Cattedra: Je suis libre, pas Charlie

di Paolo Maria di Stefano -

Ero già deciso, seppure malvolentieri, a dedicare questa “cattedra” alla strage nella redazione di Charlie Hebdo, fatto di tale rilievo da richiedere comunque la massima attenzione in una con ripetute meditazioni, anche alla ricerca degli insegnamenti che ne derivano. Cosa puntualmente avvenuta in tutta Europa certamente, nel resto del mondo forse con evidenza minore.
Naturalmente, tutti hanno detto e scritto di tutto. E probabilmente, in tutto si nasconde una parte di quella verità che certamente esiste, ma che è comunque destinata a rimanere conosciuta solo in parte.
Ma che la strage di Charlie abbia reinventato la Francia (come ha titolato “Repubblica” del 27 gennaio a pag.46, in un lungo articolo di Christian Salmon) mi è parsa lettura in qualche modo stupefacente, basata come su concetti tradizionalmente non corretti almeno quanto obsoleti, seppure generalmente (e genericamente) accettati.
Per esempio quello sotteso al testo che cito integralmente: “Tre settimane dopo l’11 settembre del 2001 Charlotte Beers che negli anni novanta aveva diretto due delle maggiori agenzie americane, la J. Walter Thompson e Ogilvy & Mather, veniva nominata sottosegretario di Stato per la diplomazia. Era la prima volta che un professionista del marketing veniva scelto per un incarico di responsabilità diplomatica e non come semplice consulente di comunicazione. Durante un’intervista, Diane Sawyer, giornalista del Good Morning America, presentò Beers come la donna il cui lavoro consiste nel dire al mondo cos’è l’America, e farlo comprendere ai musulmani. È ciò che il marketing definisce rebranding, un’operazione che mira a dare nuova vita a un marchio invecchiato, riavvicinandolo alla sua narrazione originaria”.
Si tratta della ormai tradizionale e incancrenita confusione tra marketing, comunicazione e pubblicità, nata proprio nelle agenzie pubblicitarie e proprio – mi pare di ricordare, e se sbaglio chiedo perdono – in Ogilvy e Mather per affermare che fare marketing significa fare pubblicità e che i concetti di marketing e pubblicità esauriscono quello di comunicazione, almeno per quanto riguarda i mercati. Tanto che si è giunti a definire il marketing come comunicazione, appunto. E ciò per vendere meglio i servizi delle agenzie.
Ho iniziato più di quaranta anni fa a combattere questa opinione, solo apparentemente innocua, in realtà foriera di danni non indifferenti alla gestione delle imprese tutte, di ogni tipo e natura e operanti in ogni settore merceologico. Con in più questo: escludere da un corretto utilizzo del marketing, della comunicazione e della pubblicità tutto o quasi ciò che si definiva e si definisce “pubblico”. Così, negli Usa si è affidato ad un pubblicitario il destino del “marchio America”, dimenticando che la priorità non era e non é “far conoscere il marchio” e neppure “persuadere al suo acquisto”, bensì “ideare, produrre, distribuire e comunicare un prodotto chiamato Stati Uniti d’America, esprimerlo attraverso un prodotto complementare chiamato brand, e proporlo infine ai potenziali acquirenti di tutto il mondo”. In tutto questo, la pubblicità non è che un tassello, e neppure importante più che tanto. Un Paese – USA o Italia o Grecia o India o Brasile, oppure Australia o Francia – che sia, lo si “acquista” e quindi lo si “vive” per quello che fa, per come si comporta, per la cultura di cui dispone, componenti essenziali della immagine, e non per la quantità di pubblicità che è in grado di proiettare all’esterno e all’interno. E la comunicazione deve occuparsene in tutte le sue forme e con tutti i mezzi di cui dispone, quindi anche con la pubblicità, ma probabilmente innanzitutto con la formazione, con il disegno dello Stato, con la sua politica interna e internazionale, con la pratica economica, con l’esempio…Tutte cose che vanno comunicate e che sono in sé mezzi di comunicazione “conoscitiva e formativa”.
Affidarsi pressoché esclusivamente o principalmente alla pubblicità è un errore.
Come è un errore pensare che il rebranding serva a “riavvicinare un brand invecchiato alla narrazione originaria”: ri-produrre un marchio significa descrivere attraverso un brand, appunto, la nuova impresa, il nuovo prodotto, la nuova realtà che nulla vieta siano enormemente diversi e migliori di quanto non narrasse il brand invecchiato.
E non è il brand a fare invecchiare (anche fisicamente) il prodotto, bensì è vero il contrario: è il prodotto o l’impresa sottostante che, obsoleti, rendono incongruo e dunque vecchio il brand.
Ecco allora che il problema assume dimensioni e aspetti diversi da quelli (assolutamente bene esposti) da Salmon.

