CARNE, DIGIUNO E ASTINENZA

di Massimo Iacopi -

Nel Medioevo il precetto di non consumare carne in Quaresima era vissuto come una penitenza. In effetti, la carne era l’alimento più apprezzato e gli stessi monaci facevano a gara per aggirare le regole.

Fino agli inizi del XVI secolo ogni cristiano che viveva in Europa occidentale era sottoposto all’obbligo di privarsi della carne e di ogni grasso animale durante una parte notevole dell’anno. Si trattava in quei periodi di mangiare “di magro”. Caduto in disuso nel diritto canonico a partire dal XIX secolo, questo divieto o se vogliamo questa privazione, si potrebbe assimilare a molte pratiche dei giorni nostri: il vegetarianismo buddista, la cura periodica di detox (disintossicazione) o il flexitarismo (semivegetarianismo) che limita, fra gli altri, il numero di giorni di uso della carne. Recentemente uno studio medico ha tentato – invano – di provare gli effetti benefici sulla pressione sanguigna del “regime vegetariano temporaneo”, imposto dalla Chiesa ortodossa durante i giorni che precedono il Natale, la Pasqua e l’Assunzione.

Giorni di “charnage”

pieter_brueghel_the_elder_-_the_fat_kitchenNel 1563 l’incisore Pieter van der Heyden realizza due stampe partendo dai disegni preparatori di uno dei più grandi pittori del tempo, Pieter Brueghel il Vecchio. Una rappresenta un interno contadino ricco di vettovaglie e di strumenti di cucina. In mezzo a marmitte, prosciutti, salsicce, polli e teste di maiale, uomini, donne, bambini e nutrici sono intenti a mangiare e bere. Uno di questi personaggi scaccia un individuo magro e vestito di stracci. La didascalia che figura sotto l’immagine ci fornisce la chiave interpretativa: “Fuori da qui, seccaccio dall’orrendo aspetto / tu non hai niente da fare qui poiché si tratta di Cucina Grassa” (Hors d’ici, maigre-dos à hideuse mine / Tu n’as que faire ici car c’est Grasse-Cuisine). La seconda stampa rappresenta la cucina magra. Tutto denota una estrema povertà. Alcune persone magre e in abiti trasandati si disputano le poche cibarie che uno di essi ha fatto cuocere in un unico piatto: una cipolla, frutta, stoccafisso e frutti di mare.
Le due stampe non potrebbero rappresentare meglio la dualità esistente allora fra questi due giorni così diversi dal punto di vista alimentare: i giorni grassi in cui si era autorizzati a mangiare di tutto – ivi compresa la carne – e i giorni magri (più di un centinaio all’anno) durante i quali i fedeli dovevano privarsi della carne e spesso anche di grassi animali. Questo dualismo, che spezzava l’anno e la settimana, generava una tensione, specie nell’ambito delle classi popolari, dove la disponibilità di pesce fresco rimaneva alquanto limitata. Una tensione che è stata messa in scena in opere letterarie e rappresentazioni teatrali incentrate sulla lotta fra la Quaresima e i giorni di “charnage” (nome utilizzato nella lingua francese per indicare il periodo durante il quale la chiesa autorizzava il consumo della carne animale). Una lotta che accompagnava il passaggio dal martedì Grasso al mercoledì delle Ceneri, inizio della Quaresima.
Nella più antica attestazione di questo motivo – un poema del XIII secolo – le armi dell’uno e dell’altro protagonista erano formate da prodotti alimentari. Nel periodo “grasso” è un tripudio di carne, selvaggina, insaccati, volatili (anatre, pavoni, capponi, polli, piccioni, allodole, capinere, usignoli, cigni, aironi, gru), grassi di origine animale (lardo, ecc.), prodotti caseari e uova. A questa truppa ricca e diversificata si oppone anche, in questo caso, la povera brigata che circonda il personaggio di Quaresima.

