ADDIO A PAOLO MARIA DI STEFANO

di Alessandro Frigerio -

Ci ha lasciati Paolo Maria Di Stefano, a lungo collaboratore, animatore e direttore della nostra rivista. Classe 1936, uomo di profonda cultura e di straordinaria curiosità, dal mondo del marketing – in Pirelli, Perugina, Motta e Montedison, prima di abbracciare la docenza universitaria – era approdato nelle nostre pagine per deliziare i lettori con editoriali e approfondimenti sulla politica e su quelle infinte sfumature dell’oggi destinate a sedimentare nella “storia”. Lo ricordava in uno dei suoi ultimi contributi: «quando iniziammo questa avventura avevamo chiarissimo il rapporto tra cronaca, appunto, e storia, consci che la cronaca è seme e radice della storia e che questa ultima altro non è se non la cronaca filtrata e “interpretata” nella sua realtà più vera, proprio perché cristallizzata nel tempo e dal tempo. E dunque oggettivata e proprio per questo divenuta immutabile. E la nostra idea era offrire agli appassionati di storia lettori assidui e colti la possibilità di intravedere una sia pur piccolissima parte del futuro, di provare ad “immaginare la storia” ed anche di acquisire la consapevolezza di poter essere “costruttori” di essa».
Non so se ce l’abbiamo fatta. Una cosa è certa, in lui la tenacia e la determinazione non è mai venuta meno, nonostante negli ultimi anni i nostri incontri si fossero in parte diradati.
Ai miei occhi Paolo aveva almeno altre due straordinarie virtù. Il dono della scrittura dotta e al tempo stesso coinvolgente, che gli consentiva di affrontare i temi a lui più cari – la politica e l’economia su tutti – con l’apparente leggerezza di un osservatore smagato, capace però di lanciare stoccate degne di un signore d’altri tempi. E poi la velocità: mi chiamava la sera dell’ultimo giorno utile per concordare (o meglio, per “impormi”, forte della sua proverbiale gentilezza) i temi delle sue due rubriche, Editoriale e Cattedra. E la mattina trovavo nella mail due pezzi profondi e piacevolissimi, lunghi non meno di sette-otto cartelle, senza un refuso o una ripetizione, pronti per essere pubblicati. Un collaboratore perfetto. In realtà un direttore perfetto, perché insieme condividevamo la responsabilità di questa rivista, fondata nel lontano 1996 da Franco Gianola. Io uomo di macchina, lui mente aperta sui grandi temi dell’attualità. Non era uno storico, e tuttavia la lucidità nell’osservare il presente rendeva i suoi pezzi dei piccoli capolavori capaci di fermare l’essenziale: ciò quel che sarebbe restato, nel bene e nel male, delle miserie del nostro vivere quotidiano.
Qualche anno fa mi volle con lui a un convegno dedicato ai media digitali. Spiccicai poche parole, leggendo una relazione pretenziosa scritta per l’occasione. Paolo parlò invece a braccio, punteggiando il suo intervento di aneddoti e di riflessioni argute, modulando la voce e gli sguardi con impareggiabile maestria, scendendo tra il pubblico e parlando a ognuno dei presenti con la padronanza di un consumato attore. Del resto viveva a Milano proprio accanto al teatro alla Scala, il tempio di quell’opera di cui conosceva tutte le trame, dai grandi classici della tradizione ai melodrammi giocosi.
Ci lascia alcuni testi fondamentali sul marketing – nella visione che lui definiva “allargata”, cioè gestione di tutti i possibili scambi che la condizione umana impone –  e sulla politica (Il Marketing e la comunicazione nel terzo Millennio; Product Management; Nonostante si può fare; Politica nata per unire; Tutti i colori della politica) in gran parte pubblicati con l’editore Franco Angeli. E ci affida anche alcune struggenti pagine (Canti del tempo di Ale) in memoria dell’unica figlia, Alessandra, scomparsa prematuramente all’età di 27 anni. Oltre a tutti contributi per “Storia in Network”, di cui sotto vi offriamo, fra i tanti, quello uscito nel dicembre 2014 e dedicato alle vicende che avevano animato il mese precedente, dalla buona scuola ai sindacati, dall’Europa di Junker alla Formula 1.
Che la terra ti sia lieve, carissimo Paolo.