Anche perché a me pare sia assolutamente prematuro affermare che un evento accaduto solo qualche settimana fa possa aver “ridisegnato” l’immagine di una Paese quale la Francia, la cui cultura ha le radici che tutti conosciamo e la cui storia ha attraversato vicende altrettanto note. Una pura questione di tempo, se si vuole, ma il tempo è importante per la storia e ancor più per la cultura di un popolo.
Un evento come l’attentato alla redazione del settimanale francese soprattutto ai nostri giorni ha certamente la capacità di richiamare l’attenzione, ma non credo quella di cambiare il modo di essere e dunque la cultura della Francia. Per intenderci: una Rivoluzione è in grado di ridisegnare la Francia; un attentato, per quanto criminale, no. Non è stato l’attentato a moltiplicare la consapevolezza della democrazia e della libertà, ma il contrario: proprio perché profondamente consapevoli dell’importanza della libertà e della democrazia, i francesi sono scesi in piazza, per qualche verso sopravvalutando l’accaduto.
Che non è stato un tentativo di distruggere la cultura di un Paese e dell’Occidente tutto, ma di una minaccia alla sicurezza al fine di suscitare preoccupazioni e timori atti a “far pensare che l’Islam sia forte e minaccioso e animato da volontà di potere” più di quanto non sia pensabile e possibile nella realtà. E dunque a preparare un terreno più fertile alla “minor resistenza” nella eventualità di attacchi più profondi e determinanti. Che è uno degli scopi delle “comunicazioni di guerra”, soprattutto quando la si prepari.

Sembra che le leggi economiche ancora una volta abbiano dimostrato il primato dell’economia e del profitto su ogni altro valore: il 14 gennaio Charlie Hebdo è uscito in tutto il mondo con una tiratura pari a tre milioni di copie contro le tradizionali sessantamila settimanali. Ed ha ristampato fino a cinque milioni. Tutto esaurito. Credo, anche la tiratura del quotidiano che, in Italia, ha fatto da “cavalluccio” (tecnica elementare di penetrazione nei mercati esteri, consistente nell’appoggiarsi a prodotti già presenti e affermati), con ciò moltiplicando le proprie vendite.
Che è la stretta osservanza di una di quelle “leggi” che hanno confermato come la nostra economia altro non sia se non un campo di battaglia, per uscire vincitori dal quale occorre anche “sfruttare le opportunità”, quando non addirittura crearle. Senza esclusione di colpi.
Dal che un paradosso (almeno, così voglio sperare): è proprio impossibile che il tutto sia stato orchestrato a scopi pubblicitari, da burattinai senza scrupoli tesi soltanto a realizzare quel profitto che appare sempre di più come unico e vero valore della nostra cultura? Ogni tanto compare dietro gli eventi l’ombra di un Grande Fratello…

Ho anche letto che il legale del settimanale francese, Richard Malka, ha ricordato che lo spirito di “Je suis Charlie” significa anche “diritto alla blasfemia”.

E i miei pensieri hanno preso una strada diversa da quella che avevo immaginato. Hanno scelto la libertà, anche a costo di sbagliare.

