Cattedra: Democrazia e autorità, cromosomi della società

di Paolo Maria di Stefano -

Il rischio che corro con questa “cattedra” mi è ben presente: l’accusa di vagabondaggio nei mondi della cultura, senza un filone preciso. Ma voglio rischiare, perché di richiamo in richiamo, di ombra in ombra, di parere in parere io credo possa costruirsi una base di dibattito, non solo, ma anche di proposta.

E ricordo che quello che manca nella nostra politica e nella nostra cultura in genere non è la capacità di trattare in astratto i grandi temi, quanto piuttosto quella di collegare l’opinione con i fatti. Anche perché non di rado dimentichiamo i concetti di base, li diamo per scontati, li definiamo per subito metterli in un canto e non trarne le conseguenze più logiche (o più immediate e semplici, come non di rado accade per “amor di distinguo”).
Nel corso di questa esposizione non precisamente ordinata, probabilmente divagante, e della quale chiedo scusa in anticipo, ricorderò alcune definizioni.

A partire da quella di “democrazia”, sulla bocca di tutti assieme a “libertà” e, soprattutto in questi ultimi tempi, ad “autorità”. Con una annotazione importante: mentre si tende a far coincidere il concetto di democrazia con quello di libertà, si propende a dare per scontato che l’autorità sia la negazione dei primi due.
Democrazia e libertà sarebbero in contrasto assoluto con “autorità”.
E sarebbe bello se le cose stessero così: avremmo almeno un punto di riferimento certo, costituito dalla incompatibilità di “autorità” con “democrazia” e “libertà”.

Ma forse le cose non stanno esattamente così, non fosse altro che perché ci si trova dinanzi a piani diversi.

Quando parliamo di democrazia, in genere intendiamo che il popolo è il detentore della sovranità e dunque quasi in automatico del potere, e che li esercita attraverso un Parlamento, “sovrano” a sua volta. Che appare già di per sé una contraddizione: come si conciliano due sovranità esercitate su di un unico popolo stanziato su di un unico territorio? C’é da dire che, forse, proprio in questo potrebbe ravvisarsi una delle ragioni di contrasto tra “la gente” e “la Politica”, contrasto che da noi e oggi appare in tutta la sua drammatica evidenza. Se questo è vero, potrebbe immaginarsi una soluzione del conflitto nel riconoscere che non è vero che il Parlamento è sovrano, ma che si tratta di un organo che esercita alcune delle funzioni tipiche della sovranità in nome e per conto del popolo, che della sovranità è detentore e che quindi ha la facoltà di delegarne l’uso in tutto o in parte.
Ma c‘è di più: se il popolo è sovrano, per quale ragione dovrebbe non poter scegliere una forma diversa dalla democrazia, e quindi organizzare lo Stato – per esempio – in base ad una ferrea dittatura, delegando ad un uomo solo il comando in forma assoluta, ivi compreso il diritto di vita e di morte sugli individui? Ovviamente, con tutti i passaggi intermedi, dei quali la storia dà ampia testimonianza e in ciascuno dei quali ciò che veramente varia sembra essere il rapporto tra “autorità” e “libertà”.
E ancora: non è affatto detto che il popolo abbia potuto e possa sempre scegliere la forma dello Stato e del Governo, così come non è detto che queste traggano sempre giustificazione da una delega popolare. La sovranità, il potere ed il suo esercizio possono prescindere in modo assoluto da ogni e qualsiasi rapporto con “il popolo” che non sia quello di sudditanza – e quindi servile – di quest’ultimo. E la storia, anche contemporanea, è ricca di esempi. Il disporre della sovranità è stato di volta in volta attribuito al volere divino oppure o anche soltanto alla conquista con le armi, magari facendo ricorso “a posteriori” ad una giustificazione soprannaturale, presente e formalizzata in modi diversi, tutti comunque e sempre suggestivi, offerti al popolo come espressione massima di quei “circenses” che, uniti al “panis” si è pensato fossero in grado di esaurire la materia della Politica. Giovenale (Satire, X, 81) al quale si deve la citazione “panem et circenses” indica il fenomeno come un sistema di Governo (e quindi di esercizio del potere e della sovranità) che si sia posto l’obbiettivo di trovare una sia pur limitata forma di consenso in un popolo di cui lo Stato – comunque espresso ed organizzato – tende a soddisfare i bisogni di pura sopravvivenza fisica insieme a quelli di distrazione, di divertimento. E questo al fine di cercar di evitare resistenze e rivolte.
Forse, con quanto è accaduto accade nel nostro Paese è ravvisabile più di una consonanza.

