Cattedra: 2017, speranze poche, domande tante

di Paolo M. Di Stefano -

È un anno, questo 2017, nel quale io credo tutti noi riponiamo qualche speranza. Non le “grandi speranze”, di un tempo, quando tutto sembrava andare per il meglio: il benessere sembrava acquisito e irreversibile e alla politica si guardava con occhio forse più benevolo di quanto non si faccia oggi, soprattutto dopo quel NO alla riforma della Costituzione e quelle notizie che hanno investito alcune delle banche italiane.
Non grandi speranze, dicevo, ma un ottimismo appena accennato, quasi senza contenuti, generico almeno quanto quel “desiderio di cambiamento” che ci ha tormentato e non poco e non solo per l’anno trascorso.
È probabilmente una delle ragioni della brevità di questo scritto, un puro esercizio di qualche meditazione su temi di sempre.

Visto che di cambiamento “costruttivo e concreto” della Costituzione è probabile non si parli più per lungo tempo, e comunque non nell’anno che inizia, forse qualcuno coltiva la segreta speranza che, finalmente, si metta mano alla attuazione di quella vigente, mai compiutamente realizzata, per quanto talmente ben fatta da esser da più parti ritenuta “la migliore del mondo”.
Cosa anche possibile, ma che finché resterà una sorta di lettera morta – sia pure in parte – o, forse meglio, un campo di battaglia per esercitazioni dialettiche, continuerà a ispirare chi propone di ricorre a quell’indefinito cambiamento che ha dato i risultati che conosciamo.
Che è, poi, il paese del bengodi della politica italiana, tanto ricca di parole quanto povera di idee. Meglio: povera di quelle idee che dovrebbero realizzare il bene comune, perché la fantasia nel difendere interessi propri e incrementare potere e ricchezza più o meno personali i politici e i loro sodali sono ricchissimi.
E chissà che qualche “legislatore” non si accorga – per esempio – che non è la doppia lettura a creare intralcio e lungaggini, quanto piuttosto la impreparazione dei legislatori a “produrre leggi”, e dunque ad assolvere tecnicamente in modo perfetto al compito per il quale è stato eletto?
Forse, anche il solo porre questa domanda potrebbe portare ad una più consapevole “costruzione” della classe politica fino a metterla in grado di occuparsi della struttura dello Stato e dunque delle competenze di tutti gli uffici e di tutti gli organi.
Persino, ma è cosa improbabile, a far comprendere ai politici (e non solo) che la divisione dei poteri non coincide con la divisione delle poltrone e delle risorse ad uso diverso da quello della ricerca e della attuazione del bene comune.

E si potrebbe addirittura arrivare a capire che l’essere l’Italia una Repubblica fondata sul lavoro significa anche mettere i lavoratori tutti in grado di guadagnarsi una decorosa qualità di vita, ad essere retribuiti secondo i meriti, a non assistere a quella assoluta immoralità che si concretizza prima nella disparità gigantesca delle retribuzioni e poi in quella delle pensioni.
Che potrebbe anche essere l’inizio per delineare i fini e i compiti di uno Stato, cosa questa che è nello spirito di ogni Costituzione, ma che si continua a non volere (o a non sapere) trasformare in un pianificazione di gestione dello Stato.
E poi, sarebbe cosa abnorme provare a sperare in una vera coerenza con i principi di quella economia che noi affermiamo essere libera perché in grado di garantire libertà di impresa e libertà di concorrenza?

Le prime luci dell’alba del 2017 ridisegnano i problemi che angustiano alcune delle nostre banche, sui quali il 2016 aveva tentato di stendere un pietoso velo.
Non so bene il perché, ma la speranza di dare risposte affidabili ad alcune domande in proposito è proprio così campata per aria?
Una è questa: perché se la mia impresa privata non va bene la si lascia fallire, (sempre che il fallimento non sia stato “indotto” o accelerato per fini non del tutto nobilissimi), mentre se si tratta di una banca, che impresa è e proprio perché tale con tanto di obbligo a produrre profitto, i cittadini tutti devono correre ai ripari? Che è la stessa cosa del chiedersi: in regime di libera economia e di libera concorrenza, dove sta scritto che una banca non possa fallire?
In una impresa privata che non va come dovrebbe, normalmente quel “top management” di cui ci si riempie la bocca paga in proprio fino al licenziamento e al blocco della liquidazione. Non so per i danni ulteriori. È la conseguenza, si afferma, del libero mercato e della libera economia: chi non ha saputo gestire, paga le conseguenze dei danni provocati all’impresa con la propria incapacità. È lecito chiedersi perché questo non valga quando l’impresa è una banca e quando gli incapaci sono i top manager della stessa?
Ci siamo accorti tutti che i conti correnti bancari non producono più interessi: chi affida i propri risparmi ad una banca, il più delle volte paga il prezzo della custodia, almeno. Che sembra bello ed istruttivo, ma se io chiedo soldi ad una banca pago un prezzo che va sotto il nome di interessi. Perché se la banca chiede soldi a me, non solo non paga prezzo alcuno ma, come si diceva, io risparmiatore pago per averli dati, quei soldi, che la banca utilizza per guadagnare. O almeno dovrebbe.

Forse, comunque, ci si potrebbe contentare della risposta ad una domanda più generale: come mai l’Italia è ormai quasi priva di imprese “italiane” di grandi e medie dimensioni? Non sarà per caso il frutto (anche) della incompetenza gestionale congiunta dei manager e dei Politici?
Una domanda, questa, che mi pare dovrebbe condurre direttamente ad un riesame profondo del nostro sistema di produzione della cultura, dalla formazione alla specializzazione, e questo dovrebbe esser fatto ricordando anche che il nostro tipo di economia – che (ripeto) si afferma libero e liberale – non prevede in alcun modo un finanziamento da parte delle imprese alla concorrenza. Significa: ma perché lo Stato – che nel caso della istruzione è anche imprenditore – deve finanziare le scuole private e concorrenti con risorse sottratte alla eccellenza delle proprie?

Si tratta di domande e di temi sui quali sono state scritte intere biblioteche, e altre e forse ancor più ricche possono essere elaborate.
E dunque: ho ragione a fermarmi qui?