Rimane intatta la premessa: il settimanale satirico francese a me non è mai piaciuto in modo particolare. Al contrario, le rare volte in cui mi è capitato tra le mani non ricordo abbia suscitato in me neppure un sorriso. Ho sempre pensato che le vignette dei nostri disegnatori, tra le quali quelle ogni giorno destinate a commentare la cronaca sui quotidiani italiani, siano di gran lunga migliori. E migliori di Charlie Hebdo siano stati i periodici satirici italiani. Cosa, questa, ovviamente priva di qualsiasi importanza, come ogni giudizio assolutamente personale circa la “bellezza” – estetica e relativa al contenuto – in senso ampio di una qualsiasi cosa.
Il che non mi ha impedito di condannare immediatamente come assolutamente cretina – oltre che criminale – la strage avvenuta nella redazione.
Con annessi e connessi, ovviamente.
Chiunque violi la legge è un delinquente, e i due attentatori hanno violato la legge. E chi fa ricorso alla violenza (oltre che al farsi ragione da sé) è certamente un cretino: perché la violenza può al massimo illudere di una soluzione che presto o tardi si rivelerà tutto, meno che una soluzione, appunto. E sarà sempre ispirazione di violenza ulteriore, di proposta di reazione che costituirà anche argomentazione politica per coloro che mancano di argomenti più seri e colti.
In più, proietterà sugli autori un’immagine negativa di sfiducia, di rigetto, di attesa di rivincita: esattamente il contrario di quello che gli autori della violenza speravano fosse di accettazione o almeno di acquiescenza.
È ben vero che la storia dell’umanità si fonda (forse principalmente) sulla violenza (non necessariamente e non solo quella delle armi), ma è anche vero che il progresso consiste proprio nel ridurre sempre di più l’uso della forza, fino a raggiungere – forse – un’età dell’uomo che possa fregiarsi del titolo di “era dell’intelligenza e dell’accordo”.
Certo, gli attentatori – e chi li ha ispirati e chi li ha guidati e chi li ha finanziati – non hanno fatto che proseguire sulla strada dell’evento eclatante, del quale non può non parlarsi, e dunque atto (anche) a creare dubbi e insicurezze e persino l’idea che la vittoria sia dalla parte del violento privo di scrupoli.
Hanno contato sulla “notizia”, gli attentatori, e sulla complicità – inevitabile perché inconscia (almeno, lo spero!) – dei giornalisti della carta stampata e dei network diversi i quali si gettano sul racconto dei fatti ampliandoli, “montandoli” per quanto nelle possibilità di ciascuno, alla ricerca di un successo commerciale che li riguarda direttamente: i giornali si vendono di più, e dunque si vendono più spazi pubblicitari; i telegiornali ed i talk show sono seguiti da un maggior numero di spettatori, e dunque la vendita di pubblicità cresce; gli opinionisti si moltiplicano e la notorietà di ognuno in qualche modo cresce. E ciascuno sembra ascoltare se stesso con l’attenzione del caso: un’occasione non frequentissima di parlare di cose difficili in modo fumoso e basandosi su credenze scontate. E comunque di farlo accreditandosi come esponente della migliore cultura e faro della più avanzata civiltà.
Io continuo a pensare che i giornalisti della carta stampata e dei network televisivi farebbero opera meritoria tacendo. Toglierebbero a questi delinquenti il modo di mettersi in vista e di utilizzare quella che è per loro l’arma migliore, la più efficace. Il rumore si vince con il silenzio.

Mi pare fosse Voltaire ad affermare più o meno (cito a memoria): “Non sono d’accordo, ma darei la mia vita perché tu possa esprimere la tua opinione”. Che appare tessera di quel mosaico complicato e complesso e soprattutto assolutamente indefinito che chiamiamo libertà, e in nome della quale tentiamo di giustificare qualsiasi nostro pensiero e qualsiasi nostro comportamento. Anche quello (sembra, tenuto proprio da Voltaire) di superare la concorrenza pagando il silenzio delle claque quando in scena era il lavoro di un altro.
Una cosa è consentire che una opinione si esprima, altra e ben diversa è lasciare che si affermi come vincente e migliore!

Io penso che il ricorrere al valore chiamato libertà dovrebbe consigliare più di un motivo di attenzione o almeno di prudenza. La libertà è sempre stato un problema di conoscenza dei limiti espliciti o taciti esistenti nei rapporti tra gli uomini tra di loro e tra gli esseri umani e il resto di quella che chiamiamo creazione.
E dunque, quando si afferma – come pare abbia fatto l’avvocato Malka – che esiste un “diritto alla blasfemia” (che significa che si è liberi di bestemmiare), bisognerebbe ricordare che se la libertà consiste nel violare leggi, regolamenti, usi, costumi, principi di educazione, perché non affermare anche che esiste un diritto all’omicidio, e un altro allo stupro, e un altro ancora all’uso dei bambini come bombe umane o come soldati, e un altro alla schiavitù…?
Si badi: c’è evidentemente più di qualcuno che pensa che così sia. E che insegna ai bambini di dieci anni a sparare alla testa di due “nemici”: un bambino costa assai meno di un uomo; e l’insegnare con la pratica è più efficace ed economico del farlo esponendo la teoria; e il bambino che spara crede di giocare alla guerra, ed è (forse) anche contento. Anche perché supera il “bum” con la bocca. E si sente grande.

Almeno da noi, in questa Italia così tanto criticata e così vicina ad una grave forma di analfabetismo di ritorno, esisteva un vecchio adagio che consigliava “scherza coi fanti e lascia stare i Santi”. Per due ragioni, io credo: la prima, perché non essendoci certezza assoluta e assolutamente condivisa circa l’inesistenza dei Santi, meglio sarebbe non scatenarne l’ira; la seconda, perché una regola elementare di educazione e di buon vicinato consiglierebbe di non provocare la suscettibilità di chi nei Santi crede.

Il diritto alla satira – che non esiste in quanto “diritto”, ma che certamente è compreso nei contenuti che disegnano la libertà – ha a mio parere a sua volta qualche confine. Intanto, dovrebbe essere assolutamente intelligente, e solamente veri e propri geni della comunicazione sono in grado di fare una satira intelligente. Perché la satira è una delle più difficili forme di comunicazione. Non a caso tra i grandi Autori si citano Orazio, Giovenale, Parini, e Jerome e Mark Twain: scrittori che hanno dato vita a grande satira, perché è l’essere scrittore e poeta di vaglia che consente di creare una satira importante. E sarebbe forse il caso che almeno “Viaggio in Paradiso”, capolavoro assoluto di Mark Twain, fosse letto da tutti: è un meraviglioso esempio di satira letteraria sviluppata nel settore più delicato della cultura umana, quello che attiene alla religione ed alla vita di un aldilà atteso e sperato e tutto da conquistare con la vita di ogni giorno nell’aldiquà.

