BRASILE, DALLE DITTATURE ALLA DEMOCRAZIA

di Max Trimurti -

Le vicende storiche del Paese carioca aiutano a comprendere gli sviluppi vissuti negli ultimi cento anni: dalle dittature di Vargas e dei militari fino alla riconquista della democrazia nel 1984 e all’avvento di Bolsonaro.

Non si può parlare dell’America latina senza parlare del Brasile e, tuttavia, quest’ultimo non solo è un paese latino, ma una nazione atlantica descritta per la prima volta da Pero Vaz de Caminha, lo scrittore di bordo di Pedro Alvarez Cabral, il suo scopritore. Il 1° aprile dell’anno 1500 la flotta portoghese getta l’ancora in una baia che i navigatori prendono per le coste di un’isola, così bella da pensare che potesse trattarsi del paradiso terrestre. “Essi hanno la pelle scura, leggermente ramata” scrive Caminha nella lettera al re Manuele I, descrivendo gli abitanti del luogo. “Ben fatti, essi vanno in giro nudi, senza alcuna copertura e sembra che vi mostrino le loro parti intime come vi mostrerebbero il loro volto. Sotto questo aspetto essi sono di una grande innocenza”.

La singolarità brasiliana

Per circa trenta anni si insedia una pacifica convivenza fra gli indigeni e i navigatori, in maggioranza portoghesi. I nuovi venuti acquistano il legname (pau brasil) – che fornisce una bella tinta rossa, apprezzata dalle dame delle corti europee – in cambio di oggetti di bigiotteria. I Portoghesi non hanno nulla in comune con i conquistadores spagnoli, come Cortes o Pizarro, arrivati dalla Spagna per saccheggiare oro e argento in Messico e Perù.
Il Portogallo, paese poco popolato, si rende conto solo dopo trent’anni dalla “scoperta” del Brasile, che occorre colonizzare questa immensa terra per evitare che possa cadere nelle mani dei Francesi. Il Brasile è diviso a quel tempo in Capitanie, che formano una fragile struttura di villaggi lungo tutta la costa atlantica. I primi coloni sono, secondo la regola nelle colonizzazioni, gli “indesiderabili del regno”, prigionieri graziati in cambio del loro esilio. Si verifica così una situazione che metterà fine al pacifico rapporto fra Europei e indigeni: questi ultimi inizieranno a considerare i nuovi venuti non più come commercianti ma come degli invasori.
In un libro molto interessante, Radici del Brasile, di Sergio Buarque de Hollanda, l’autore vede, a suo dire, nello “spirito indolente” dei Portoghesi, nella loro assenza “d’orgoglio di razza” e nel loro “spirito d’avventura”, le ragioni della singolarità brasiliana. “Quello che i Portoghesi venivano a cercare era, evidentemente, la ricchezza, ma una ricchezza che richiedeva audacia e non lavoro in senso lato”. Ed è così che il Brasile, tenuto conto che i nativi non erano idonei a lavori pesanti, diviene uno straordinario importatore di schiavi africani. Per ben tre secoli, dai tre ai cinque milioni di Africani – le statistiche risultano poco affidabili – attraversano l’Atlantico. Essi lavorano nei campi di canna da zucchero del Pernambuco, quindi nelle miniere del Minas Gerais, dove viene scoperto l’oro nel 1695. Verrà quindi il boom del caffè, agli inizi del XIX secolo, a Rio de Janeiro e San Paolo, prima che sia infine proclamata l’abolizione della schiavitù, il 13 maggio 1888, data tardiva nel panorama mondiale e che fa del Brasile l’ultimo stato schiavista del mondo occidentale.
La fine della schiavitù è anche quella dell’Impero brasiliano. L’ultimo sovrano, Dom Pedro II, era riuscito, non senza difficoltà, a fare del Brasile, animato da diverse forze centrifughe, una nazione coerente, popolata da buoni patrioti, che parlavano il portoghese. La fine dell’impero apre la via a una repubblica fragile e, soprattutto, clientelare.

