Cattedra: Dragèes e Unione Europea, una parabola

di Paolo M. Di Stefano -

L’Unione Europea nasce per volontà di sei Paesi, Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, portandosi secondo me in modo affrettato ai ventotto attuali – Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria. Dopo gli entusiasmi iniziali e dopo successi tutt’altro che trascurabili, trattato di Schengen e moneta unica in testa, checché se ne dica, soprattutto per ciò che concerne quest’ultima, è innegabile che si sia dinanzi ad un periodo di crisi, e dunque alla necessità di correre ai ripari se si vuole evitarne il fallimento.
Qualcosa bisognerà pur fare, ma cosa?

Parabola

Nascevano gli anni ’60 del 1900 e nelle sale cinematografiche – allora numerose ed affollate – usciva un film ch’ebbe immediato successo: I magnifici sette, diretto da John Sturges, protagonisti Yul Brynner, Horst Buchholz, Steve Mc Queen, Charles Bronson, Robert Vaughn, Brad Dexter. Un successo travolgente quanto – a mio avviso – esagerato, ma sufficiente ad ispirare una impresa dolciaria notissima a immaginare e mettere in vendita una serie di prodotti da banco cui venne attribuito il nome di Flipper e che fu pubblicizzata come “i magnifici sette”. Si trattava di ottime praline di cioccolata ripiene, dai diversi sapori, confezionate in astucci di cartone, coloratissimi e disposti su di un espositore adatto ad essere posizionato sul banco del bar, per lo più a fianco della cassa. Propriamente definiti “prodotti ad acquisto d’impulso” furono così tanto in grado di proporsi come irresistibili che l’allora Direttore Commerciale – ragioniere – dispose quasi immediatamente per il raddoppio: da sette a quattordici. E non passò molto perché si giungesse a ventuno tipi.
Ma le vendite cominciarono a calare rapidamente, senza che il Direttore Commerciale riuscisse a comprenderne la ragione. Una discesa che sembrava inarrestabile.
Il giovane (allora) responsabile di prodotto, privo di preconcetti e convinto che gli interessi della impresa dovessero essere ritenuti prioritari, cui la linea era stata affidata si accorse immediatamente e innanzitutto – cosa tutt’altro che difficile – che i Flipper incarnavano il grande amore del Direttore Commerciale, il quale della loro “invenzione” menava gran vanto e che, non potendo ignorare il calo di vendite, non aveva perso neppure un attimo per attribuirne la colpa alla forza di vendita la quale, a suo dire, non metteva sufficiente entusiasmo nel “caricare i clienti”, tecnica, questa, che rappresentava il massimo della strategia del RDC.
Ma anche si accorse che i responsabili tutti dell’impresa ignoravano completamente cosa significasse “prodotti ad acquisto d’impulso”, limitandosi – loro, tutti self made manager italiani – a prendere atto come l’esporli sul banco di vendita fosse comunque opportuno, meglio se vicino alla cassa. Questo ultimo pareva il solo punto di piena consapevolezza: serviva per limitare i furti da parte della clientela. Dunque, uno dei modi per fare assistenza alla clientela rivenditrice, e per questo “vendibile”.
Quanto alla teoria e pratica della vendita di prodotti soggetti ad acquisto d’impulso… Basterà citare la risposta che il RDC seccamente sparò quando il giovane responsabile provò a ricordargli che una delle prerogative dell’impulso è che la decisione d’acquisto nasce all’improvviso, di solito alla vista del prodotto, in una con quella del bisogno, e all’improvviso si spegne dinanzi alla prima difficoltà: “Che volemo fa’? – disse – “Vo’ dicete solo teorie! La linea è perfetta. Tocca spigne la forza di vendita. Semo sotto del venti percento…” soggiunse, indicando alle sue spalle la scritta gigante con le vendite a sinistra e le previsioni a destra. E lì il primo grande errore: il giovane ebbe la dabbenaggine di chiedere come fossero state stilate le previsioni e da chi, ottenendo uno sguardo d’odio e l’enunciazione del dogma: “l’emo fatte io e il commendatore: ogni anno aumentamo del dieci per cento, e io e il commendatore so’ vent’ anni che conosciamo il mercato: ce semo nati, ce semo… Vo’ venite da le gomme: che ne volete sape’ di cioccolatini?”
Per farla breve: il giovane, a conclusione di una analisi neppure complicata e lunga più che tanto, mise nero su bianco le conclusioni cui era giunto, complete di proposte.
Sostanzialmente queste: il numero dei prodotti di linea comportava difficoltà di scelta da parte del potenziale acquirente, e quindi la rinuncia all’acquisto. Conseguenza immediata, il rallentamento della rotazione dei prodotti, con deterioramento delle confezioni sull’espositore e invecchiamento in particolare di alcuni prodotti: ad esempio gli arancini (scorze di arancia ricoperte di cioccolata), peraltro buonissimi appena prodotti, si indurivano fino a sembrare chiodi, ovviamente generando scontento e proteste. Inoltre, le confezioni ferme sull’espositore incameravano la polvere e l’umidità, con ciò rendendole meno piacevoli e attraenti, ed anche accelerando il processo di degrado dei prodotti all’interno. E via dicendo.
Proposta ovvia: ridisegnare la linea sia come numero che come tipologia dei prodotti: sette, massimo otto “sapori” in totale, scelti soltanto in base alla qualità ed alla resistenza al tempo e senza privilegi apodittici per quelli tradizionali; ristrutturare le confezioni rendendole repellenti alla polvere e impermeabili; ridimensionare l’espositore e le unità di vendita.

