BASHAR EL ASSAD, EREDE SUO MALGRADO
di Massimo Iacopi -
Bashar el Assad, secondo figlio del Leone di Damasco Hafez el Assad, nasce nel 1965. Non predestinato a dirigere il paese, l’attuale presidente-dittatore guida la Siria da quindici anni, gli ultimi quattro insanguinati dalla guerra civile. Qualsiasi cosa si possa pensare, il personaggio si sta rivelando un elemento imprescindibile nel futuro assetto mediorientale.
Henry Kissinger, che nella sua carriera diplomatica aveva passato diverse ore a negoziare con Hafez el Assad, aveva denominato questi il “Bismarck del Medio Oriente”, aggiungendo a riguardo: “Nel Vicino Oriente, nessuna guerra si può fare senza l’Egitto, ma nessuna pace risulta possibile senza la Siria”. Il 10 giugno 2000, l’uomo che aveva regnato con un pugno di ferro a Damasco fin dal 1970 si spegne prima di aver potuto vedere suo figlio Bashar Hafez con l’investitura ufficiale alla successione da parte del partito Baath (Partito della Resurrezione Araba). Nella fretta e nell’urgenza del momento, però, il Parlamento siriano si riunisce qualche ora dopo la morte di Hafez per modificare la Costituzione e consentire a Bashar, che non ha ancora l’età richiesta (40 anni) di presentarsi come candidato alla presidenza. In tal modo, un mese esatto dopo, all’età di 34 anni, Bashar viene eletto Presidente della Repubblica attraverso un referendum in è il solo candidato alla carica.
Dalla medicina all’esercito
Nato a Damasco l’11 settembre 1965, Bashar è il cadetto di una famiglia di quattro figli e una figlia. Il figlio maggiore è Bassel o Basil che, molto presto, viene iniziato dal padre al futuro mestiere di dirigente. Il suo temperamento di fuoco e il suo atteggiamento marziale lasciano presagire una possibile successione nella continuità di Hafez, anche se con molto genio politico in meno. Bashar, da parte sua, sembra più riservato. Lo si ritiene abulico e appassionato di nuove tecnologie. Bashar segue una normale scolarità negli istituti della capitale siriana e ottiene il diploma liceale dopo la frequenza presso i fratelli Maristi di Damasco. Sebbene sia francofono, sarà nella lingua inglese che egli effettuerà la sua specializzazione di oftalmologo a Londra dopo avere avuto successo, al secondo tentativo, nel concorso per l’ingresso al molto prestigioso centro consacrato alla oftalmologia del St. Mary Hospital.
Il suo avvenire sembra definito: ad attenderlo, una bella carriera medica, probabilmente in Europa. Ciò nonostante, il 21 gennaio 1994 suo fratello Bassel, successore designato di Hafez, muore in un incidente d’auto sulla strada per l’aeroporto di Damasco. Bashar deve tornare in fretta in Siria ed entrare all’Accademia Militare di Homs, da cui esce nel 1999 con il grado di Colonnello.
Alla morte del padre, al rampollo di casa Assad occorre una sposa. Dal 1996 frequenta ufficialmente Asma Akhras, una siriana di dieci anni più giovane, proveniente dalla grande borghesia d’affari sunnita, incontrata per la prima volta a Londra. Asma è di nazionalità britannica e possiede un impressionante curriculum: diplomata in economia, in finanza, in informatica e in letteratura francese nel Queen’s College e nel King’s College. A 25 anni, la ragazza trova lavoro in un hedge fund della Deutsch Bank, quindi al Dipartimento Fusioni ed Acquisizioni della JP Morgan a Londra, quindi a New York. La donna rinuncia a un master all’Università di Harvard per sposare ufficialmente Bashar il 31 dicembre 2000, sei mesi dopo la sua elezione alla guida della Siria.
Pro Baathista?
