma non potrebbe esser vero che formando i giovani a frequentare i teatri, da adulti essi costituiranno un “parco clienti” di tutto rispetto? E mi chiedo ancora: ma cosa impedisce di realizzare programmi di “educazione allo spettacolo” attraverso l’organizzazione di concerti-lezione, di prosa-lezione, di balletti-lezione, di… ai quali almeno ogni quindici giorni le classi siano chiamate a partecipare, esattamente come accade per le lezioni di italiano o di matematica o di ragioneria oppure di applicazione tecnica e di ginnastica e di idraulica e di progettazione di stalle per ovini e di costruzione di arredamento e…
E’ solo un problema di pianificazione e di organizzazione. Ma anche, forse, un problema di “atteggiamento”: se l’obbiettivo primo è “creare i fruitori di domani” non si tratta di mettere un flauto in mano ai bambini (anche se potrebbe trattarsi di qualcosa di positivo) o la tastiera di un PC per scrivere un testo teatrale oppure tutù e calzamaglie per danzare. Tutte cose buone e salutari, forse, ma non così efficaci come il condurre i giovani a teatro e organizzare una lezione sullo spettacolo; accompagnare i giovani ad un concerto di musica classica e “spiegare” la musica guidandone l’ascolto; organizzare opere liriche per le classi, ed illustrare le caratteristiche e le complessità della musica, del canto dei solisti, del coro, delle danze, del testo, della regia, dell’ambientazione, della direzione…
E non è vero che i vantaggi si vedranno tra anni.
Alcuni sì, ovviamente, ma altri si verificherebbero a scadenza immediata.
Tra questi, la creazione di posti di lavoro, che io immagino in numero pressoché illimitato, e che lascio al lettore il piacere di individuare: a partire dai docenti, dall’allestimento degli spettacoli e dei concerti, per giungere fino al custode che aprirà e chiuderà le sale, passando attraverso qualsiasi altro elemento opportuno perché la cosa sia pianificata e realizzata alla perfezione.
Vogliamo occuparci anche della salute dei giovani? Non pensate che la presenza di studi medici e di pronto soccorso presso ogni complesso scolastico assicurerebbe un miglioramento della salute dei giovani, un addestramento all’uso consapevole degli strumenti di prevenzione e di cura, un minor costo dell’assistenza sanitaria per la terza e la quarta età e non solo, ed anche una diminuzione dell’uso di droghe di tutti i tipi e…
Ce ne vogliamo occupare? Ed anche, ci vogliamo occupare…
Risposta: ma che, sei matto? Lo sai che è impossibile! Abbiamo cose più urgenti cui pensare.