ASCESA E CADUTA DEL CALIFFATO OTTOMANO

di Max Trimurti -

Il 3 marzo 1924, la nuova repubblica turca di Mustafà Kemal abolisce il Califfato, un’istituzione solo apparentemente vuota di significato. Dal XVI secolo, infatti, il Sultano ottomano si era progressivamente appropriato del titolo di califfo per affermare la sua autorità sui musulmani sunniti.

Abdulmecid II, l'ultimo califfo

Abdulmecid II, l’ultimo califfo

Nell’agosto del 1944 muore a Parigi l’ultimo rappresentante delle più antiche dinastie del mondo, quella degli Ottomani, che aveva cominciato a far parlare di sé nel nord-ovest dell’Anatolia sei secoli prima. Abdulmecid II non aveva mai portato il titolo di Sultano, ma, per qualche mese, dal novembre 1922 al marzo 1924, quello di califfo. Per una ironia della storia, la dinastia dei sultani turchi che aveva portato il colpo di grazia alla vecchia istituzione araba del califfato, prima di rivestirne tutti gli orpelli a partire dalla fine del XVI secolo, concludeva la sua corsa nell’impotenza di un magistero religioso che non era stato mai attagliato a essa.

Lo smembramento ottomano

Il Trattato di Sevres, firmato nel 1920, non sancisce solamente la sconfitta militare dell’Impero ottomano, ma anche il suo smembramento. Le province arabe, perdute dalla fine della Guerra Mondiale, passano ufficialmente sotto la protezione delle Potenze mandatarie, britannica e francese. Le province centrali dell’Anatolia – dove avevano coabitato a suo tempo Turchi, Curdi, Greci e Armeni – cadono nella guerra civile, da cui il generale Mustafà Kemal (il futuro Ataturk) uscirà vincitore due anni più tardi. Alla testa della Grande Assemblea nazionale della Turchia, costituita nell’aprile 1920, Mustafà Kemal intende incarnare il governo provvisorio di uno Stato turco del futuro. Ma l’Impero ottomano conservava ancora un’esistenza istituzionale sotto l’egida di Mehemet (Maometto) VI, il suo ultimo sultano-califfo, portato sul trono alla vigilia della capitolazione nel 1918 e che ha cercato, con l’appoggio degli eserciti stranieri di occupazione, di reprimere l’insurrezione kemalista.
La vittoria dei nazionalisti turchi condanna definitivamente il vecchio regime: la Grande Assemblea nazionale abolisce il sultanato il 1° novembre 1922, costringendo il sultano all’esilio. La soppressione del potere sovrano del sultano, della sua capacità di “comandare e vietare” e l’esilio del suo ultimo titolare segnano la fine ufficiale dell’Impero ottomano. Mustafà Kemal, in quanto Presidente della Grande Assemblea nazionale, è ormai il solo capo di uno Stato che troverà la sua forma istituzionale definitiva un anno più tardi, con la proclamazione della Repubblica il 29 ottobre 1923.
L’abolizione del sultanato ottomano aveva comunque lasciato in vita un’ultima reliquia del vecchio regime: il riconoscimento della dignità di Califfo dei musulmani al capo della dinastia ottomana. E’ in questo contesto che un cugino del sultano-califfo viene proclamato califfo dalla Grande Assemblea nazionale con il nome di Abdulmecid II.
Che una assemblea eletta, rappresentante solo una delle nazioni della comunità universale dei musulmani, potesse avere l’autorità e il diritto di designare l’autorità legale e religiosa suprema dell’islam, è uno dei tanti aspetti sorprendenti. Questa iniziativa anticipava in qualche modo le velleità future dei “Congressi musulmani”, assemblee di circostanza riunite a diverse riprese a partire dal 1926 e incaricate di definire una posizione comune ai musulmani sunniti (l’Organizzazione della Conferenza islamica, sorta a Gedda nel 1969, ne è l’erede).
La volontà di Mustafà Kemal di risparmiare, almeno provvisoriamente l’istituzione califfale, derivava indubbiamente dalla prudenza, in un contesto estremamente sensibile di un cambiamento di regime. Ma essa non resisterà al nodo di intrighi e di speranze di restaurazione imperiale che il nuovo califfo ottomano, sebbene privo di potere effettivo, aveva concentrato intorno alla sua persona. Il 3 marzo 1924, quattro mesi dopo la proclamazione della Repubblica della Turchia, la Grande Assemblea nazionale assesta il colpo di grazia al vecchio regime con l’abolizione del califfato e l’esilio in Francia del suo ultimo titolare.
La decisione non provoca alcun sussulto in tutta la nuova repubblica turca, che si incammina ormai sull’esperienza – del tutto inedita in un paese musulmano – della laicità. Il legittimismo ottomano finisce per trovare sempre meno sostenitori anche nell’ambito delle vecchie province arabe dell’impero, preoccupate e scosse da più di mezzo secolo di un nazionalismo rivale, quale quello dei Giovani Turchi. Occorre andare più a est nel mondo musulmano, lontano dalle frontiere del vecchio Impero ottomano, nell’Impero Britannico delle Indie, per cercare gli ultimi fedeli del califfato ottomano: dal 1919, il “movimento per il califfato” aveva innalzato la figura del sultano califfo di Istanbul come bandiera universale della resistenza contro i Britannici, un punto di convergenza per le aspirazioni all’indipendenza nazionale per i musulmani come d’altronde, in un ultimo paradosso, per gli Indù. L’abolizione del marzo 1924 risulterà fatale al loro movimento.