Bashar non è un militante storico del partito Baath, poiché appartiene a un’altra generazione, che non ha conosciuto le grandi lotte dell’arabismo. Dal momento del suo arrivo al potere egli vuole dare un’immagine di un capo di Stato accessibile e moderno. Non essendo in condizioni di controllare il partito Baath egli lo duplica tentando di neutralizzarlo. Meno di due anni dopo, i tre quarti dei responsabili politici, amministrativi e militari – fra le quali alcune figure storiche del regime come Alì Haydar, padre delle forze speciali siriane, ostile alla successione “dinastica” – vengono allontanati con molta “tranquillità”. Ormai il presidente si circonda di consiglieri e di uomini d’affari. L’appartenenza al Baath non costituisce più una conditio sine qua non per esercitare alte funzioni in seno allo Stato.
In ogni caso, risultava necessario prendersi cura e gestire il partito con il suo milione e mezzo di iscritti. In cambio di una approvazione del nuovo corso economico da parte del Baath, il presidente si impegna a rinunciare a ogni modifica dell’art. 8 della Costituzione, che recita: “Il partito Baath è colui che dirige lo stato e la società”. Nella pratica, il presidente citerà sempre di meno, nei suoi discorsi, il partito, mettendo in opera alcuni contropoteri e distribuendo nuove funzioni a persone fidate.
Il grande cantiere a cui lavora Bashar è quello della modernizzazione dell’economia siriana. Rinunciando a poco a poco al socialismo rigido del Baath e incoraggiando gli investimenti, il nuovo presidente si appoggia a una comunicazione esterna di cui sembra dominare i fondamenti. La sua sposa Asma si impegna nella promozione di progetti rurali, in iniziative nei confronti della gioventù, appoggiandosi su associazioni che riescono a emarginare i sindacati e le “polverose” organizzazioni derivate dal Baath. Una nuova classe dirigente irrompe sulla scena politica, mescolando tranquillità e metodi di management anglosassoni a un “forsennato” clientelismo.
Apertura e chiusura
Contrariamente alle caricature che vengono fatte sul “clan Assad”, nella realtà sono in maggioranza gli ambienti d’affari della grande borghesia sunnita ad approfittare di questa apertura per accumulare fortune colossali. Gli Alawiti continuano, in linea di massima, a conservare le loro posizioni a livello amministrativo e militare, a eccezione di Mohammed e Rami Makhluf, rispettivamente zio e cugino di Bashar, alla testa di un impero finanziario e delle telecomunicazioni (Syriatel). Subito dopo l’arrivo al potere di Bashar in Siria vengono create dodici banche private, mentre l’apertura nel 2009 della Borsa di Damasco consente di realizzare guadagni defiscalizzati. Il boom immobiliare è massiccio in determinati quartieri di Damasco, che cresce come la vicina Beirut, miscuglio di architetture audaci e di nuovi modi di consumazione: supermercati all’americana, ristoranti e fast-food. Tutto ciò contribuisce a devitalizzare il partito Baath, mentre ai servizi informazioni e di sicurezza, che impiegano in Siria non meno di 65.000 persone, vengono attribuite nuove funzioni di regolazione sociale: servire da intermediari e garanti per l’appalto dei contratti pubblici e privati. La corruzione, denunciata nei discorsi ufficiali, assume, a quel punto, una dimensione massiccia.
Sul piano politico, la chiusura rimane completa. Tuttavia, dal suo accesso al potere Bashar apre le paratie di una forma di dialogo con la società civile. Per qualche mese fioriscono i muntada, forum che consentono riunioni e discussioni inedite in Siria. Ancora una volta si tratta di un’operazione per cortocircuitare il partito Baath. Quella che molto rapidamente e impropriamente verrà chiamata “primavera di Damasco” durerà appena qualche mese. Essa permetterà a una società civile essenzialmente urbana e appartenente alla classe media di gustare le gioie di dibattiti quasi liberi nel corso di un periodo euforico, nel quale anche certuni oppositori, che pure erano stati in prigione, sembrano confidare.