Grida forte e corri, la ragione sarà tua. E forse entrerai nella storia
(di Paolo Maria Di Stefano, dicembre 2014)

Novembre si chiude con una grande notizia: l’epoca nuova per il lavoro si apre con l’individuazione di una nuova professione. L’innovatore naturale, citato nel fiume di pagine del rapporto del Ministro della Pubblica Istruzione, è anche espressione di quella creatività che ci ha reso famosi nel mondo e che continuiamo a venderci in una con la gloria di Roma e con la vittoria nella terza guerra punica.
A dire della “buona scuola” – il rapporto citato – la formazione permanente dei docenti, ottimo e commendevole obbiettivo, dovrebbe svolgersi attraverso un periodico scambio di esperienze degli insegnanti tra di loro e godere della garanzia dell’innovatore naturale. Nulla da dire sulla prima parte: che uno scambio di esperienze possa avere risultati positivi è comunemente accettato, in tutti i settori, ed è quindi certamente un bene che i docenti si parlino, anche incontrandosi periodicamente. Magari, come avviene più che di sovente in settori diversi dalla scuola e dall’insegnamento, in alberghi a cinque stelle o nelle sale di una nave da crociera, pratiche dimostratesi incentivanti per gli addetti alle vendite come per i medici e gli scienziati ed i ricercatori e per i docenti di alcune discipline universitarie.
E per altri ancora, segnatamente imprenditori, industriali, dirigenti.
Nulla da dire se non che non si tratta di qualcosa di creativo e neppure di innovativo e che, forse, impegneranno una parte non trascurabile delle risorse destinate alla scuola. Ma non è importante, questo. Se è accettato che il Ministro della Pubblica Istruzione utilizzi (legittimamente!) fondi pubblici per assistere alla partenza dalla base russa della navicella spaziale con a bordo un’astronauta italiana, perché ci si dovrebbe opporre a congressi, convegni, riunioni tra docenti in sedi di prestigio? La questione economica non è una buona ragione: con buona probabilità, la realizzazione di una o due riunioni non costa di più della trasferta del Ministro (con annessi e connessi) e, forse, è suscettibile di qualche risultato pratico in più.
Nulla da dire, dunque.

L’innovatore naturale, invece, questo sì che rende giustizia alla creatività italiana in una con il dimostrare che creare nuove prospettive di lavoro da parte dello Stato e dei suoi Ministri significa aver compreso lo spirito della Politica e delle sinergie possibili. Chi accusa la Politica di non essere creativa è servito. Come sono serviti i sindacati, che del lavoro e della creazione di nuovi posti hanno fatto la propria ragione di vita, ma che nulla di nuovo sono riusciti a raccontare al di là di scontate affermazioni di principio.
Naturalmente, il Ministro della Pubblica Istruzione ha perfettamente chiare le competenze della nuova professione, così come le caratteristiche del professionista, la struttura delle riunioni, i contenuti della “garanzia” cui l’innovatore naturale è chiamato.
E, altrettanto naturalmente, ha chiarissimo l’iter di formazione previsto, sia nel caso che l’innovatore sia chiamato a fornire ai docenti informazioni aggiuntive, sia nella ipotesi che debba limitarsi a registrare quanto si dice, magari escerpendone i significati più riposti e cercare di trasformarlo in obbiettivi più o meno vincolanti. E, in questa evenienza, se questi obbiettivi siano obbligatori in sé e in quanto elaborati a cura dell’innovatore, oppure se lo divengano soltanto dopo l’approvazione da parte di una qualsiasi autorità esterna, magari fino ad assumere la forma della norma di legge.
Dettagli? Forse.
Certo è che un Ministro esperto in comunicazione sembra aver fatto la scelta della “suspense”, per creare interesse e attesa.
Con sorpresa finale.
Che probabilmente sarà quella di non farne niente, lasciando che la proposta si spenga motu proprio, per consunzione, nel silenzio più assoluto. Che è in buona sostanza la tecnica usata dal Ministro (e non soltanto): tacere il più possibile, soprattutto quando gli argomenti in qualche modo scottano.
Ed è, il silenzio, la forma di comunicazione più nobile ed educata. Tanto, da non esistere quasi più.
La formazione e la valutazione degli insegnanti sono a loro volta due degli argomenti rispolverati dal rapporto titolato “la buona scuola”. A me sembra che sulla questione si stia creando ad arte una rete di confusione dalla quale non si potrà uscire e in virtù della quale tutto rimarrà come prima.
Mi chiedo: cosa osta a che, una volta raggiunta la laurea, gli aspiranti docenti partecipino a corsi abilitanti di “gestione degli scambi culturali”? E che cosa si oppone alla realizzazione di un sistema di valutazione che tenga nel debito conto le opinioni dei discenti? Un insegnante è bravo nella misura in cui viene accettato dai suoi “clienti”, e tanto più è bravo quanto più è accettato. E l’accettazione degli studenti è anche manifestata dalle reazioni ai voti negativi ed alle bocciature.
Tra l’altro, già esistono scuole che coinvolgono gli studenti. Non si potrebbe mettere a punto un sistema, anche innovativo, partendo da quelle esperienze? A me sembrano, invece, pericolosissime le valutazioni affidate ai colleghi. Non a caso un vecchio detto ricorda che “Dio creò il professore universitario e, subito dopo, il suo peggior nemico: un altro professore universitario”. E’ vero che qui non parliamo di Università, ma credete proprio che tra docenti delle scuole di ogni ordine e grado la cosa non si prospetti nella stessa maniera?