Allora, forse significa che “democrazia” non coincide con quello di “sovranità popolare”. Almeno, non in automatico. La democrazia è su di un piano diverso di quello occupato dalla sovranità: è una forma di governo “fondata su di una visione egualitaria dei rapporti sociali e dei diritti politici, esercitata dal popolo direttamente o più spesso indirettamente per mezzo di rappresentanze elettive” (Devoto-Oli Dizionario della lingua italiana).
Da qui al “popolo sovrano” – forse – la distanza non è proprio brevissima.

La sovranità è comunemente ritenuta un attributo dello Stato in quanto tale, e quindi in quanto organizzazione di un popolo su di un territorio, e la democrazia una delle “forme” che lo Stato può assumere, delegando al popolo alcuni dei contenuti della sovranità di cui esso Stato è depositario a titolo originario. Per esempio, quello di scegliersi “i legislatori”, e gli organi di governo, e quelli che amministrano la giustizia (…)
La sovranità è un cromosoma dello “Stato- individuo”. E la sovranità è il potere di organizzare e far vivere lo Stato, la comunità che occupa il territorio di riferimento.
Ma occorre fare attenzione. Si insegnava un tempo – e credo ancora oggi – che lo Stato ha tre elementi essenziali: popolo, territorio e potestà d’imperio (la sovranità, appunto). Ma non è vero. Per lo meno, non sempre lo è. Il Sovrano Ordine Militare di Malta è uno Stato senza territorio.
Dunque, la qualifica di Stato può prescindere dalla esistenza di un territorio.
Quanto al “riconoscimento” da parte degli altri Stati, non si tratta di un elemento costitutivo dello Stato, bensì solo della presa d’atto e, se si vuole, della concessione di una “capacità di agire” nell’ambito di una comunità più vasta, costituita da altri Stati Sovrani, e della quale in forza del riconoscimento lo Stato entra a far parte.

Ciò da cui uno Stato non può prescindere sembra essere proprio quella “potestà d’imperio” che chiamiamo “sovranità”, e che è “originaria” nel senso che nasce contemporaneamente alla struttura chiamata Stato, e che è costituita dalla “cessione di poteri” da parte dei singoli individui – da un lato – e, dall’altro, dalla nascita ineluttabile di bisogni e di interessi propri della struttura i quali a loro volta generano poteri decisionali “originari” che si aggiungono a quelli “delegati” dai membri individui e che non di rado sono in conflitto con questi, perché per loro natura “diversi” da tutti e da ciascuno, dal momento che esprimono nella pratica bilanciamenti e quindi esaltazioni o sacrifici o indifferenze. E dunque, diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi semplici costituenti il mondo del diritto che informa lo Stato e che ne regola i rapporti con i cittadini.
I poteri che i cittadini conferiscono allo Stato concernono in genere la soddisfazione di bisogni ai quali il singolo non è in grado di provvedere in una con la soluzione di parte o di tutti i conflitti che possono sorgere tra cittadini tra di loro. Non mi pare possa parlarsi di “cessione di sovranità” da parte dei singoli.
Ciascuno di noi non è “sovrano” bensì soltanto “libero”, e la libertà e il suo esercizio sono di difficile definizione e di ancor più difficile pratica. Chi fosse dotato di “sovranità”, sarebbe anche depositario di un potere di coazione nei confronti degli altri, cosa che non accade quando si ha riguardo alla “libertà”. Due libertà che si scontrano danno vita ad un conflitto la cui soluzione è demandata all’accordo tra i soggetti oppure ad una struttura superiore dotata di potere di coazione.
Il livello superiore rispetto alla libertà individuale si configura proprio come “potestà d’imperio”, cioè il potere (diritto-dovere) di “obbligare” a determinati comportamenti (positivi o negativi) o a determinate astensioni: è la differenza tra il fare, il fare non, il non fare. Le prime due sono situazioni nelle quali è richiesto un attivarsi; la terza, indica il “non” attivarsi.
Tutte le norme, da quelle che operano nel mondo della semplice relazione umana e della educazione a quelle che disegnano il mondo del diritto non hanno altro scopo che indicare le circostanze e le materie (e talvolta le modalità) per le quali ciascuno di noi è chiamato a fare, a fare non, a non fare.

