AOI: L’OGGETTIVAZIONE DELLA DONNA AFRICANA E IL MADAMATO
di Renzo Paternoster -
Così come gli altri colonialismi, anche quello italiano non solo fu fortemente razzista, ma anche sessista, riducendo l’immagine della donna africana alle dimensioni del mero erotismo. Tanto da legittimare in un primo tempo la convivenza more uxorio con le colonizzate.
♦
Dal 1869 al 1947 l’Italia ha il suo “posto” in Africa: Eritrea, Somalia, Etiopia e più tardi in Libia. È un piccolo impero se comparato a quelli creati da Francia e Regno Unito, anche povero di risorse naturali. L’Italia si è accontentata, sperando di convertire i nuovi territori in colonie agricole, per dirottare il flusso degli emigrati italiani dall’America all’Africa.
La grande “avventura” coloniale italiana, come quelle delle altre potenze europee, è impregnata di razzismo e sessismo, retaggio culturale presente all’epoca in Europa, sostenuto da una certa teoria scientifica: «Il discorso razzista, tra Otto e Novecento, ha considerato il corpo come l’elemento centrale su cui fondare molte delle argomentazioni, spiegazioni, esemplificazioni, volte a costituire un nucleo di conoscenze con presunzione scientifica che avrebbe avuto poi fortissime implicazioni sulle condotte individuali, collettive e istituzionali nei confronti delle razze altre. Analogie significative le troviamo con gli sviluppi del sessismo, laddove nel controllo della donna non soltanto il corpo assume una valenza centrale in riferimento a norme, pratiche socio-culturali, sessuali ecc.., ma anche una valenza di tipo (pseudo) scientifico, messa in luce da studi di carattere anatomico e fisiologico tesi a rintracciare i segni naturali della sua debolezza e della sua subalternità» [A. Vaccarelli, “Faccetta nera, bell’abissina. Rappresentazioni della donna africana nel razzismo coloniale e nel fascismo”, in A. Cagnolati, F. Pinto Minerva, S. Ulivieri (a cura di), Le frontiere del corpo. Metamorfosi e mutamenti, ETS, Pisa 2013, p.1].
Le donne africane si ritrovano doppiamente in una condizione di duplice discriminazione: sono “negre” e sono “femmine”. Dunque, se al nero africano, considerato più vicino alla scimmia che all’essere umano, devono essere riservati incarichi che richiedono come unica abilità la forza fisica, alle donne nere spettano solo compiti domestici e sessuali. Nasce così il mito della “venere nera”, una narrazione che oggettivizza la donna africana e crea una idealizzazione di esse come figure erotiche iper-sessualizzate. Dunque le africane sono solo un corpo da conquistare al pari della loro terra. La sua civilizzazione passa anche attraverso il sesso del vero maschio, che è solo “bianco”.
Per invogliare i giovani a partire volontari per la conquista africana, la retorica coloniale si caricò di immagini ipersessualizzate delle donne africane, presentate appunto come disponibili e sottomesse. Tutto il colonialismo europeo era imbevuto di questa visione femminilizzata dell’Africa, facendo divenire i nuovi possedimenti luogo di conquista maschile per eccellenza, l’eden ideale per i maschi bianchi. Anne McClintock ha utilizzato il termine provocatorio di «porno-tropic» per evocare una nozione coloniale feticista che ha erotizzato tutto lo spazio di questi “nuovi mondi”, considerati emblema di occasioni carnali, «una fantastica lanterna magica della mente su cui l’Europa ha proiettato i suoi proibiti desideri sessuali» [A. McClintock, Imperial Leather: Race, Gender, and Sexuality in the Colonial Contest, Routledge, New York 1995, p. 22].
Per affrontare l’avventura italiana in Africa si cerca di costruire consenso popolare attorno allo sforzo colonizzatore. Così, accanto al onore nazionale, al prestigio della propria Patria, al dovere di civilizzare popoli considerati più vicino alle scimmie, si aggiunge una presunta prosperità fisica e carnale delle donne africane, le quali aspettavano l’uomo bianco “a braccia aperte” (secondo il pensiero dell’epoca purtroppo “a gambe aperte”) e alle quali gli italiani potevano avere accesso per diritto esclusivo di conquista.
Un contributo fondamentale alla propaganda coloniale italiana per l’edificazione del consenso popolare all’impresa africana è dato soprattutto dalle canzonette e dalla fotografia. Questi mezzi di comunicazione si dimostrano particolarmente efficaci alla propaganda coloniale, specialmente perché raggiungono un vasto numero di persone, anche quelle con un basso livello di istruzione. Molte di questi strumenti di propaganda erotizzano lo spazio africano.