A partire dall’estate del 2000 si constata ovunque in Siria il fiorire di dibattiti sul concetto di “società civile”, riportata nella stampa araba e nella stampa ufficiale del paese, in particolar modo nel quotidiano Al Thawra. La tolleranza manifestata dalle autorità di fronte a queste attività, oltre a un certo numero di atti politici forti come il decreto presidenziale che annunciava la liberazione di centinaia di prigionieri politici o la decisione di chiudere la lugubre prigione di Mezzé, hanno consentito l’ampliamento dei circoli di discussione ovunque nelle città siriane.
Tutto questo non è proceduto, però, senza ostacoli e problemi. In tale contesto, Ryad Seyf, alla guida di un gruppo che cercava di creare una struttura più efficace, avanza una richiesta di autorizzazione per la creazione di un’associazione. L’azione sarà un fallimento e le minacce da parte dei servizi di sicurezza lo porteranno a fare marcia indietro e ad accontentarsi della messa in opera di un circolo di discussione battezzato “Dialogo nazionale”. Diversi avvenimenti contribuiranno a richiudere il coperchio sulle libertà proprio perché, a quel punto, si aprono tre fronti: l’inizio della seconda intifada e la politica di Ariel Sharon in Israele; il Libano, dal quale Israele si ritira nel maggio 2000 e che Damasco vorrebbe controllare; infine, la fronda dei conservatori, spesso vicini al partito Baath.
L’8 febbraio 2001 il tono cambia brutalmente. In un’intervista al quotidiano Asharq Al-Awsat, in occasione delle manovre militari, Bashar el Assad dichiara che l’unità nazionale, la politica di suo padre, l’esercito e il partito sono soggetti che non possono essere criticati. Da parte sua, il vice presidente siriano Abdel Halim Khaddam dichiara: “Lo Stato non permetterà che la Siria si trasformi in un’altra Algeria”. Nel settembre 2001 Ryad Seyf viene arrestato e condannato a cinque anni di prigione, mentre i suoi fiorenti affari nel settore tessile vanno in rovina. “Quello che il potere aveva in testa, era di cambiare l’atmosfera generale in modo che i capitali occidentali potessero venire in Siria per mettere fine all’attuale crisi sociale ed economica. Le riforme avevano lo scopo di dare alla popolazione la possibilità di lavorare e vivere meglio, pur mantenendo la presa del potere su di essa” dichiarerà Michel Kilo, un siriano cristiano, oppositore storico e oggi membro del Consiglio Nazionale siriano in esilio.
La svolta della guerra in Irak
Sul piano internazionale, la Siria collabora dall’ottobre 2001 con la CIA nelle inchieste su Al Qaida e sulle persone legate all’organizzazione. In determinati casi la stessa Siria ha anche ritardato l’arresto di sospetti al fine di poter seguire le loro conversazioni e i loro spostamenti, in modo da riferirne agli USA. Con l’invasione dell’Irak nel 2003, però, la Siria diventa uno dei passaggi obbligati dei jihadisti che si vogliono recare in quel Paese: Bashar saprà monetizzare la geografia del suo paese, vendendo la cooperazione o la permissività dei suoi servizi di informazioni al miglior offerente. Tuttavia, l’insediamento di un potere filo americano vicino alle sue frontiere diventerà l’inquietudine principale di Damasco e Bashar, da questo punto di vista, non ha tutti i torti. “L’effetto domino”, atteso dai neo conservatori americani sulla regione, significa una condanna, a brevissimo termine, anche del regime di Damasco.
Il Libano, occupato dalla Siria dal 1990, rappresenta l’anello debole del sistema. Il suo presidente fino al 2007, il generale Emile Lahud, è una pedina di Damasco, che consente il bloccaggio politico ed economico del Paese dei cedri da parte del suo vicino siriano. Il 14 febbraio 2005 il primo ministro Rafiq al Hariri muore in un attentato in pieno centro a Beirut. Gli Occidentali accusano Damasco e l’emozione raggiunge il suo culmine, mentre enormi manifestazioni hanno luogo nella capitale libanese. Bashar è costretto a cedere e annuncia per l’aprile 2005 la ritirata del suo esercito dal Libano, pur continuando a controllare il sistema politico grazie agli Hezbollah, una delle principali forze politiche del Paese dei cedri. La crisi ha comunque lasciato delle tracce: il generale Ghazi Kanaan, vecchio capo dei servizi di informazione siriani nel Libano per circa 20 anni, viene ritrovato “suicidato” qualche mese più tardi nel suo ufficio. Il vice presidente Khaddam, che è stato lo spietato proconsole del Libano per trent’anni, si rifugia a Parigi e si mette al servizio dei Sauditi, indicando Bashar come responsabile dell’attentato. Egli propugna – non senza sollevare ampi sorrisi – una democratizzazione del regime.