Dalle dittature alla democrazia

I tempi moderni si aprono con una Repubblica in gravi difficoltà, che negli anni ‘30 sfocia nel regime autoritario di Getulio Vargas. Nel suo Estado Novo dominano il centralismo venato di populismo (reazione al sempre latente pericolo di forze centrifughe e al pericolo comunista) e un’organizzazione sociale corporativa di vaga reminiscenza fascista (peraltro di moda all’epoca). Il presidenzialismo muscoloso e lo statalismo quasi religioso degli anni di Vargas incideranno sensibilmente sul costume e sul pensiero dei Brasiliani. Dopo il suicidio di Vargas, nel 1955 arriva Juscelino Kubitchek de Oliveira, un uomo allegro che sembra dare inizio a un’epoca più felice. Nasce la bossa nova e una nuova capitale nel cuore del paese, Brasilia. Ma il presidente è anche uno statista deciso che persegue un’industrializzazione a marce forzate, dimenticando forse l’essenziale: una riforma agraria a favore dei contadini poveri.
In un clima di guerra fredda, alimentato dalla rivoluzione castrista a Cuba, le forze armate cacciano poi un presidente molto a sinistra, Joao Belchior Marques Goulart, e si impadroniscono del potere acclamati dalla folla: è il 31 marzo 1964. La dittatura militare durerà 21 anni e sarà con i militari che il paese abbandonerà il centralismo e lo statalismo. La giunta al potere, attraverso la stampa di carta moneta, finanzia una crescita artificiale e lascia in eredità alla democrazia, ritornata al potere nel 1985, un’inflazione del 221,7%, un debito pubblico di 102 miliardi di dollari [1], molte opere pubbliche parzialmente incompiute, come in Amazzonia, un certo numero di esiliati e accuse di torture e di scomparsi (un fenomeno decisamente minimo e per molti aspetti diverso – circa 300 fra morti e desaparecidos [2] – se confrontato con i paesi confinanti di lingua spagnola). Va sottolineato che il Brasile, sin dalla sua fondazione, ha sofferto di un debito pubblico notevole, effetto dei debiti contratti per molti anni dai Portoghesi con gli Inglesi, che ne garantivano la sopravvivenza.
Dopo tre anni di democrazia, i malanni del Brasile moderno vengono consolidati da una costituzione assurda, promulgata nel 1988. Essa presenta una lista interminabile di interessi particolari da proteggere, sacralizza il corporativismo dell’epoca Vargas, sancisce l’impiego a vita dei funzionari e il carattere pubblico della imprese nazionali statali. La carta offre, infine, agli stati federali una parte accresciuta delle risorse nazionali a danno del governo federale, le cui competenze, peraltro, non cambiano. Quest’ultimo conserva, in tal modo, la responsabilità del sistema di pensioni dei funzionari statali, così generoso che le pensioni superano spesso i salari in attività. In definitiva, lo stato federale diventa una macchina generatrice di debito pubblico [3].
Da allora, il Brasile conta solo tre tentativi di sbloccare il paese dal peso di questa costituzione calamitosa: il primo viene condotto da Fernando Alfonso Collor de Mello, il secondo da Fernando Henrique Cardoso, il terzo, che sembra già partito male, da Jair Messias Bolsonaro.
