Cattedra: La generazione fame zero sta per nascere. Parola di Presidente

di Paolo M. Di Stefano -

EXPO ha chiuso alla luce del successo. Ventuno milioni di biglietti venduti sembra siano un traguardo superato. Anche grazie alla pazienza ed alla cocciutaggine di visitatori masochisti disposti a file lunghissime e ad attese in proporzione: anche una decina di ore! E nonostante i prezzi tutt’altro che moderati anche per l’acquisto più banale.
Più di venti milioni di ingressi sono un bel risultato, soprattutto perché obbiettivo dichiarato fin dall’inizio. Forse, si potrebbe sostenere che alla luce di queste previsioni sarebbe stato opportuno adeguare le strutture e rendere meno faticoso, ad esempio, l’ingresso a quel padiglione del Giappone che pare abbia riscosso il maggior successo. Ma questo non è che un dettaglio: tutti o quasi osannano al successo ottenuto e parlano di EXPO come del punto di partenza per una ripresa che porterà l’Italia ai vertici dell’economia, anche rispolverando quel “Milano capitale morale” che pareva definitivamente defunto.
Di grande rilievo, ovviamente, l’opinione del Presidente della Repubblica: “la generazione fame zero sta per nascere, vogliano accoglierla. Expo sia per tutti il segno che una strada nuova può essere condivisa”. (“La Repubblica”, 17 ottobre).
Che è bello ed istruttivo, come lo sono molte speranze e tutte le illusioni. E come lo è quell’ottimismo da mostrare sempre e senza del quale il mondo appare buio e scoraggiante, secondo il verbo dei “costruttori” i quali, peraltro, rarissimamente hanno dimostrato di sapere e di potere andare più in là delle semplici e suggestive enunciazioni di principio.
Ora non resta che occuparsi di questioni di dettaglio: il destino dell’area e dei padiglioni e dei materiali e del personale, per esempio, oppure (ovviamente, più importante) la soluzione della questione relativa alla fame nel mondo.

La Carta di Milano è l’eredità “programmatica” che EXPO lascia al mondo, un documento non privo della retorica necessaria ed opportuna per ottenere una parte dell’attenzione della “cultura”.
Si apre, la Carta di Milano, con una solenne dichiarazione: “Noi, donne e uomini, cittadini di questo pianeta sottoscriviamo questo documento, denominato Carta di Milano, per assumerci impegni precisi in relazione al diritto al cibo che riteniamo debba essere considerato un diritto umano fondamentale. Consideriamo infatti una violazione della dignità umana il mancato accesso a cibo sano, sufficiente e nutriente, acqua pulita ed energia. Riteniamo che solo la nostra azione collettiva in quanto cittadine e cittadini, assieme alla società civile, alle imprese e alle istituzioni locali, nazionali e internazionali potrà consentire di vincere le grandi sfide connesse al cibo: combattere la denutrizione, la malnutrizione e lo spreco, promuovere un equo accesso alle risorse naturali, garantire una gestione sostenibile dei processi produttivi.”
Sembra l’esultate che apre l’Otello di Verdi: uno scoppio di forza, di consapevolezza, di orgoglio per la vittoria. Solo che l’opera ha un suo concreto svolgimento in una vicenda che si snoda in fatti, comportamenti, situazioni concrete e gestite dai protagonisti in modo esemplare, anche perché esemplarmente descritte dal compositore. E per questo, l’opera giunge al risultato finale, quel dramma della gelosia, quell’omicidio e quel suicidio previsti fin dall’inizio in ogni particolare.
Che significa pianificazione di gestione.
Proprio quello che manca alla Carta di Milano, che è e resta una dichiarazione di intenti, sia pure articolata in capitoli carichi di suggestioni, elencati sotto una dichiarazione di fede: “Noi crediamo che (…)” e in buona sostanza consistenti in una serie di affermazioni assolutamente condivisibili proprio perché suggestive, esattamente come quelle del capitolo successivo “noi riteniamo inaccettabile che (…)” e in quello che segue “Siamo consapevoli che (…)”.

Qualcosa di più concreto sembra delinearsi nel prosieguo, là dove si enunciano i temi relativi all’azione dei singoli ed agli impegni di ciascuno in quanto membri della società civile; e quelli dedicati alla gestione delle imprese, forse anche ricordo di quando si parlava della funzione sociale di queste; ed anche là dove si enunciano le richieste “con forza” a governi, istituzioni e organizzazioni internazionali perché si impegnino nella direzione indicata.
Che è ribadita in chiusura: “Poiché crediamo che un mondo senza fame sia possibile e sia un fatto di dignità umana, nell’anno europeo per lo sviluppo e in occasione di EXPO Milano 201, noi ci impegniamo ad adottare i principi e le pratiche esposte in questa Carta di Milano, coerenti con la strategia che gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno elaborato per sradicare il problema della fame entro il 2030. Sottoscrivendo questa Carta di Milano noi dichiariamo di portare la nostra adesione concreta e fattiva agli obiettivi per uno Sviluppo Sostenibile promossi dalla Nazioni Unite. Un futuro sostenibile e giusto è anche una nostra responsabilità”.