Agli inizi era il digiuno

Il sistema alimentare basato sulla distinzione fra grasso e magro non era certo nato nel XVI secolo. I primi elementi costitutivi risalgono alle origini del Cristianesimo. Ma è proprio nel Medioevo che il sistema si stabilizza progressivamente. Su questa costruzione il diritto canonico medievale offre degli scorci parziali, che non consentono di comprendere perché e come sia nato il “magro”. L’accezione di questo termine sembra peraltro tardiva: è nel racconto fatto nel 1468 da Olivier de la Marche delle nozze di Carlo il Temerario e Margherita di York che si incontra la prima attestazione in lingua francese.
Ancora più antico è il termine digiuno (ieiunium, in latino) che designava nel diritto canonico ogni forma di privazione alimentare: dal consumare un solo pasto per giorno, all’astensione da una categoria di cibo, in primis la carne. In ogni caso non si trattava di vietare: i primi cristiani hanno rinunciato alle numerose proibizioni alimentari del giudaismo e la Chiesa latina ha anche finito per abbandonare (contrariamente a quella greca) il divieto della consumazione di sangue e di carni dove quest’ultimo era rimasto.
Concepito nel suo senso più ampio il digiuno era una vera e propria penitenza: ogni fedele doveva praticarlo non solo durante il periodo di almeno 40 giorni che precede la Pasqua a partire dal mercoledì delle Ceneri, ma anche le vigilie della grandi feste (come Natale) e almeno due giorni a settimana (più spesso il venerdì e il sabato).
Ma per quale motivo l’astinenza dalla carne poteva essere considerata una penitenza? Nel XIII secolo San Tommaso d’Aquino si dedicò all’esame della questione: «Il digiuno è stato istituito dalla Chiesa per reprimere la brama dei piaceri del toccare, che hanno per oggetto il cibo e la voluttà». Il teologo aggiungeva: «L’astinenza deve dunque riferirsi agli alimenti più dilettevoli e più eccitanti; questi sono la carne dei quadrupedi e degli uccelli, come anche i prodotti del latte e le uova».
In altre parole, la carne è allo stesso tempo deliziosa e pericolosa: essa può portare direttamente alla lussuria (in virtù del legame fra la carne animale e il peccato della carne, vale a dire, sessuale) e costituisce allo stesso tempo l’alimento più ricercato nel sistema dei valori del Medioevo. Privarsene significa quindi evitare l’occasione di peccare, rinunciando allo stesso tempo al più grande dei piaceri.
Questo è il motivo per cui i monaci, che devono rimanere puri, vengono sottomessi a una sorta di “magro” perpetuo. La regola di San Benedetto – di gran lunga la più influente – non consente loro il consumo di carne se non in caso di malattia. Ma un altro passaggio della regola proibisce unicamente la “carne dei quadrupedi”. Questa espressione ha aperto la via a interpretazioni divergenti, rivelando una chiara intenzione di aggirare il divieto della carne – in virtù di una specie di incapacità culturale di farne completamente a meno.