Riguardo alle fotografie ci sono due tipi di tipologie: una di tipo antropologico documentaristico, per fissarne gli stereotipi (ad esempio sottocultura, povertà), con la pretesa di avvalorare la legittimità della conquista; un’altra per sollecitare le fantasie erotiche degli italiani e disegnare le colonie come eden per maschi, per facilitare l’arruolamento volontario. Grazie a queste fotografie, moltissime delle quali di donne completamente nude e ritratte in pose lascive, si afferma lo stereotipo della “venere nera”. La donna africana è dunque rappresentata come oggetto sessuale da conquistare, al pari delle loro terre.
Se le fotografie lasciavano intendere una certa disponibilità sessuale delle donne africane, le vignette riprodotte in cartoline non lasciavano dubbi alla chiara mercificazione delle native.
Anche le canzonette sono servite a trasmettere l’ideale coloniale. Rispetto alle fotografie e alle cartoline, queste raggiungevano un pubblico più ampio. La potenza comunicativa delle canzonette è rimasta tutt’oggi ancora forte, basti pensare alla famosa “Faccetta nera” ancora oggi impressa nella cultura e nei nostalgici.
Scrive Ennio Flaiano nel 1935: «Influenza delle canzonette sull’arruolamento coloniale. Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale» [E. Flaiano, Aethiopia. Appunti per una canzonetta, a cura di A. Longoni, Adelphi, Milano 2020, p. 5].
Oltre all’ideale patriottico, le canzonette hanno impresso nell’immaginario maschile la “benevolenza” delle africane, disponibili a farsi “civilizzare”, anche sessualmente, dai vigorosi italiani. Nel testo del brano “Faccetta nera”, ad esempio, è chiaro l’intento colonizzatore anche delle donne africane: «Moretta che sei schiava tra le schiave / Vedrai come in un sogno tante navi / E un tricolore sventolar per te […] La legge nostra è schiavitù d’amore».
La potenza delle canzonette è compresa più tardi dal regime fascista che inizia a controllarne i testi, come fece proprio con la canzonetta “Faccetta nera”.
L’avventura coloniale italiana, al pari di quelle delle altre potenze occidentali, è dunque impregnata di connotazioni sessuali, ma più delle altre rappresenta la sessualizzazione dell’impresa con caratteristiche italiane specifiche Infatti, dopo la conquista dell’Eritrea, lo sfruttamento della sessualità delle donne africane si trasforma addirittura in legge.
In alcuni territori dell’Eritrea esisteva l’antica usanza locale del contratto matrimoniale a termine. Si chiama Dämòz ed era un “matrimonio per mercede” a tempo determinato, ovvero un vero e proprio contratto coniugale con una reciprocità di obblighi: l’uomo acquista la moglie con l’obbligo di “mantenerla”, provvedendo alla prole avuta anche dopo la risoluzione del contratto; la donna avrebbe dovuto garantire le cure domestiche e le “cure” sessuali. In caso di morte dell’uomo, la moglie non avrebbe avuto alcun diritto di eredità, a differenza dei figli concepiti durante il periodo contrattuale che avrebbero potuto rivendicare una parte della proprietà del padre.
I colonizzatori italiani acquisiscono questa antica usanza trasformandola in una forma di concubinaggio, garantendosi un libero accesso a prestazioni domestiche e sessuali. Ovviamente gli obblighi di questa unione more uxorio da parte maschile non sono rispettati e il disimpegno è totale e il colonizzatore italiano si sente esentato da qualsiasi obbligo giuridico e morale, soprattutto al momento del rientro in patria. Ovviamente anche il mantenimento dei figli avuti cessa alla partenza del colono.
Gli italiani chiamano questo “adeguamento” al diritto consuetudinario locale, peraltro come riferito non riconosciuto in tutto il territorio eritreo, “madamato”, che è una «forma distorta del vocabolo con cui in Italia, soprattutto in Piemonte, è di solito indicata la signora di alto lignaggio; un’espressione che, nella sua applicazione coloniale, innegabilmente assume una particolare connotazione denigratoria» [S. Palma, L’Italia coloniale, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 48].
L’estensione italiana dell’istituto del Dämòz è anche trasferita nelle altre colonie italiane, dove questa unione more uxorio non era neppure contemplata in qualche usanza locale. Nella Libia italiana è chiamato “mabruchismo”, in relazione al termine locale mabrukah, che indica la donna.
Il madamato e il mabruchismo permettono dunque al colono italiano di acquistare dai genitori una bambina, o al massimo un’adolescente, le quali sono costrette a convivere more uxorio sino alla risoluzione del contratto. Questa relazione a tempo è tollerata dai comandi militari italiani dell’epoca liberale perché vantaggiosa per il buon andamento della vita in colonia: oltre a rivestire una soluzione al fenomeno incontrollato della prostituzione, eliminando così eventuali problemi di ordine sanitario, garantisce assistenza domestica al colono, oltre al “sostegno “sessuale. Molti italiani, con pochi soldi, acquistano il proprio «animalino docile», come chiama Indro Montanelli la sua madama.
