Cattedra: La pianificazione per produrre e redistribuire ricchezza

di Paolo M. Di Stefano -

Una premessa mi pare necessaria: io odio citare me stesso. Lo trovo presuntuoso e ridicolo a un tempo. Ed anche pericoloso, a volte, soprattutto quando di tempo ne è passato a sufficienza per modificare anche profondamente il contesto. Almeno in apparenza, perché la quasi totalità dei temi della Politica e della Economia si rivelano ricorrenti e dunque le soluzioni proposte “in illo tempore” forse tornano buone anche oggi.
Tra questi, la produzione e la redistribuzione della ricchezza alla luce di un’etica “sociale” capace di correggere le distorsioni che affiggono un sistema economico – il nostro – improntato sostanzialmente ai rapporti di forza, alle violenze, alle rapine, allo sfruttamento (…) ed entrato in una crisi che appare alla fine senza una reale via di uscita.
Anche perché la quasi totalità degli “esperti, conoscitori e professionisti” della Economia e della Politica continuano a ragionare con gli schemi del sistema e negli schemi si incartano, rimanendone prigionieri mentre si moltiplicano i danni per la generalità.
Ed è forse il caso di ricordare che gli schemi di cui parlo sono anche strutturati attorno ad un distorto concetto di libertà e ad una altrettanto scorretta visione dei rapporti dell’individuo con la società.
Dunque, obtorto collo mi citerò, sperando nella comprensione e nel perdono dei lettori.
Sulla redistribuzione della ricchezza – condizione essenziale per il ridimensionamento delle differenze di reddito e quindi anche sociali- sono state scritte biblioteche intere, e anche grandi. E per realizzarla, questa redistribuzione, si è fatto ricorso a tutto quanto la fantasia, l’esperienza, la morale, il diritto, le religioni sono stati in grado di suggerire.
Di uno dei problemi in merito a me non risultano approfondimenti: la progettazione della produzione dei redditi, condizione essenziale per la pianificazione della loro redistribuzione, una volta prodotti. Che è un problema di gestione e quindi di marketing.

In Cattedra del febbraio 2012 scrivevo:
“Una progettazione dei redditi sembra sinonimo di irrealismo e di impossibilità, oltre che di pura utopia, da qualcuno probabilmente ritenuta distruttiva. E forse nell’attuale sistema economico si tratta veramente di un muro insuperabile, e come tale abbandonato anche come pura ipotesi di lavoro e in nome del buonsenso, almeno.
Ma stiamo qui esaminando “pensieri” diretti ad identificare come modificare un sistema economico in affanno, e non è detto che quanto appare ancor oggi impossibile divenga invece necessario oltre che possibile in un futuro più vicino di quanto possa non apparire. Forse.
A puro titolo di esempio, quella che segue è una sintetica traccia di un (forse folle) piano delle retribuzioni: fatto eguale a cento il salario più basso (sempre e comunque dignitoso e in grado di assicurare la vita del percipiente), si potrebbe prevedere una scala di retribuzioni crescenti con il crescere della “materia” (della importanza relativa, della qualità, di quello che si ritiene più opportuno) di lavoro, fino a giungere ad una retribuzione del massimo responsabile d’impresa che non superi un livello pari a (poniamo, ed è ancora una volta pura provocazione) cinque volte quella presa come base.
Soggetti interessati sarebbero tutti coloro che svolgono una attività in qualsiasi modo e per qualsiasi ragione retribuita, persone fisiche o giuridiche che siano. E qui, già un’altra pazza idea: l’impresa, qualsiasi impresa, di qualsiasi dimensione, è persona attiva’, e su questo non mi pare possano sussistere dubbi. Se è vero, perché non la si può considerare soggetto la cui attività viene retribuita, esattamente come accade per tutti coloro che lavorano? E sempre perché non vi siano equivoci: le banche sarebbero comprese negli elenchi di coloro che svolgono attività, esattamente come accadrebbe per le imprese.
Materia sarebbero tutte le forme conosciute di retribuzione ed anche quelle che ad oggi sembrano non esser considerate tali, almeno non in senso proprio. Tanto per intenderci e, naturalmente, con tutte le cautele che questa estrema sintesi impone: se il profitto è e concreta la retribuzione dell’impiego del capitale, cosa impedisce di prevedere il suo inserimento in un piano delle retribuzioni che si ispiri ad un più equo rapporto tra queste”.