Un marchio che unifichi le azioni dirette ad abolire la fame nel mondo appare, a questo punto, opportuno. Prima che qualcuno pensi di affidarne l’ideazione ad uno dei tanti “laboratori di comunicazione”, artigianali e non, che affliggono segnatamente il mondo del lavoro e degli affari e che in più di un caso si sono arricchiti e non poco, è forse opportuno richiamare l’attenzione sullo stellone d’Italia, che offre una soluzione semplice ed efficace, in linea perfetta con le più avanzate teorie della comunicazione, anche di quella pubblicitaria: la nebbia.
Sì, la nebbia, quel velo perlaceo che rende sognanti i dintorni di Milano, spingendosi talvolta fino a lambire il centro della città. Sembra, la nebbia, il mondo perfetto per far vivere le idee, le proposte, le soluzioni in materia di fame nel mondo.
E non costa nulla.
Di più: descrive esattamente il contenuto delle soluzioni proposte. E lo fa talmente tanto bene che da più di uno studioso si sostiene che non sia la nebbia a creare le proposte, bensì queste a dar vita alla nebbia.
Ovviamente, un problema c’è e consiste nel fatto che, almeno a livello di enunciazione, la necessità della modifica radicale dell’attuale sistema economico sembra in qualche modo stagliarsi in modo chiaro nella mente di più di qualcuno, e per questo si sostiene non possa rientrare nell’ambito della materia descritta dal marchio “nebbia”.
Con un vantaggio abbastanza chiaro per tutti: almeno a livello di enunciazione il tema dell’economia rimane fuori dalla nebbia d’autunno. Per chi difende il sistema di oggi e cerca in tutti i modi di riportarlo ai fasti ormai antichi, come per coloro i quali, invece, pensano che il sistema sia morto e debba essere sostituito. Pochi, poiché pochi sembrano rendersi conto che il problema del “nutrire e dissetare tutti” (e forse anche del vestire, del dare un rifugio e del curare tutti. In una parola, di consentire a tutti una qualità di vita decente.) è tale da imporre la modifica radicale di un sistema economico (il nostro attuale) nato e sviluppato in nome dell’egoismo individuale e dello sfruttamento dei più deboli in vista della ricerca e della massimizzazione del profitto a favore dei più forti.

Nell’azione di cambiamento del sistema economico attuale non credo di poter affermare che EXPO abbia dato un contributo decisivo al di là delle enunciazioni di principio più sopra citate e che invito a leggere nella stesura completa, e che comunque qualcosa sono. E forse non poteva farlo, dal momento che anche EXPO è nata ed ha vissuto quale iniziativa promozionale per il rilancio dell’economia, di “questa” economia, il cui ciclo vitale almeno a me appare in fase assolutamente discendente, e che avrebbe dunque bisogno di qualcosa di simile ad un trapianto di organi vitali, in grado – il trapianto – di costruire un “prodotto nuovo”, in grado di soddisfare meglio i bisogni attuali e, soprattutto, di rispondere alle richieste dei bisogni “nuovi” costituiti soprattutto dai “bisogni del genere umano”.
Che non sono la semplice sommatoria dei bisogni dei singoli, bensì bisogni “diversi”, forse bilanciamenti complicati espressi da soggetti “collettivi”, improntati da quei “bisogni del genere umano” in pratica conosciuti (e non bene) solo a livello di enunciazione, ma partendo dai quali si può giungere alla indicazione corretta dei comportamenti del singolo quale componente del “genere umano” e quindi destinato a concorrere alla soddisfazione dei bisogni della comunità, anche a costo di rinunziare alla soddisfazione di una parte dei bisogni “propri”.
In questo, cioè nella ricerca di cosa ciascuno di noi può fare e come, EXPO ha indicato più di un suggerimento.
E questo ha fatto forse più con gli eventi del fuori-expo che attraverso il rutilar dei padiglioni.
Esempi? Quanti se ne possono desiderare, e di impegno e dimensione e importanza assai diversificati.