La disputa sui volatili

Quella che gli storici del monachesimo chiamano la “disputa dei volatili” conosce un primo avvio durante l’epoca carolingia (VIII-IX secolo). Interpretando in senso stretto il divieto formulato nella regola benedettina alcuni pensatori – e non dei meno importanti, come Rabano Mauro, teologo che ha esercitato le cariche di abate di Fulda e di arcivescovo di Magonza – stimano che gli uccelli siano stati creati da Dio lo stesso giorno dei pesci (vale a dire il quinto della Creazione), quindi il loro consumo deve essere permesso ai monaci in ogni tempo.
Il Concilio di Aquisgrana (817) decide per una interpretazione moderata: il consumo di volatili da parte dei monaci è accettato per quattro giorni dopo il Natale e quattro dopo Pasqua, vale a dire dopo i rigorosi periodi di digiuno dell’Avvento e della Quaresima. Il dibattito sembrava chiuso.
Eppure, il tema torna alla ribalta nel XII secolo. Il fatto è che la posizione proibizionista nei confronti dei volatili ha finito per avere la meglio nei costumi se non nei fatti. Di colpo la discussione si sposta verso nuove questioni, che mettono in evidenza una resistenza profonda degli estimatori della carne.
Per esempio, nei riguardi della cacciagione d’acqua che molti cercano di assimilare, nonostante tutto, ai pesci. Naturalisti, moralisti e teologi si interrogano a fondo sulla natura di alcuni tipi di anatre così come sull’origine dei cirripedi, degli artropodi che si credevano nati per generazione spontanea da vegetazione flottante o dalle conchiglie, molto apprezzati da alcune popolazioni costiere. Nel XII secolo l’ecclesiastico gallese Giraud de Barri osserva che in Irlanda, durante i periodi di digiuno, i religiosi ne consumavano, sebbene “senza piacere”.
Queste abitudini si sono trasmesse ai fedeli. Ancora nel XVIII secolo, Nicolas Andry de Boisregard classificava un’anatra, l’orchetto marino (Melanitta nigra), fra gli anfibi che si mangiano in tempo di Quaresima, allo stesso modo delle rane, delle tartarughe e delle lumache. Ma l’animale anfibio che simbolizzava per eccellenza la “carne” della Quaresima era il castoro e più in particolare la sua coda, in quanto si immerge nell’acqua e poteva pertanto essere assimilata a un pesce. Diversi pontefici orientali l’avevano vietata alle popolazioni germaniche convertite da san Bonifacio, vescovo di Magonza. Ma nel XIII secolo il teologo Alberto Magno di Bollstadt constatava che la coda di castoro veniva ancora consumata e tre secoli più tardi il grande trattato culinario tedesco di Marx Rumpolt ne forniva una ricetta dettagliata. Sembra che il consumo del castoro sia stato uno degli “errori dei Latini” alla base dello scisma fra Oriente ed Occidente!
Altra sacca di resistenza dei “carnisti” della prima ora era il consumo di grasso animale. Dall’XI secolo il regolamento di Ulrich de Zell consentiva ai monaci cluniacensi di Hirsau di confezionare le fave con il lardo, a condizione di aggiungere il lardo dopo la cottura. Un testo satirico del XII secolo mette in scena un abate goloso che autorizza il grasso di prosciutto, a condizione che questo venga fatto sciogliere così da poterlo bere senza mangiarlo.
Nel XIV secolo alcuni benedettini sostenevano che la carne tritata finemente perdesse la sua natura “carnosa”. Pierre Bohier, prelato originario della Linguadoca, definisce questo composto tritato con il nome di mortarolium, giustamente uno dei piatti più desiderati nel refettorio nei pressi di Maguelone. Utilizzare la carne tritata come ripieno era un altro mezzo per “alterarne” la natura. Viene quasi naturale accostare queste pratiche alle nostre abitudini, azzardando persino l’ipotesi che i monaci benedettini possano essere gli inventori dell’hamburger moderno.
Ma è proprio durante i due ultimi secoli del Medioevo, quelli in cui il consumo della carne raggiunge livelli abbastanza elevati, che i fautori della carne in ambito monastico si fanno sentire. Ne sono testimonianza le inchieste condotte nei conventi benedettini che evidenziano come i monaci frequentassero l’infermeria per consumarvi carne a piacimento.
Uno dei più grandi dottori del tempo, Arnaud de Villeneuve, iniziò verso il 1301-1305 a difendere un ordine famoso per il rigore e la fedeltà alla Quaresima: quello dei Certosini. Egli affermava che prescrivere la carne non serve a nulla quando il malato ha soprattutto bisogno di medicine; che la carne produce un eccesso di calore che può essere nocivo alla guarigione; che la carne restaura i muscoli ma non la forza vitale per intero; che le Sacre Scritture non presentano la carne come un alimento sano e necessario; e, infine – argomento tratto dall’esperienza -. che i certosini vivono a lungo!

Quaresime golose

L’offensiva carnivora contro la Quaresima sembra tuttavia marginale in una società in cui i fedeli rispettavano globalmente le prescrizioni dell’astinenza. Le raccolte di ricette culinarie erano spesso organizzate in due parti, una per i giorni di “carne” e l’altra per i giorni di “pesce”. Siamo di fronte, in questo caso, a una doppia cucina che procedeva per sostituzione: il “brodetto di cannella al pesce, descritto dalla editio princeps del Viander (intorno al 1486), di Guillaume Tiret, si differenziava dallo stesso piatto “di carne” per la presenza del pesce e per la purea di piselli al posto del brodo addensato con fegati di pollame.
In certi casi si parla di piatti “contraffatti”, alla maniera delle preparazioni interamente vegetali dei monasteri buddisti, che imitano cioè la forma, la consistenza e il colore della carne. È il caso della Gioncata d’amandola del grande cuoco italiano Maestro Martino da Como che, intorno al 1460, elabora una ricetta a base di latte di mandorla per evitare di utilizzare prodotti caseari e latticini durante la Quaresima.
I cuochi che praticavano la loro arte presso la tavola dell’abate, svilupparono una raffinata e sottile cucina di astinenza. Essa sapeva adattarsi alla diversità delle prescrizioni emanate dalla Chiesa. Una raccolta culinaria inglese distingue, a fianco di una Tart for Lenton (a Quaresima), che prevedeva due pesci e frutta fresca o secca, una Tart on Ember Day, altrimenti detta per i quattro tempi, che comportava del “buon formaggio grasso”, uova e burro, tutti prodotti vietati durante la Quaresima.
Per questo tipo di esigenza viene pertanto organizzata quella che il professore Florent Quellier ha definito un “magro gastronomico”, tale da suscitare la riprovazione dei moralisti nella misura in cui esso rappresenta una ricerca del piacere – precisamente proprio ciò che l’astinenza voleva evitare.