Le pretese dello sceriffo della Mecca

Per carenza di sostenitori di una restaurazione del califfato nelle mani degli Ottomani, il Vicino Oriente non risultava a corto di pretendenti alla funzione ormai vacante. Il 5 marzo 1924, appena due giorni dopo la decisione della Grande Assemblea nazionale turca, lo Sceriffo della Mecca, Hussein ibn Alì, che aveva guidato la rivolta araba contro gli Ottomani del 1916 prima di assumere il titolo di re dell’Hedjaz e di Re dei Paesi Arabi, si autoproclama califfo. La sua dignità di sceriffo (discendente del Profeta) e la sua sovranità sui luoghi Santi dell’islam (La Mecca e Medina) lo qualificavano in effetti per una funzione che il diritto sunnita riservava in linea di principio a un membro della tribù araba dei Kuraysh (la tribù del Profeta) e la cui dimensione universale si manifestava in modo chiaro solo nella protezione del pellegrinaggio dei musulmani.
Lo sceriffo della Mecca aveva tutte le ragioni nel pensare di essere il candidato ideale al califfato: dalla fine del XIX secolo i pensatori riformisti arabi, specialmente in Egitto, speravano di riportare nell’ambito arabo una carica che i Turchi avevano espropriato. Ma nel corso del mese di marzo del 1924 la moschea università Al-Azhar del Cairo, che aveva acquisito un’autorità morale indiscussa nell’islam sunnita e dove erano stai formati i riformisti più in vista, ben lungi dallo schierarsi a fianco del re dell’Hedjaz, lancia l’iniziativa di un “Congresso del califfato” incaricato di designare il nuovo califfo dei musulmani.
Il re d’Egitto Fuad I era fra i candidati alla carica, con tanta più fretta dal momento che i suoi poteri reali risultavano limitati dal nuovo contesto della monarchia costituzionale. Purtroppo, l’ambizione califfale dello sceriffo Hussein, che la stampa britannica riferiva aver avuto l’appoggio dell’ultimo sultano-califfo Mehemet VI, non resisterà alla sconfitta nell’Hedjaz di fronte alle forze di Ibn Saud. Suo figlio, Alì ibn Hussein, ripiegato in Transgiordania, riprende per sé il titolo “vuoto” di re dell’Hedjaz, ma rinuncia nel contempo al califfato.
Quanto al Congresso del califfato, riunito finalmente al Cairo nel maggio 1926 non prevedeva più all’ordine del giorno la designazione di un nuovo califfo. La conquista dell’Hedjaz e dei luoghi Santi dell’islam da parte di Ibn Saud aveva troppo profondamente cambiato i dati di base. Dal giugno 1926 un “congresso del mondo musulmano” viene riunito dai sauditi alla Mecca, con in agenda l’organizzazione del pellegrinaggio. Sarà pertanto dei Saud, che non potevano pretendere alla dignità del califfato (in quanto estranei alla tribù dei Kuraysh) e che concepiranno il regno wahabita d’Arabia come soluzione alternativa regionale alla sua abolizione universale, il compito degli ultimi affossatori del califfato.