Per contro, la luna di miele sembra durare con il vicino turco (Recep Tayipp Erdogan chiama Bashar il “mio piccolo fratello”), come anche con Doha e Ryad i cui investimenti si rovesciano massicciamente in Siria. Lo sceicco del Qatar si fa costruire una magnifica villa a ovest di Damasco sui contrafforti dell’Anti Libano e sarà proprio per insistenza dell’emiro del Qatar che Nicolas Sarkozy nel 2008 deciderà di invitare Bashar el Assad a Parigi, prendendo il pretesto dal lancio dell’Unione per il Mediterraneo.
2011: il numero e lo spazio contro Bashar
Occorre partire da questo dato fondamentale e cioè che il sistema in funzione a Damasco ha dovuto affrontare fin dalla sua origine due problemi principali: quello del numero e quello dello spazio, poiché la religione alawita ne fa un rappresentante delle minoranze e la geografia della Siria e dei suoi confini rende di difficile controllo il Paese. La contestazione che scoppia nel 2011, nella immediatezza degli sconvolgimenti accaduti in Tunisia, in Egitto e in Libia, vede i due elementi ritorcersi contro il potere.
Proveniente da una comunità minoritaria, gli Alawiti e governando con altri gruppi minoritari, ivi compresa la borghesia sunnita, lo Stato baathista manca di una base sufficiente ampia. Bashar è quindi sistematicamente costretto a negoziare, quando ciò è possibile, oppure a colpire brutalmente nella maggior parte dei casi. Questa fragilità congenita è radicata nella storia della stabilizzazione dello Stato siriano nel corso degli anni ’60, dopo due decenni di colpi di Stato e di quasi anarchia. In effetti, dopo diversi anni di governo, la contestazione avrebbe potuto sorgere ovunque: fomentata da vecchi capi del regime emarginati come dalla società civile eccitata e desiderosa di riforme democratiche. Nella pratica essa è arrivata dalla maggior parte degli scontenti, le popolazioni dei piccoli borghi rurali e delle campagne, veramente sacrificati sull’altare delle riforme economiche e tutto questo, paradossalmente, dove il partito Baath aveva raccolto i suoi successi e aveva raggiunto il potere basandosi proprio su questa base rurale. Sarà proprio la Siria periferica, quella dei borghi trascurati dallo Stato e sacrificati a vantaggio delle metropoli, che si solleverà con grande brutalità e sarà l’altrettanta grande brutalità della repressione che scatenerà la rivolta.
Lo spazio siriano pone problemi di controllo: la Siria è forse il Paese del Medio Oriente peggio configurato per quanto riguarda le frontiere, derivate dalle decisione del periodo dei Mandati. Oltre ai contrasti fra la stretta regione del litorale mediterraneo e la maggioranza desertica (badia) ma ricca in risorse, la situazione della maggior parte delle regioni siriane è quella di vie di passaggio e di logiche continuità spaziali, dove lo Stato tenta, come meglio può, di delimitare e di captare. Questo è il caso sia a sud che a est verso la Giordania e l’Irak, per lo spazio del tribalismo transfrontaliero. Stessa logica in direzione della Turchia: la confisca di Alessandretta (Iskenderun), assegnata dalla Francia alla Turchia nel 1938, consente ad Ankara il controllo delle creste, mentre andando verso est si incontrano le principali regioni curde della Siria. Quanto al caos irakeno, che era stata per certi aspetti un’assicurazione sulla vita per la Siria, esso ora si ritorce contro Damasco. Dalle prime settimane Damasco perde il controllo di tutte le sue frontiere, ad eccezione di quella con il Libano, ma in questo caso dovrà fare assegnamento sull’intervento degli Hezbollah libanesi nella primavera del 2013 per mantenerne il controllo.