A questo punto, mi sembra opportuna una citazione ulteriore, riguardante lo Stato come imprenditore, argomento trattato più volte in queste pagine.
Non c’è nulla che vieti di guardare allo Stato come ad un imprenditore. Lo è per sua natura e perché persona non “capitis deminuta” e dunque libera di intraprendere, di fare impresa. E se lo Stato è imprenditore, c’è qualche divieto al considerarlo come tale ed a guardare alle sue entrate “anche” come retribuzione? In quello che chiamiamo “libero mercato”, lo Stato imprenditore opererebbe come una qualsiasi impresa privata destinata a creare ricchezza e lavoro, e retribuita per questo. Con in più l’obbiettivo primario di quella “utilità sociale” che si assume – erroneamente- come opposta e nemica della utilità privata, del profitto. In questa veste, lo Stato sarebbe un soggetto in grado di “regolare” il mercato e, per esempio, (solo un esempio! E appena abbozzato.) svolgendo attività di editore potrebbe regolare il livello dei prezzi dei libri scolastici.
Riprendo la citazione:
“E un livello (intermedio? eguale? maggiore?) di retribuzione potrebbe esser previsto per il capitalista imprenditore (o solo imprenditore che sia). Se l’impresa realizza profitti ulteriori, questi potrebbero essere reimpiegati nel sistema, ovviamente dopo che siano stati assolti i doveri fiscali. Oppure o anche in tutto o in parte potrebbero ulteriormente remunerare il capitale, se questo dovesse essere utile ad impedirne la fuga verso mercati più compiacenti oppure se fattori diversi, in questa sede per ovvie ragioni trascurati, dovessero richiederlo.
Non si può pensare che tra i vantaggi che un eventuale sistema di pianificazione dei guadagni avrebbe possa iscriversi quello di offrire al sistema fiscale una piattaforma certa almeno quanto quella oggi costituita dai redditi fissi? E non si può immaginare che l’evasione diverrebbe molto più difficile? E non potrebbe avvenire che le tensioni sociali si ammorbidirebbero? E non sarebbe anche più facile di quanto oggi non sia il perseguire i furbetti che in ogni caso non mancherebbero e che certamente farebbero di tutto pur di guadagnare di più? E non si toglierebbe qualcosa alle mafie?”

Certo, molti sono i punti da approfondire. Tutti, e quindi forse troppi. E in questa sede è comunque impossibile farlo. Almeno per me.
Ma a qualcuno è pensabile almeno accennare.
Tra i primi, a mio parere c’è quel “disegno della società e dello Stato” che io credo essere indispensabile per la Politica così come per l’Economia.
E dal momento che gli attuali Partiti e Movimenti e gruppi diversi (anche religiosi) dicono di preoccuparsi delle parti più deboli e propongono redditi di cittadinanza ed ora anche “lavoro di cittadinanza”, non sarebbe il caso che si occupassero innanzitutto di “disegnare la società e lo Stato”, di “elaborare un piano di gestione” generale e tanti “piani operativi” quante sono le materie che “fanno” una società ed uno Stato corretti?
Tutto non si può fare, è vero, ma comunicare in chiaro di quale società e di quale Stato si parla è possibile e doveroso. Come possibile e doveroso a me pare sia individuare le priorità e pianificarne la gestione, comunicandoli ai cittadini, sempre in chiaro. L’approvazione attraverso il voto da parte di questi avverrebbe sulla “pianificazione di gestione delle priorità”, che è cosa diversa del generico “programma”.
E qui potrebbe individuarsi un possibile fatto nuovo non privo di interesse: ogni Partito, probabilmente, comunicherebbe pianificazioni di gestione in tutto o in parte diverse e il cittadino, scegliendo, potrebbe esprimere preferenze per pianificazioni di gestione proposte da partiti diversi. Le pianificazioni approvate sarebbero vincolanti per gli eletti, oltre che un possibile ed affidabile riferimento per ogni attività di controllo da parte di quel popolo che si afferma detentore della sovranità.
Il che, tra le altre cose, potrebbe avviare a soluzione quel tormentone forse tutto italiano costituito dalla legge elettorale.
Con un vincolo oggi sconosciuto, ancorché ovvio e costruttivo. Questo: dal momento che ogni pianificazione di gestione richiede una risposta affidabile e concreta a ben identificati bisogni della comunità di riferimento, i Partiti ed i Politici si troverebbero di fronte alla imprescindibile necessità di disporre di ricerche di marketing ben condotte, in grado di descrivere la società e la scala di bisogni di cui è portatrice. E dunque anche le effettive priorità. Un “disegno” di gestione dello Stato molto più affidabile e concreto delle sensazioni cui ci si affida oggi per “fare Politica”.