Quando la satira si manifesta sotto forma di vignetta, è ancora più difficile, per la sintesi estrema che questa impone, e richiede autori assolutamente eccezionali.
Satira e caricatura sembrano andare di pari passo. La prima è definita (Devoto-Oli) come “genere di composizione poetica a carattere moralistico o comico consistente nel mettere in risalto, con espressioni che vanno dall’ironia pacata e discorsiva fino allo scherno e all’invettiva sferzante, costumi o atteggiamenti comuni alla generalità degli uomini, o tipici di una categoria o di un solo individuo. In senso estensivo, quanto rivesta un carattere di critica più o meno mordace (dal sarcasmo alla caricatura) verso aspetti o personaggi tipici della vita contemporanea”. La seconda, come (ivi) “l’accentuazione, nella immagine di una o più persone, di atteggiamenti o tratti ridicoli cui si accompagnano sembianze alterate e contraffatte, tali però da lasciar riconoscere l’originale, fornendo materia di riso o di riflessione”.

Poi, come del resto tutti i comportamenti umani, la satira incontra limiti diversi a seconda delle materie, così come li incontra nella cultura del pubblico cui si rivolge.
Che è cosa ovvia, e non a caso disegna differenze anche importanti tra popoli e persone. Chi non ha mai sentito parlare del sense of humour degli inglesi, diverso da quello degli italiani, per esempio, ai quali ultimi spesso se ne attribuisce la mancanza? E chi non ha notato che il disporre di senso dell’umorismo e la misura in cui se ne dispone disegna un possibile grado di intelligenza? E non è forse vero che, da noi per esempio, si può tranquillamente “far satira” sulle donne, purché non si tratti di nostra madre o di nostra moglie o di nostra sorella? E che molte battute fanno ridere, sempre che non ne siamo oggetto noi stessi in prima persona?
In quanto alla materia… Beh, da noi il riferimento al sesso provoca facilmente una risata (sempre nei limiti sopra indicati) e nessuno si scandalizza, seppure sia generalmente accettata una differenza tra la barzelletta “crassa” da caserma e quella finemente comica; per altri, il sesso è argomento assolutamente da non toccare. Come la religione e i suoi esponenti: noi cristiani sembriamo disposti a sorridere sul nostro Paradiso e sul nostro Dio, oltre che, naturalmente, sulla gerarchia ecclesiastica; probabilmente, per altre religioni la questione è talmente diversa che il solo accennare ad un profeta, per esempio, o a Dio è ritenuto intollerabile e suscita reazioni contro la blasfemia.
E credo non esista sentimento che, come la fede, sia in grado di generare altrettanta violenza.
Forse anche perché chi crede in modo cieco e assoluto è portato anche a pensare sia suo primo e più importante dovere “difendere” il proprio Dio dagli attacchi degli “infedeli”, anche a costo del sacrificio della vita.

Eppure, non c’è tra le grandi religioni una che predichi il ricorso all’uso della violenza “a maggior gloria di Dio”.
Ma lo hanno fatto e lo fanno tutte, seppure in misura e con mezzi diversi.

E allora, un pensiero in libertà.
Gli esseri umani si organizzano in gruppi più o meno ampi, e si danno leggi e norme per regolare la convivenza dei singoli tra di loro e con il gruppo, e quella del gruppo con gli altri con i quali si stabilisce un contatto.
E in forza di quelle leggi e di quella normazione organizzano la “formazione” dei singoli ad esser “cittadini” del gruppo ed anche partecipi della “vita dei gruppi” diversi da quello di appartenenza.
Se questo è vero, e credo che lo sia; se gli Stati hanno un problema di integrazione degli individui, e lo hanno; se le diverse fedi diventano motivo di contrasti anche violenti, e lo diventano; ebbene, se tutto questo e quanto non detto è vero, cosa si oppone ad una scuola “pubblica”, nel senso di una scuola organizzata e gestita dalla struttura territoriale pubblica di riferimento, che abbia tra le materie di insegnamento i principi fondanti, i valori, almeno delle tre grandi religioni monoteistiche, di ciascuno dei quali si illustri a tutti la portata e l’importanza nella storia così come nella vita contemporanea e di ciascuno dei quali si illustri il rapporto con il sistema giuridico del Paese, con le sue leggi, con il suo modo di essere?
Almeno in questo senso – di conoscenza dei valori della fede di ciascuno – ad una maggiore cultura dovrebbe rispondere una più ampia libertà.