Risultato quasi immediato, l’aumento delle vendite, in una con l’inimicizia del Ragioniere Direttore Commerciale per quel Responsabile di Prodotto, colpevole soprattutto di aver dimostrato che l’improvvisazione non era la strategia migliore per la gestione dei prodotti tutti, e che in molti casi neppure lo era la tanto vantata esperienza, come non lo erano le violenze verbali nei confronti dei venditori e dei clienti rivenditori, mentre pagante era l’attenzione ai particolari, anche a costo di un (contenutissimo, peraltro, nello specifico) aumento di alcuni dei costi di produzione, ampiamente ripagato dai volumi di vendita. E come l’attenzione ai particolari dovesse essere preceduta da attente analisi di mercato, in grado di confermare, smentire ed eventualmente modificare le impressioni personali chiamate “esperienza”.

Solo per la cronaca: quel RDC era lo stesso che più tardi avrebbe preteso di chiamare “cocktail” un tipo di caramelle in stick bicolori, non esitando ad insultare il responsabile di prodotto che gli faceva notare come “la gente” sembrasse far coincidere il lemma “cocktail” con una miscela di liquori, ingredienti del tutto assenti dal prodotto in questione, in pratica fallito; ed anche lo stesso che volle imporre il brand “palle di fuoco” a boeri al liquore (in sé assolutamente ottimi!) lanciando l’argomentazione di vendita “due palle di fuoco cinquanta lire”, ultimo motivo di contrasto con il Capo Prodotto che insisteva per fargli notare come fosse abbastanza improbabile che le signore – all’epoca principali consumatrici di cioccolatini al liquore ma anche non use alla frequentazione dei bar – entrassero in un locale pubblico a chiedere “due palle di fuoco” o anche soltanto a prenderle senza farsi notare.
Da notare che tutto questo e le altre decisioni quanto meno definibili infelici non incisero in nessun modo sulla carriera del ragioniere DC, che si chiuse secondo i suoi piani ai massimi livelli dell’impresa, peraltro ormai talmente indebolita da consigliarne la vendita.

Per l’Europa, che fare?

