CALCIO E SCHIAVITÙ NEL QATAR

di Michele Strazza -

Gli immigrati stranieri occupati nei lavori per il mondiale di calcio del 2022 vengono tenuti in condizioni di schiavitù e costretti a vivere in pessime condizioni igieniche. Una situazione comune a tutti i ricchissimi Paesi arabi del Golfo, dove città e infrastrutture sono realizzate con manodopera straniera sottopagata, priva di diritti e legata al datore di lavoro dall’istituto islamico del “kafala”, che prevede la tutela padronale nei confronti degli “esseri inferiori”.

 

Emblem_of_QatarIl recente scandalo che ha coinvolto la federazione internazionale di calcio ha riportato l’attenzione sul Qatar. Il mondiale di calcio del 2022 si dovrebbe tenere, infatti, in questo Stato arabo del Golfo e pare che in tale scelta non siano rimasti estranei episodi di corruzione.
Stato ricchissimo, il Qatar ospita la più grande base americana della regione e la più famosa televisione del mondo arabo (al Jazeera). Ora su questa piccola nazione si è concentrata l’attenzione delle organizzazioni che lottano per i diritti umani. Il Qatar è infatti stato accusato di tenere in condizioni di schiavitù migliaia di immigrati stranieri occupati nei lavori di infrastrutturazione ed edificazione degli impianti sportivi.
Sul The Guardian di Londra sono più volte apparsi articoli giornalistici su nepalesi, indiani e lavoratori di altra nazionalità sfruttati e ridotti quasi in schiavitù, con la sottrazione del passaporto, e costretti a vivere in capannoni super affollati e in pessime condizioni igieniche. Il giornale inglese ha poi rivelato che, soltanto tra il 4 giugno e l’8 agosto 2013, ben 44 nepalesi sono deceduti per le proibitive condizioni di vita e di lavoro cui erano sottoposti. Più della metà sono periti per infarto e infortuni di lavoro. Altre 30 immigrati, sempre del Nepal, hanno poi pensato bene di rifugiarsi nella propria ambasciata per poter rientrare in patria.

Tra il 2011 e il 2014, inoltre, oltre 700 lavoratori indiani sono morti nei lavori per il mondiale di calcio i cui stadi stanno nascendo sul sangue degli immigrati. La stessa confederazione internazionale dei sindacati, la Trade Union Confederation, ha lanciato l’allarme per 4.000 lavoratori che rischierebbero di morire se le loro condizioni non dovessero avere un netto miglioramento. L’organismo internazionale ha precisato che, su circa mezzo milione di lavoratori immigrati provenienti dall’India, Nepal e Sri Lanka, quasi 600 all’anno potrebbero morire qualora non si prendessero seri provvedimenti.
Le maestranze sono costrette a lavorare, senza alcuna tutela sindacale e in mancanza delle più elementari misure di sicurezza, in turni massacranti di 12 ore e con quasi 50 gradi di temperatura esterna. Senza contare il cibo e l’acqua razionati, nonché la paga taglieggiata per pagare le agenzie di somministrazione della manodopera.
La legislazione del Qatar consente tutto questo, demandando al datore di lavoro un potere a dir poco assoluto sui propri dipendenti i quali diventano ostaggi nelle sue mani, con il passaporto confiscato e nell’impossibilità di lasciare il Paese. Dietro gli stadi in costruzione sono nati quartieri-dormitorio dove si vive fino a 16 persone in stanze di 9 metri quadrati senza finestre. Mancano addirittura le scarpe e i pasti consistono in due porzioni di riso al giorno. Tutto questo in una nazione arricchitasi grazie al petrolio, con una popolazione di solo un milione e mezzo di abitanti e con il reddito medio tra i più alti al mondo.