Il momento degli Ottomani

Gli avvenimenti del 1294 dimostrano ampiamente che il califfato universale – abolito dalla Grande Assemblea nazionale turca dopo essere sopravvissuto nominalmente nella persona di Abdulmecid II – non era una semplice reliquia del passato. Purtroppo, il fatto che per diversi secoli un sultano turco abbia rivestito la dignità eminentemente araba del califfo non è sta un fatto insignificante.
Dalla fine del XIV secolo i capi della dinastia ottomana, nata appena un secolo prima ai confini dell’Impero bizantino, mostravano nella loro corrispondenza come nelle loro iscrizioni ufficiali i titoli di sultano (sovrano nella tradizione islamica) e di Khan (nella tradizione turco-mongola), espressione della loro ambizione imperiale. L’istituzione del califfo era indubbiamente sopravvissuta alla conquista di Baghdad da parte dei Mongoli nel 1258. Il suo titolare, membro della famiglia abbaside sfuggito al massacro e rifugiato al Cairo, non esercitava alcuna autorità legale teorica, sebbene risultasse utile ai suoi protettori: i sultani mamelucchi ne traevano una legittimità senza pari nell’islam sunnita. Inoltre, la conquista di Costantinopoli da parte del sultano Maometto II nel 1453 non modifica nulla nella situazione, se non il fatto di portare agli Ottomani una eclatante conferma del loro ruolo di campioni del Jihad nel mondo islamico.
La conquista del Cairo nel 1517, immediatamente seguita dalla sottomissione dei luoghi Santi della Mecca e di Medina, non cambierà nulla, contrariamente ad una leggenda ancora diffusa. Come ha dimostrato lo storico Gilles Veinstein, la sconfitta dei Mamelucchi, protettori del califfo abbaside rifugiato in Egitto, non ha comportato un trasferimento automatico del califfato al sultano ottomano. Gli ultimi rappresentanti della venerabile dinastia dei califfi abbasidi, che aveva regnato sull’Impero dell’islam dal 750, sono stati semplicemente, come tanti altri notabili del Cairo, esiliati ad Istanbul, dove nel XVI secolo si perdono le loro tracce.
La leggenda del trasferimento del califfato nel 1517 non è peraltro senza fondamento. Forte della nuova sovranità sulle grandi città e i luoghi Santi dell’islam sunnita, il sultano ottomano Solimano il Magnifico viene insignito dai suoi cortigiani del titolo di “imam” e di “califfo del suo tempo” al momento stesso in cui si esauriva la dinastia dei califfi abbasidi. Ma già nel XV secolo, altri sovrani, desiderosi di dare maggior prestigio alla loro condizione e di sottolineare la natura carismatica, se non addirittura divina del loro potere, se ne erano impossessati.
Anche i Mamelucchi – difensori di una stretta separazione dei ruoli fra il sultano, detentore del potere effettivo e il califfo abbaside – avevano rispettato questa regola. In un’epoca in cui la spartizione etnica delle funzioni sociali era ancora un dato di fatto nella cultura politica islamica, nessuno avrebbe compreso che un comandante turco, per quanto prestigioso, potesse pretendere di esercitare l’autorità legale e il magistero religioso universale che il diritto sunnita riservava ai membri della tribù araba del Profeta. A Istanbul, nel XVI secolo, i titoli di imam e di califfo non significavano ancora il califfato.