Nonostante tutto Bashar resiste
Bashar el Assad che si voleva ormai condannato a cedere lo scettro, è tuttora in sella dopo quattro anni di guerra. Nel giugno 2014, egli viene rieletto con l’88,7% dei voti in occasione della prima elezione multipartitica della Siria contemporanea, un risultato certamente sorprendente. Il famoso articolo 8 è stato emendato, mettendo fine al monopolio del partito Baath sullo stato, proprio in occasione della promulgazione della nuova costituzione del 2012. Bashar, come anche la Siria, sono usciti trasfigurati dal conflitto. Tutto sta accadendo come se la Siria utile, ancora controllata dal governo siriano (30% del territorio, 60% della popolazione), quasi coincida con il progetto politico degli anni 2000, quello di una Siria più urbana, litorale e la cui attività economica risulta, al prezzo di incredibili acrobazie, ancora assicurata. La repressione spietata esercitata sui ribelli ha costretto, in qualche modo, la scelta fra quelli che accettano l’ordine di Damasco, o se lo augurano per paura degli islamisti sunniti, e quelli che preferiscono il “disordine giusto”.
Lo stesso Bashar è rimasto rigido, capace di resistere alle minacce che in seno al potere lo hanno messo sotto tiro. Il suo avvenire è assicurato? Lui stesso ha recentemente dichiarato che “lascerà il potere qualora la situazione lo richiedesse”. Con l’intervento russo, egli ha ormai la certezza di non finire miseramente come Gheddafi.
Quelli che continuano, nonostante tutto, a richiedere la sua partenza prima di qualsiasi transizione politica, non hanno capito che la sua legittimità deriva proprio da questa violenza. Questo significa ignorare il Medio Oriente e soprattutto dimenticare che questa posizione rigida e la repressione implacabile che ne è conseguita, non c’erano effettivamente agli inizi di tutta la vicenda. Lo stesso Bashar el Assad è stato contestato agli inizi della crisi all’interno del suo stesso schieramento alawita con questo slogan: “Bashar ha la sua clinica, Maher el Assad (suo fratello cadetto) al potere!”. Ma egli ha saputo ottenere l’unanimità nell’ambito delle forze armate (solo 5 generali su 1200 hanno fatto defezione), imponendo scelte radicali. Da tutto questo il presidente siriano ne è uscito rafforzato, in posizione di zaim, di capo militare e capo della repressione. Più che mai dopo l’intervento russo, egli risulta la chiave di volta dell’edificio politico-militare siriano, fatto di vassallaggi e di feudalità. La sua estromissione dal potere significherebbe un crollo totale di quello che resta dello Stato siriano con conseguenze catastrofiche e devastanti sull’insieme della società siriana. Di fatto, una cosa sembra certa: non è scontato che gli Occidentali abbiano un piano B e che, soprattutto, lo stesso possa essere applicato senza il consenso di Vladimir Putin, alleato di Bashar. In ogni caso anche se la cacciata di Bashar fosse auspicabile, il crollo dello stato siriano significherebbe riprodurre in terra siriana una seconda Libia alle porte dell’Europa e comporterebbe, senza dubbio, movimenti migratori senza precedenti, decisamente molto più ampi di quelli già sotto gli occhi di tutti.
Per saperne di più
Pichon Federic, Syrie, pourquoi l’Occident s’est trompé, Edition du Rocher, 2014.
Galletti Mirella, Storia della Siria contemporanea. Popoli, istituzioni e cultura, Bompiani, 2006.
Quirico Domenico, Piccinin Da Prata Pier, Il paese del male. 152 giorni in ostaggio in Siria, Trabaseleghe, Neri Pozza, 2013.
Iannuzzi Roberto, Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale, Castelvecchi, 2014.