Collor de Mello si presenta alle elezioni presidenziali del 1989 come un Kennedy brasiliano che tutti sperano che possa portare il paese nel primo mondo. Di fronte a lui il sindacalista Luis Inacio Lula da Silva, capo del partito dei lavoratori (PT), è associato al “comunismo agonizzante” proprio nel momento in cui viene a cadere il muro di Berlino. Collor de Mello vince con il 53,04 % dei voti. Dal giorno successivo alla nomina, 16 marzo 1990, egli ordina la confisca per 18 mesi di tutti i conti correnti e di risparmio dei privati, il cui ammontare è superiore ai 50 mila novos cruzados, ovvero all’incirca 600 mila dollari USA. Ben 60 milioni di Brasiliani vengono colpiti da questo provvedimento su una popolazione di 146 milioni di persone [4]. Nella pratica, viene congelato e ritirato dalla circolazione l’equivalente dell’80% della massa monetaria. “Collor ha tagliato l’ossigeno all’inflazione” dichiara un economista, un fenomeno che aveva raggiunto il tasso stratosferico del 2737%.
Per Collor de Mello non si tratta di un furto – il denaro verrà restituito con gli interessi – ma di un’arma di guerra economica che aveva lo scopo di ridurre la dimensione del settore pubblico, l’ampiezza dei suoi deficit e di aprire il paese alla concorrenza straniera. Egli prevedeva un programma di de-statalizzazione che avrebbe comportato la privatizzazione di una sessantina di imprese pubbliche. Noi non conosceremo mai gli effetti del provvedimento, in quanto Collor de Mello, accusato di aver sviato circa 300 milioni di dollari di denaro pubblico, sarà costretto alle dimissioni nel dicembre 1992 per sfuggire ad una procedura di messa in stato d’accusa.
Itamar Augusto Cautiero Franco, vecchio giovanotto socialista, succede a Collor de Mello. Nel 1993 nomina Fernando Henrique Cardoso, un sociologo socialdemocratico, ministro delle finanze. Quest’ultimo riassume immediatamente il suo programma in questo concetto: “Il Brasile ha tre problemi: l’inflazione, l’inflazione e l’inflazione”. Nel dicembre dello stesso anno lancia il “Piano Real”, che si basa sul controllo della massa monetaria e sul ritorno alla parità di bilancio. Cardoso si presenta alle elezioni presidenziali del 3 ottobre 1994 e vince al primo turno con il 54,3% dei voti.
Il suo piano ha instaurato una nuova moneta – il Real – ed è riuscito a far abbassare l’inflazione da 2492% nel 1994 al 77,4% del 1995. Questo successo aiuta politicamente Cardoso. Durante i suoi due mandati l’inflazione non supererà mai il 10%. Al di là del miglioramento della congiuntura, il presidente vuole anche finirla con i monopoli dello Stato e aprire il paese alla globalizzazione. Lula lo etichetta come “neoliberale”. “Io sono un socialdemocratico – risponde il presidente – ma tutto il mondo sa bene che il mercato ha vinto di fronte allo Stato”.
Come al tempo di Vargas, lo Stato rimane l’agente dello sviluppo industriale. Forte della sua probità e di una maggioranza del 75% in Parlamento, che gli consente di emendare la Costituzione, Cardoso riprende il programma di Collor de mello, Lo sfruttamento del petrolio viene privatizzato (ma non l’azienda di stato Petrobras), come anche la Compagnia del Rio Doce, gigante dell’estrazione del ferro, e insieme a loro anche Telebras, che deteneva il monopolio della telefonia. Il suo secondo mandato sarà segnato dalla crisi, che scuote il Messico nel 1994, l’Asia nel 1997, la Russia nel 1998. Il Brasile viene indicato come la successiva pedina in questo domino della crisi: Cardoso tenta di resistere, ma il mercato vince la partita e il Real perde il 35% del suo valore, prima di stabilizzarsi e facendo nascere la speranza di una ripresa. Il presidente Cardoso, purtroppo, non dispone più né dei mezzi, nei dei tempi coerenti con le sue ambizioni.