La svolta del 1640

Qualcosa accade nel 1640, quando viene effettuata la cerimonia di investitura del debole sultano Ibrahim I, durante la quale al sultano viene imposto il leggendario turbante di Omar ibn al Khattab (589-644), il secondo successore del Profeta, che conferisce la dignità di vero califfo. La riconquista di Bagdad, avvenuta due anni prima, da parte del sultano ottomano Murad IV in persona, dopo 15 anni di dominazione safavide, aveva contribuito a rispolverare il titolo di califfo. L’uso nel cerimoniale ottomano di altre reliquie sacre, come il famoso mantello (burda) del Profeta, che avevano rivestito a suo tempo i califfi abbasidi, conferma il cambiamento avvenuto nei decenni seguenti.
Ma occorrerà attendere il 1774 per capirne pienamente il senso. In quell’anno, il Trattato di Kutchuk-Kaynardji pone fine alla guerra che opponeva da sei anni i russi agli ottomani, sancendo la fine del Khanato di Crimea, per breve tempo indipendente prima di passare sotto il controllo russo. Per la prima volta una terra dell’islam veniva ceduta dall’Impero a una potenza cristiana. Il Trattato prevedeva nondimeno che i musulmani di Crimea sarebbero rimasti sotto l’autorità religiosa e legale (in materia di statuto personale) del sovrano di Istanbul. In effetti, il Trattato di Kutchuk-Kaynardji è il primo documento ufficiale dove il sultano ottomano viene qualificato come “califfo di quelli che professano l’unicità divina”. Il titolo rinnova, in tal modo, perlomeno sul territorio della Crimea, l’autorità che esercitavano i califfi abbasidi ai tempi dei sultani mamelucchi, quella di semplici garanti dell’ortodossia sunnita sotto la protezione di un potere politico senza alcun potere effettivo, anche se teoricamente ne fondavano la legittimità agli occhi dei musulmani.
La pretesa degli Ottomani al califfato non risale pertanto, come si è sempre creduto, al glorioso regno di Solimano il Magnifico, ma a due secoli più tardi, al termine di un processo confuso, in un periodo di indebolimento dell’autorità personale dell’autorità personale del sultano e, più grave ancora, nel momento in cui l’Impero regredisce territorialmente. La rivendicazione tardiva del califfato da parte degli Ottomani, destinata a compensare attraverso un aumento di prestigio religioso una autorità politica declinante, illustra paradossalmente la perdita di valore dell’istituzione califfale, fortemente svuotata del suo senso iniziale, tanto che nessuno troverà da ridire sul fatto che un sultano turco, per di più in difficoltà, se ne sia impossessato.

Abdulhamid II, protettore dei musulmani

Il prudente temporaneo mantenimento del califfato da parte di Mustafà Kemal dopo l’abolizione del sultanato ottomano nel novembre 1922 e quindi la sua solenne abolizione nel marzo 1924 non avrebbero avuto la stessa eco e non sarebbero state neanche necessarie, se in quel momento avesse conservato il senso ammorbidito e la lontana autorità che gli aveva attribuito il Trattato di pace di Kutchuk-Kaynardji del 1774. Ma, nel frattempo, l’Impero ottomano aveva conosciuto una potente ondata di riforme (i Tanzimat) destinati a restaurare l’autorità dello Stato e l’efficacia delle forze Armate. Esso aveva conosciuto, in particolare, il regno di Abdulhamid II (sultano dal 1876 al 1909), impegnato in una ambiziosa politica panislamica che mirava, all’interno, a ricondurre gli sciiti all’ortodossia sunnita e all’esterno a fare del sultano-califfo il campione universale dell’islam. Il regno di Abduhamid II, rovesciato dal governo dei Giovani Turchi a seguito della rivoluzione del 1908, si consacrerà l’indebolimento definitivo del sultanato, ma contribuirà a dare in extremis al califfato ottomano un prestigio senza precedenti, dopo che i suoi antenati, qualche secolo prima, avevano iniziato ad attribuirsene le funzioni.