E dalla normazione scaturiscono i concetti di responsabilità e di autorità. Il primo – responsabilità – descrive gli effetti derivanti da una azione o da una astensione in una con quelli che nascono dalla titolarità di un ufficio, da una “competenza” assegnata. Il secondo, dall’attribuzione di un potere decisionale che concreta il “dare disposizioni vincolanti” affinché qualcun altro si attivi o si astenga, in vista del raggiungimento di un fine ultimo del quale è responsabile egli stesso o un altro diverso soggetto.

Conseguenza immediata: qualsiasi forma di vita organizzata al raggiungimento di un qualsiasi obbiettivo ha tra i suoi cromosomi la libertà, la responsabilità, l’autorità. A maggior ragione una organizzazione chiamata Stato, che proprio in forza del migliore utilizzo di questi “valori” nasce dotato di libertà, di responsabilità, di autorità.
Allora, nel momento stesso in cui il rapporto tra questi valori si sbilancia, l’organismo si ammala e va curato.
Un eccesso di libertà significa anarchia; un eccesso di responsabilità può portare all’inceppamento della macchina burocratica; un eccesso di autorità, alla dittatura. E, dall’altro lato, una carenza di autorità significa anarchia; una mancanza di libertà può significare sudditanza e schiavitù; la mancanza di responsabilità porta all’inceppamento del sistema.
Con una ulteriore annotazione: la mancata o incompleta descrizione delle competenze – e dunque la mancata individuazione delle responsabilità – è più spesso di quanto non si creda utilizzata per quello “scaricabarile” che permea di sé la vita politica e quella burocratica (e quella aziendale, che non ne è esente, tutt’altro).

Ecco allora che quando qualcosa non funziona a causa di carenze di responsabilità spesso accompagnate da eccesso di libertà, è indispensabile intervenire con “autorità”.
E quando si è in presenza di una “Politica” quale la nostra, di un Parlamento non particolarmente preparato, di una opposizione senza proposte alternative, il ricorso ad un rafforzamento della autorità e dunque del potere di coazione appare opportuno, oltre che indispensabile.
Fino a quel “uomo solo al comando” che al nostro diritto millenario dovrebbe essere ben noto: la figura del “dictator rei pubblicae servandae” altro non è se non la sintesi operativa di tutto quanto fin qui esposto, e non solo. L’uomo al quale lo Stato assegnava il compito di ristabilire entro sei mesi l’equilibrio turbato e di riportare la repubblica in zona di sicurezza incarnava la “potestà d’imperio”, la traduceva in azioni concrete, ma non ne era il titolare. Trascorso il tempo assegnatogli, tornava ad essere semplice cittadino e rispondeva delle eventuali distorsioni provocate.
L’uomo solo al comando se capace, se onesto, se individuato con un corretto procedimento, se dotato di tempi, di mezzi e di un’organizzazione coerente con gli obbiettivi è una risorsa.
Troppi se? È probabile, ma è anche vero che bloccare l’attività del nostro attuale Governo con la scusa di un pericolo di deriva autoritaria a me appare scorretto.
Siamo reduci da decenni di Governi che null’altro hanno realizzato che danni al Paese anche perseguendo interessi assolutamente di parte. E questo hanno fatto, ingozzando l’Italia di leggi e leggine quasi tutte mal fatte, tutt’altro che chiare, spesso in contrasto tra di loro e, quel che è peggio, “fingendo” una attività inesistente o, se esistente, simile ad una ruota che gira a vuoto.

Con questo dando all’attuale Governo un alibi che appare inattaccabile: finalmente qualcosa di concreto si fa.