Il nuovo Brasile, da Lula a Bolsonaro

Agora é Lula, “adesso tocca a Lula” proclamano gli slogan della sinistra. Il 6 ottobre 2002 Inacio “Lula” da Silva viene eletto presidente, fatto che da solo scatena una tempesta finanziaria. Ma Lula”, colui che propugna il “Nuovo Brasile”, si presenta come un rivoluzionario ammansito. Afferma che “non ha l’intenzione di nazionalizzare nuovamente le imprese privatizzate”. 50 milioni di Brasiliani sono poveri e 30 milioni di essi vivono nell’indigenza. Questa è la vera urgenza e Lula darà loro sussidi (in linea con il populismo di Vargas), ma effettuerà pochi investimenti durevoli nella Sanità, nell’Educazione o nelle Infrastrutture. Nel corso dei suoi due mandati, mentre la ripresa mondiale gioca a favore del Brasile, Lula pratica invece la “vecchia politica” del clientelismo e della corruzione, tanto da venire arrestato e condannato. Lula è un personaggio per certi aspetti carismatico, che da simbolo del proletariato si è trasformato in un ricco borghese con un patrimonio fra i più cospicui del Sudamerica.
Con Dilma Vana Rousseff, che succede a Lula nel 2010 per continuarne la politica, il Brasile va incontro a una nuova congiuntura economica sfavorevole. Contestata e riconfermata, dopo aver vinto al ballottaggio nelle elezioni generali del 2014, Rousseff si caratterizza per una presidenza fonte di scandali e di irregolarità. Il 12 maggio 2016 il Senato, con 55 voti contro 22, sancisce la sospensione della Rousseff dalla carica di Presidente (prevista dalla Costituzione brasiliana fino a 180 giorni). Le funzioni vengono assunte da suo vice. Il 31 agosto 2016 il Senato decreta la destituzione della Rousseff, alla quale succede, come presidente di transizione, Michel Elias Temer Lulia. Infine, il 28 ottobre 2018 viene eletto l’attuale presidente Jair Messias Bolsonaro con il 55, 13% dei suffragi, che incarna la terza versione della volontà di sbloccare il Brasile dalle sue pastoie costituzionali.
Bolsonaro fa sue le tre priorità dei Brasiliani: ritorno alla sicurezza, lotta alla corruzione, liberazione dell’economia. Numerosi elettori danno fiducia a questo capitano della riserva, deputato federale dal 1991, che si oppone alla sinistra e che si circonda di due personaggi che incarnano la speranza di un vero rinnovamento: il giudice Sergio Fernando Moro, campione dell’Operazione Lava Jato (“lavaggio express”), legato alla Petrobras, e l’economista Paulo Roberto Nunes Guedes, vecchio Chicago boys, deciso a dare una svolta liberale all’economia. Quest’ultimo porta a Bolsonaro l’appoggio degli imprenditori e degli ambienti degli affari, temperando, in tal modo, le inquietudini suscitate dal nuovo presidente con l’assunzione nel suo staff di numerosi militari e con le sue lodi al periodo della dittatura militare. Guedes si impegna nella riforma delle pensioni, che impegnano il 45% del bilancio federale. Ma Bolsonaro, animato dall’illusione che la sua vittoria elettorale lo dispensi dall’annodare alleanze per rinforzare la maggioranza, si trasforma ben presto in un freno per le riforme che lui stesso vorrebbe introdurre. Pone interrogativi sulla Giustizia, si scontra con i presidenti della Camera dei Deputati e del Senato, essenziali per far avanzare l’agenda presidenziale. Le riforme Guedes – fiscalità, funzionari statali, spese pubbliche – sono in panne e la popolarità del presidente comincia a calare. Apparentemente isolato, influenzato dagli evangelici e da alcuni gruppi di estrema destra, il presidente, come quello americano, nega inizialmente la gravità del coronavirus, provocando le dimissioni di due ministri della Sanità in meno di un mese. Inoltre, attaccando la polizia federale che avanza sospetti di corruzione per i suoi due figli, Bolsonaro contribuisce ad accelerare le dimissioni di Sergio Moro, che si trasforma immediatamente in un pericoloso e potenziale concorrente per le elezioni del 2022. Va peraltro sottolineato, per dovere di obiettività, che la popolarità di questo presidente, sebbene in calo, rimane sempre importante e soprattutto nettamente al di sopra dei suoi potenziali avversari. Una recentissima indagine demoscopica ha rivelato, infatti, che il presidente Bolsonaro gode ancora del 31% del favore popolare e che il suo avversario storico, Lula, raggiunge a fatica il 17%, mentre il ministro Moro, che per molti appariva il suo concorrente più pericoloso, si sta dimostrando un vero flop, raccogliendo poco più del 10% dei consensi. In prospettiva, sulla base della situazione attuale, appare alquanto improbabile che questo presidente, per molti aspetti imprevedibile, possa riportare il Brasile sul cammino di una economia liberalizzata, condizione essenziale per il futuro della nazione e per una società pacifica e prospera.

Note
[1] Estatisticas do seculo XX, IBGE, Rio de Janeiro, 2006; La storia del debito dello stato brasiliano ha, in effetti, una genesi molto antica e risale alla nascita dello stesso Brasile. Di fatto, per il riconoscimento dell’indipendenza della colonia nel 1822, il Portogallo pretende in cambio, come indennizzo, l’ammontare del suo debito con l’Inghilterra, pari a 3 miliardi di sterline. Quindi, ad essere più precisi, il debito estero brasiliano ha radici ben più lontane di quello lasciato dai militare nel 1986.
[2] Va precisato che il numero dei veri desaparecidos in Brasile dovrebbe essere ridotto ancora di molto, in quanto, quando veniva catturato ed ucciso un guerrigliero, questi sistematicamente usava un nome di “battaglia” e non il suo vero nome. Conseguentemente, le autorità, a seguito del decesso, diramavano un comunicato ufficiale nel quale veniva reso noto il personaggio ucciso, con il suo nome di battaglia, invitando i parenti a reclamarne il corpo. Di norma, i parenti non si recavano a reclamare le spoglie, forse per non svelare la sua vera identità, oppure per paura: il morto non reclamato, regolarmente sepolto con il suo nome di battaglia, entrava in questo modo a far parte, statisticamente, del numero dei desaparecidos.
[3] Divida externa brasileira, Banco Central do Brasil, Brasilia, 1997.
[4]) https://seculoXX.ibge.gov.br/populacionais-sociais-politicas e culturais/ busca por palavra chave/populaçao