Intanto, sembra necessario un “Responsabile di prodotto” che in qualche modo sia capace di suggerire i rimedi in grado di rilanciare il progetto, ed anche per l’Europa, forse, un attento esame della sua storia e dei presupposti in una con il porre la massima attenzione ad ogni anche più piccolo particolare potrebbe essere di notevole aiuto per elaborare proposte non apodittiche, non aprioristiche, non basate su concetti ormai superati e antistorici e quindi tutti da verificare. Non risulta siano state mai condotte attente analisi di mercato per conoscere i bisogni dei cittadini dei singoli Stati e quelli – diversi – di ogni Stato. Tra le altre cose, se anche qualche analisi di mercato è stata condotta, ci sono buone probabilità che siano state accuratamente conservate nei cassetti di qualche scrivania: destino comune a molte delle ricerche aziendali, almeno in Italia, quando i risultati non coincidano con le opinioni e gli interessi dei singoli potenti di turno. Oppure, che siano state pilotate verso risultati coincidenti con questi, e dunque utilizzati a discapito della struttura di riferimento.
La conoscenza “reale” dei bisogni, degli interessi e delle motivazioni sarebbe stata utilissima nel determinare i particolari della strategia e della tattica da seguire nella pianificazione della gestione di una unione, a partire dal tipo di obbiettivi da perseguire e dalla determinazione delle priorità, dei tempi e dei modi per farlo.
E avrebbe anche aiutato a capire quale fosse il grado di convincimento di ciascuno Stato e quindi la determinazione ad un “fare le cose insieme” “nel comune interesse”.
I sei Paesi fondatori si dice siano divenuti tali in nome della consapevolezza che l’essere uniti nel perseguire intenti comuni avrebbe contribuito ad una migliore qualità della vita, ad una maggior sicurezza, ad un più elevato benessere, ad un maggiore rispetto da parte degli altri Paesi, ad una evoluzione concreta verso un mondo ed una cultura di livello superiore a quella attuale.
In una parola, verso una migliore e più corretta gestione della Politica e dell’Economia.

E dunque, una verifica ulteriore: cosa i singoli Stati intendessero (allora) per Politica, cosa per Economia, quali rapporti ci fossero tra l’una e l’altra disciplina e come in pratica il tutto si traducesse non solo nella vita quotidiana, ma anche in vista di obbiettivi a lungo termine, peraltro tutti da chiarire.
Io continuo a credere che avendo come oggetto il genere umano, e come orizzonte la conservazione della specie e dell’ambiente a livello planetario non sarebbe stato impossibile disegnare una pianificazione politica ed economica di tipo se si vuole ideale che in qualche modo ridefinisse la Politica e ne illustrasse i compiti e lo stesso facesse per l’Economia, con questo individuando oggetti, priorità, soggetti, tempi e modi di una pianificazione affidabile.
Nulla di questo – sembra – è stato fatto alle origini, al momento opportuno, ma ciò non significa che non lo si possa realizzare adesso, con ciò anche verificando il senso della partecipazione alla struttura che chiamiamo “Unione Europea”.

A questo proposito – verifica del senso della partecipazione o mancata partecipazione o anche della uscita di alcuni Stati attualmente membri – il momento mi pare più che propizio.
Dove è scritto, per esempio, che la presenza del Regno Unito costituisca un elemento essenziale e quindi vitale per l’esistenza dell’Unione Europea? La Gran Bretagna ha sempre e soltanto perseguito i propri interessi, ed a questi si sono piegati gli altri Paesi. Che senso ha, per esempio, stabilire che la Gran Bretagna avrà uno statuto speciale, che non farà mai parte del superstato europeo né mai di un esercito europeo; che senso ha che non sia quello di partecipare ai vantaggi di una unione rimanendo al riparo da possibili svantaggi e doveri? E – soprattutto, a mio avviso – che senso ha quel “recupero di sovranità” se non che la Gran Bretagna tende a non fare ciò che tutti gli Stati membri presto o tardi dovranno: cedere sovranità ad una struttura sovrastatale perché possa funzionare correttamente. Che tra le altre cose è il senso di qualsiasi unione, anche non propriamente definibile come “politica”.
La saggezza popolare recita “tutti sono utili, nessuno è indispensabile”.
Perché dovrebbe non valere per la Gran Bretagna?

Nulla ci vieta, oggi, di verificare il “grado di convincimento” e “le modalità di partecipazione” di tutti e di ciascuno i ventotto Stati; e nulla ci vieta di operare una scelta, cosa fattibile anche scrivendo una costituzione europea ed operando sui singoli Stati, scegliendo quelli che per convinzione e cultura siano veramente e concretamente in grado di “costruire gli Stati Uniti d’Europa”.
E credo anche che la “coscienza europea” debba essere costruita attraverso una intensa, puntuale, continua formazione nelle scuole di ogni Paese, non soltanto di quelli membri. Anche l’esistenza di questa formazione potrebbe contribuire alla verifica del convincimento e della idoneità almeno culturale di ciascun Paese ad ottenere l’onore di far parte di una Unione che ha come orizzonti le fortune del genere umano in un ambiente sicuro, e con una qualità di vita in continuo miglioramento, per tutto il tempo di cui l’umanità dispone.