Alle origini della Riforma

Jean Louis Flandrin (1931-2001), pioniere della storia dell’alimentazione, ritiene che la riforma protestante debba parte del suo successo alla soppressione della Quaresima. Nel XVI secolo, dopo la critica di Lutero all’ipocrita frugalità della Chiesa romana, le infrazioni alla Quaresima si moltiplicano di pari passo con la progressione delle idee protestanti. Nella terra in cui si produce e si gusta il burro, si può all’improvviso mangiarne tutto l’anno, abbandonando così succedanei costosi come l’olio. Ma le esenzioni dalla Quaresima erano già numerose prima della Riforma, come attestano gli archivi della penitenzieria apostolica: il papato, che di solito concedeva solo qualche dispensa “di digiuno” in tempo di Quaresima, verso la metà del XV secolo ne concede già una ventina l’anno e per le sole diocesi tedesche.
Il Ci nous dit, una raccolta di exempla morali di Gerard Blangez del 1310-1330, individua almeno sette categorie suscettibili di poter beneficiare dell’esenzione della Quaresima: i ragazzi (minori di vent’anni) e i vecchi (più di 60 anni), i lavoratori poveri che non posseggono terre, casa o risorse per assicurare la sussistenza di moglie e figli, i medicanti, le donne incinte, i malati che hanno perduto l’appetito e il sonno, i matti, che non sono in grado di sapere quello che fanno. A conti fatti, le esenzioni interessavano una parte notevole della popolazione.
Queste esenzioni individuali non erano evidentemente sufficienti alle esigenze dei fedeli. Gruppi interi le richiedevano direttamente al papa: le suppliche registrate dalla penitenzieria pontificia riguardavano la sfera domestica del potente di turno, di una parrocchia o una intera signoria.
Alla vigilia della Riforma, la tipologia dei giorni di astinenza era diventata molto complessa. I conti dei rifornimenti, redatti in abbondanza in Inghilterra, costituiscono un buon indicatore di questo stato di cose: mentre quelli del XIV secolo conoscevano appena tre tipi di giorni (grasso, di pesce e di uova), in un conto del 1461 se ne contano almeno cinque, poiché si sono aggiunti alcuni giorni che propongono unicamente uova e latticini e soprattutto giorni misti, in cui si consuma carne e pesce (a volte anche con l’aggiunta di latticini). Sebbene ancora minoritari, questi tipi di giorni dal profilo alimentare meno stretti, si ripartiscono su quasi tutta la settimana, poiché essi rappresentano il 20% del lunedì, il 22% del mercoledì, il 10% del giovedì, il 35% del sabato e il 6% della domenica. Non si è molto lontani dalle “alimentazioni particolari” che evoca il sociologo Claude Fischer per la società contemporanea.
Di fronte ai protestanti che giudicavano le esigenze cattoliche troppo rigorose in materia di astinenza, la controriforma coincide con un certo irrigidimento. L’austero Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal 1564 al 1584, ricorda i vincoli dell’astinenza dalla carne e dal grasso, che iniziavano a partire dal mercoledì delle Ceneri. Malati, infermi e vecchi potevano essere esentati, a patto di mangiare carne solo nel segreto delle loro case, approvvigionandosi presso i rari macellai autorizzati e contentandosi del vitello, una carne considerata molto sana. Il modello Borromeo ha, di fatto, influenzato profondamente il cattolicesimo postridentino.
Il rapporto fra queste norme e la realtà dei fatti finì comunque per allentarsi. Il rigore dei giorni magri suscitò ben presto l’incomprensione dei filosofi dell’Illuminismo. Voltaire, nel suo Commentaire sur le livre Des délits et des peines, racconta un episodio del 1629: a Saint Claude, nella regione del Giura, il gentiluomo Claude Guillon, fu accusato di aver mangiato carne di vitello e di cavallo durante la Quaresima e decapitato sulla pubblica piazza.
Da allora il mondo e la cristianità sono profondamente cambiati. L’ultimo retaggio delle prescrizioni in merito all’astinenza dalla carne è contenuto nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992. Il quinto e ultimo dei precetti fondamentali recita infatti: «Osserverai il digiuno prescritto e parimenti l’astinenza», stabilendo l’obbligatorietà di osservare il digiuno ecclesiastico e l’astinenza dalle carni nei giorni prescritti dalla Chiesa.