Il mercato degli schiavi nello Yemen, illustrazione del XIII secolo

Il mercato degli schiavi nello Yemen, illustrazione del XIII secolo

Ma il Qatar non è l’unico dei Paesi arabi del Golfo ad avere problemi di diritti umani per i propri lavoratori immigrati. Situazioni simili si riscontrano in Arabia Saudita, nel Bahrein, negli Emirati arabi uniti, in Kuwait e in Oman. Gli ultimi dati indicano quasi 18 milioni di lavoratori immigrati negli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo su una popolazione totale di circa 42 milioni. In Qatar, ad esempio, su una forza lavoro nel 2008 pari a 1,3 milioni di persone, il 95% era straniero.
In questi Stati, ricchissimi grazie al petrolio, città e infrastrutture sono state create con una manodopera straniera sottopagata, priva di tutela e legata al proprio datore di lavoro dall’istituto del “kafala” (garanzia). Quest’ultimo è basato su un sistema di reclutamento assurdo nel quale l’ufficio di collocamento del Paese d’origine trova un datore di lavoro disposto a sponsorizzare il lavoratore, che a sua volta non può più cambiare posto di lavoro per tutta la durata del contratto.
Il “kafala” esprime, in realtà, un concetto preso a prestito dall’Islam, una specie di tutela per gli esseri inferiori che ora varrebbe per la donna e per gli immigrati. Originariamente richiamava “una tutela o una delega di autorità parentale”, applicabile ai figli minorenni abbandonati fino al raggiungimento della maggiore età.
Tale concetto viene dunque esteso ai lavoratori immigrati nei Paesi del Golfo che, per poter entrare e lavorare, hanno bisogno di un tutore o uno “sponsor”. Tale procedura sarebbe dovuta servire ad evitare l’ingresso in questi Stati di migranti senza lavoro. In realtà essa ha prodotto enormi distorsioni nella tutela dei diritti umani, con il lavoratore ridotto in schiavitù del proprio “kafil” il quale è autorizzato a ritirargli il passaporto e a rilasciargli una carta di lavoro con funzioni di carta di identità. Anche semplici operazioni come affittare un appartamento o aprire un conto in una banca non possono essere effettuate senza l’autorizzazione del “kafil” il quale può, a sua totale discrezione, porre fine al proprio patronato e rispedire l’immigrato nel Paese d’origine.

Naturalmente non sono mancate proteste, scioperi e, a volte, veri e propri tumulti. Nel 2007 un tassista pachistano a Dubai, negli Emirati Arabi, si è dato fuoco davanti all’ufficio che non lo autorizzava a rientrare in patria per il funerale della madre. Nel 2008 in Bahrain un migliaio di lavoratori avevano proclamato uno sciopero contro le condizioni disumane di lavoro, ottenendo soltanto di essere rinchiusi nel cantiere senza acqua e senza cibo. Sempre nel 2008 centinaia di lavoratori edili sono scesi in sciopero a Dubai per protestare contro i bassi salari e le precarie condizioni di alloggio, inclusa la mancanza di rifornimento di acqua potabile sicura. In Kuwait, a febbraio, invece, circa 1.300 lavoratrici del Bangladesh impiegate in un’impresa di pulizia privata erano scese in sciopero contro il mancato pagamento dei loro salari e le precarie condizioni di vita. Una delle categorie più schiavizzate nei Paesi arabi è proprio quella delle lavoratrici domestiche, sfruttate e sottoposte ad ogni genere di abusi, compreso, spesso, quelli sessuali.
Le organizzazioni non governative internazionali più volte hanno sollecitato un deciso intervento sulla violazione dei diritti umani nei Paesi arabi del Golfo. Amnesty International, come già aveva fatto precedentemente, nei suoi ultimi rapporti annuali, trattando dell’Arabia Saudita, ha posto l’accento, sui lavoratori immigrati «vittime di sfruttamento ed abusi». Per il Kuwait e il Qatar si è puntato l’indice sul sistema del “kafala” come fonte di discriminazione. Anche Human Rights Watch ha chiesto all’Associazione per la cooperazione regionale del sud-est asiatico di premere sui propri governi per costringere gli Stati arabi al rispetto dei diritti umani.
Ultimamente, anche con la diminuzione del flusso di immigrati, provocato dalle politiche restrittive dei singoli Stati, qualche piccolo miglioramento viene registrato. Il Bahrain, ad esempio, ha abolito le sue norme sulle sponsorizzazioni che, come ha riconosciuto lo stesso ministro del lavoro, «non differivano molto dalla schiavitù». Ma molto resta ancora da fare e quanto sta accadendo in Qatar sui lavori per il mondiale lo dimostra.

Per saperne di più

Allam A., Arabie Saoudite. Le code de l’esclavage, “Financial Times”, 28 giugno 2012.
Amnesty International, Rapporto annuale 2008, Torino, EGA ed., 2008.
Amnesty International, Rapporto Annuale 2013, Roma, Fandango ed., 2013.
L’Onu chiede ai Paesi del Golfo rispetto per i diritti di donne e immigrati, in “AsiaNews.it”, 20 aprile 2010, http://www.asianews.it/notizie-it/L%E2%80%99Onu-chiede-ai-Paesi-del-Golfo-rispetto-per-i-diritti-di-donne-e-immigrati-18187.html
Morin R., Qatar. Au royaume de l’esclavage, “The New York Times”, 19 aprile 2013.
Repubblica”, 26 settembre 2013, 24 gennaio 2014.
“The Guardian”, 25 settembre 2013, 17 novembre 2013, 21 novembre 2013, 1 dicembre 2013.
Pays du Golfe: «la kafala» ou l’esclavage des temps modernes http://www.agoravox.fr/actualites/international/article/pays-du-golfe-la-kafala-ou-l-112565