Pur non mancando esempi di assunzione di piena responsabilità da parte degli italiani nei confronti dei propri figli meticci, in alcuni casi anche di convivenza che diventa autentica e voluta relazione coniugale da parte dell’italiano (il cosiddetto “insabbiato”), nella maggior parte dei casi il madamato è una forma di prepotenza, razziale e di genere, che provoca nel lungo termine squilibri sociali per la presenza di numerosi meticci.
Quando il 9 maggio 1936 Benito Mussolini proclama la fondazione dell’impero dell’Africa Orientale Italiana, la considerazione della donna africana come “Venere nera” cambia: ora subentra il disprezzo, la donna africana diventa brutta e pure puzzolente, portatrice di malattie e pericolosa per la “razza italiana”, il madamato diventa pericoloso agli occhi del regime fascista, ormai preoccupato della integrità razziale del popolo italiano. Un articolo pubblicato il 21 maggio dello stesso anno sulla “Gazzetta del Popolo”, L’impero italiano non può essere un impero di mulatti, c’è tutta la preoccupazione del regime sia sugli “insabbiati” sia figli avuti da donne africane che non sono rinnegati dai coloni.
Per questo, con il Regio Decreto-legge del 19 aprile 1937, pubblicato il 24 giugno, sono previste “Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi”: «Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da 1 a 5 anni».
Nonostante questo, in molti casi il rapporto di madamato continua, tanto che nel 1938 il governatore dell’Harar, il generale Guglielmo Nasi, lancia l’allarme in una circolare riassunta nell’ultimatum “Aut Imperium Aut Voluptas!” (O potere o piacere!).
Con la pubblicazione del “Manifesto della razza” e delle leggi razziali del 1938, in virtù della protezione della “razza italiana”, il fenomeno del madamato si arresta. Ora le violenze sulle donne, che continuano nelle colonie italiane, sono elargite non più per piacere ma per dimostrare “potere razziale” e “superiorità sessista” degli maschi italiani sulla gente d’Africa”. Le autorità coloniali autorizzano tutti gli ammogliati a far trasferire le proprie famiglie in colonia appena le condizioni lo permettano. Per mantenere il controllo sociale, affermare la superiorità razziale e giustificare il sistema di segregazione, l’unico ruolo che una donna africana deve avere è quello di oggetto sessuale, un oggetto che non si può amare ma solo utilizzare.
Ovviamente anche la propaganda di regime si mette in moto. Non solo sono vietate la diffusione di cartoline e fotografie coloniali a sfondo erotico, ma anche le canzonette cambiano di contenuto. Ad esempio, la famosa “Faccetta nera”, già cambiata nel testo per tre volte, è sconfessata dal regime e dalla propaganda. Compaiono così altre canzonette conformi alle direttive del regime. Tra questi la meno famosa “Faccetta bianca”, la storia di una ragazza italiana che saluta orgogliosa il fidanzato in partenza per l’Africa; oppure il più popolare motivetto “L’avventura di un soldato italiano con un’abissina”, in cui una «negra», sporca e sfrontata, cerca di sedurre un soldato chiedendogli dapprima «un bacino», poi sfacciatamente gli chiede di «esser la tua sposa e un bel bambino noi lo faremo italo abissino», il «bel soldatino» questa volta minaccia la «morettina» dapprima riferendo che «Solo in Italia ci ho il mio caro bene», ordinando poi di andare a lavorare e stare lontano dall’Italia e dagli italiani. Tra gli articoli sui giornali, anch’essi attivati in conformità con le linee di regime, spicca un pezzo pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo” il 13 giugno 1936, intitolato con il famoso detto “Mogli e buoi dei paesi tuoi” che, come il proverbio vuol suggerire, invitava a non lasciarsi guidare dall’entusiasmo erotico-amoroso, ma a procedere nella ricerca di solide e sicure garanzie nelle donne in Patria.
I vari provvedimenti amministrativi ― tra cui le radiazioni per i militari e il rimpatrio per indegno comportamento per i civili ― e l’istituzione di una squadra speciale contro il madamismo (organismo interno alla Polizia Africa Orientale), non servirono a eliminare completamente le relazioni tra gli italiani e le donne africane, frutto di una idea di conquista, anche sessuale, ormai troppo radicata.
♦
♦
Per saperne di più
G. Campassi, Il madamato in A.O.: relazioni tra italiani e indigene come forma di aggressione coloniale, in «Miscellanea di Storia delle Esplorazioni», XII, 1983, pp. 219-258.
A. McClintock, Imperial Leather: Race, Gender, and Sexuality in the Colonial Contest, Routledge, New York 1995.
S. Palma, L’Italia coloniale, Editori Riuniti, Roma 1999.
N. Poidimani, Difendere la ‘razza’. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, Sensibili alle foglie, Roma 2009.
A. Cagnolati, F. Pinto Minerva, S. Ulivieri (a cura di), Le frontiere del corpo. Metamorfosi e mutamenti, ETS, Pisa 2013.
E. Flaiano, Aethiopia. Appunti per una canzonetta, a cura di A. Longoni, Adelphi, Milano 2020.