Immagine1La Filiera dei Piccoli è uno di questi, e ci giunge dal cuore verde d’Italia, quell’Umbria della quale – sembra – si discute se debba rimaner Regione. L’ho incontrata, la Filiera dei Piccoli in quello che è stato, forse, il luogo più francescano di EXPO, uno scassato e a prima vista scoraggiante cortile di via Bramante, a Milano.
E l’ho scelto come esempio del grande valore delle piccole cose nella grande Expo perché a me più vicino ed anche perché dimostrazione che “innovare” significa anche muoversi nella tradizione, anche in quella dei principi, senza farsene vincolare più che tanto. Cosa che risponde appieno allo spirito di EXPO: cercare soluzioni nuove muovendo dalla verifica dei concetti di base. Del marketing, per esempio, che è gestione degli scambi in ogni loro aspetto e non soltanto, quindi, la pubblicità o le ricerche o le promozioni delle vendite. E il guardare al marketing da questo angolo di visuale significa darsi la possibilità di armonizzare tutti gli elementi di ogni e qualsiasi scambio e di operare su ciascuno di essi alla ricerca del risultato migliore.
Ed ho anche incontrato l’ideatrice e la promotrice del network territoriale Filiera dei Piccoli, la dottoressa Tiziana Malfagia, convinta che la sua “rete di microimprese abbia lo scopo di rafforzare la propria posizione sul mercato puntando su di una tracciabilità costituita poco da marchi e molto da volti, per il ritorno ad un modello di consumo più umano, frutto di un percorso di conoscenza a tutto tondo. Casari, norcini e piccoli agricoltori locali sono ospitati dal salumiere di quartiere, dal cuoco del ristorante sotto casa e nelle scuole, per raccontare la storia dei loro prodotti e salvaguardare un patrimonio di memoria a tutto vantaggio della bio-diversità.”
Immagine2La Regione Umbria e l’Università di Perugia hanno contribuito allo sviluppo del progetto che “non si limita a preservare il patrimonio culturale racchiuso in un piatto ed a salvaguardare le funzioni sociali del piccolo commercio, ma si pone anche l’obbiettivo di rafforzare la domanda di prodotti di nicchia, riducendo nel contempo le emissioni di CO2. Per la distribuzione delle aziende della rete è stato infatti studiato un algoritmo che porta ad ottimizzare i giri di consegna del prodotto, risparmiando in costi e soprattutto in inquinamento.”
L’evento – che è partito con la dimostrazione pratica di come si “fabbrica” un formaggio (necessariamente fresco, per il tempo a disposizione) – ed è passato attraverso le spiegazioni “tecniche” di un chimico e nutrizionista, si è concluso con quella che una volta si chiamava “cena in piedi” e che ha consentito l’assaggio – tra l’altro – della zuppa di lenticchie igp di Castelluccio di Norcia; di un piatto di farro con carciofi; di una zuppa di roveja e di una di fagiolina, in una con un trionfo di prosciutto di Norcia e di crostini umbri. Ed altro, tutto “costruito” con prodotti assolutamente genuini, a partire dall’olio di oliva per giungere al vino, alle marmellate ed oltre.
Fino a qualcosa di inaspettato dai più, seppure presentato a Milano già un anno fa: dei meravigliosi cioccolatini all’olio di oliva ed altri al tartufo.
Dei primi sono sicuro: sono il frutto della creatività della dottoressa Malfagia, forse un po’ folle fin da quando volle presentare una tesi di laurea in comunicazione centrata – la tesi – sul prosciutto e dunque anche sui maiali di Norcia.

Nota a margine. La Carta di Milano mette in evidenza la volontà, il proposito, il desiderio, l’opportunità di lavorare “insieme” per raggiungere gli obbiettivi. Ebbene: l’Umbria non sembra essere stata in grado di “lavorare insieme” più che tanto: negli stessi giorni, ad insaputa di tutti o quasi, agli Orti di Leonardo si ragionava in termini di olio umbro.
Pensiero: possibile che proprio in Umbria non si riesca a “fare e farlo insieme” ?
Che avesse ragione Giovanni Buitoni quando sosteneva che la caratteristica dei Perugini era (edulcoro per quanto posso) di “non farlo e non fartelo fare”?
Poco male se si trattasse solo degli umbri. La realtà è che il comportamento inquina tutta l’azione della Politica e della Economia. Ovunque.
E allora, ritorna l’obbiettivo: occorre cambiare sia l’Economia che la Politica, e occorre farlo dando ai singoli una coscienza di “insieme”, di “collettività”.
Che è anche quanto afferma il Presidente Mattarella.
E che vuol significare che occorre ripensare alla formazione, alla scuola, all’insegnamento a tutti i livelli.