E qui, forse, una ulteriore necessità di attenzione. Il “fare per fare” o, peggio, il “fare per apparire” sono due tra le malattie più gravi di qualsiasi struttura e, come qualsiasi tumore, tendono ad occupare tutti gli spazi possibili. L’esperienza è più generalizzata di quanto non si pensi. Esistevano ed esistono dirigenti d’impresa che si preoccupano di occupare la poltrona in ufficio alle sei del mattino e alla quale rimangono incollati fino alle sette di sera ed oltre, anche uscendo con una borsa piena di carte da portare a casa. La presenza per la presenza. Il Vice Direttore Generale di una divisione di una grande impresa chimica italiana era divenuto una leggenda: imperversava in ufficio dalle dodici alle sedici ore al giorno, così moltiplicando quei danni che hanno portato al fallimento della società; egli ed i suoi accoliti spendevano cifre enormi in visite assolutamente inutili alle filiali ed alle agenzie; scagnozzi vari sfornavano milioni di dati e di informazioni assolutamente inutili e soprattutto false e del tutto infondate. Esistono Rettori che sono riusciti a distruggere l’immagine della struttura anche organizzando convegni e giornate di studio senza costrutto alcuno se non quello di apparire personalmente al fianco di un qualsiasi potente, meglio se celebre o almeno noto, ed a spendere cifre inimmaginabili per viaggi con corte annessa. Sono in attività politici che impegnano risorse pubbliche più che ingenti per girare il mondo con improbabili obbiettivi di valorizzazione e di rappresentanza. E via così.
Si tratta di gente che “fa per fare”, che non è in grado di prospettare alcunché e neppure di contribuire in qualche modo alla gestione del territorio ed alla soddisfazione dei bisogni “della gente” che bene o male (in genere male, anzi malissimo) rappresentano.
Ma è gente che sa che dare l’impressione di fare oggi è vincente, stabilito che il popolo sovrano sa che nulla o troppo poco si è fatto fino ad ora.
Eterno problema dell’immagine e della sua forza!

La realtà è che questo Governo qualcosa fa e qualche altra cosa cerca di fare. Il tutto, in una situazione abbastanza confusa, nella quale sembra che la dialettica “democratica” sia qualcosa di assolutamente astratto ed inutile. E a furia di agitarsi, questo Governo qualche risultato sembra averlo ottenuto.
E’ di ieri la notizia che lo spread è sceso sotto i cento punti.
Benissimo, se questo è un bene.
Significa: cercare di rivitalizzare un sistema economico obsoleto, ingiusto, classista, anziché cambiarlo è a mio parere un errore, ma è quanto tutti si aspettano. E che tutto vada bene, madama la marchesa, si dice essere dimostrato dall’ultimo livello dello spread.
Fino a ieri, era peggio.
Ora, si dice che tocchi alla istruzione. Io non credo che dal silenzio del Ministro possa nascere qualcosa di buono, ma poiché sembra accertato che nel corso degli anni e dei Governi passati in materia non siano stati commessi che errori e anche gravi, qualsiasi cosa si prospetti potrebbe essere ritenuta positiva.

Ma attenzione: cambiare per cambiare soprattutto nell’istruzione (e nella formazione in genere, a tutti i livelli) è pericolosissimo. Possibile che il Governo non riesca ad esprimere una pianificazione gestionale affidabile e lungimirante in questa materia? Non che nelle altre sia diverso, ma non mi pare possa essere una giustificazione. E poiché si narra che alla Pubblica Istruzione esistano ed operino risorse di tutto rispetto, perché non chiedere ed ottenere l’elaborazione di un piano di gestione da proporre al Parlamento e da approvarsi senza ricorrere ad un decreto legge?
Stessa cosa per la materia della comunicazione “pubblica” nel suo complesso, RAI in testa per ovvie ragioni. A proposito della quale, è sicuro, il Governo, di aver correttamente valutata l’importanza della “distribuzione”dei programmi e il significato dell’OPA su RAI-WAY? E’ proprio necessario ricordare che in una qualsiasi gestione di un qualsiasi rapporto di scambio avente per oggetto un prodotto quale che sia, la distribuzione è forse il momento più importante e delicato? Una corretta gestione della distribuzione porterebbe alla distruzione di una buona parte degli affari delle mafie…
E forse anche ad un assestamento della economia, il cui male è a mio parere proprio una visione non corretta del fenomeno dello scambio: intervenire con decisione sui tentativi di concentrazione, di monopolio, di trust (…) – che sono la naturale conseguenza di una eccessiva libertà del mercato – aiuterebbe e non poco ad un riassestamento di quella economia che è causa della massima parte dei nostri mali.
E, naturalmente, per la gestione di altre materie relative all’esercizio della attività di Governo il quale, in presenza di concrete, affidabili pianificazioni di gestione, se dovesse ritenere che il Parlamento è composto da incapaci o comunque da incompetenti e forse anche disonesti potrebbe legittimamente ricorrere a provvedimenti di autorità.

Perché “autorità” e “democrazia” non sono incompatibili. Tutt’altro.