A proposito di Università, un’annotazione brevissima: vogliamo smetterla di considerare l’Università un surrogato della preparazione necessaria per entrare in azienda? L’Università dovrebbe preparare i giovani all’acquisizione, successiva alla laurea, delle specializzazioni necessarie. Tra l’altro, in questo la collaborazione – leggi finanziamenti – dei privati potrebbe trovare giusta collocazione.
E vogliamo cercare di far luce sulle assegnazioni delle cattedre?

Paradigma culturale: la RAI – radio televisione italiana – offre una rete con un palinsesto di assoluto interesse: RAI 5, (canale 23 del digitale terrestre), più di un semplice sguardo alla cultura di alto livello. Il che è certamente meritorio, in un panorama televisivo di uno squallore non solo senza precedenti, ma anche crescente e dagli effetti educativi in proporzione geometrica inversa, forse alla ricerca di un fondo che sembra irraggiungibile.
RAI 5 dedica tra l’altro ampio spazio alla musica classica o “grande musica” che dir si voglia, ed ai suoi Autori, Esecutori, Interpreti e anche Esegeti e Storici. E la cultura musicale “di qualità” è stata per il nostro Paese una realtà di valore altissimo e resta un dato storico di assoluto rilievo, al quale non è raro si ricorra per vantare il nostro status di Grande Paese.
Abbiamo avuto grandissimi compositori, altrettanto grandi interpreti, tanto che da tutto il mondo in Italia venivano uomini di cultura ad imparare. Tanti e tanto grandi i nostri, tanti e tanto grandi i visitatori da rendere impossibile un elenco anche soltanto parziale. Non solo: la cultura musicale italiana è stata la prima grande manifestazione di un mondo diverso, unito, assolutamente globale, tanto che parlare di musica non è più possibile se non abbattendo ogni confine. Così come il praticarla.
Ecco, allora, grazie anche a RAI 5, rivivere quasi fisicamente Arturo Toscanini e Peter Maag e Herbert von Karajan e Beniamino Gigli e Maria Callas e Marcella Pobbe e Mirella Freni e Luciano Pavarotti e Mitislav Rostropovich e Bruno Walter e Johan Sebastian Bach e Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven e Giuseppe Verdi e Jules Massenet e Bellini e Giacomo Rossini e Gaetano Donizetti e Vincenzo Bellini e Richard Wagner e Jacques Offenbach e Leos Janacek e Giacomo Puccini e Piotr Jilich Tcaikowski e Modest Mussosky e Franz Liszt e Paganini e Benedetti Michelangeli e Tullio Macoggi e Frederich Chopin e George Bizet e Hector Berlioz e Uto Ughi e Franz Joseph Haydn e Maurizio Pollini e Claudio Abbado e Salvatore Accardo e David Oistrak e Daniel Baremboin e… Tutto un universo di geni della musica, diversissimi tra di loro, ma tutti e ciascuno dotati della capacità di instaurare colloqui tra mondi anche sconosciuti, anche solo fantastici, tra persone che nella musica individuano uno strumento di comunicazione universalmente valido.
Quasi che gli effetti dell’arroganza e della presunzione dei costruttori della torre di Babele – la confusione delle lingue – sia stato superato dalla costruzione di una lingua nuova: la musica.
Difficile sempre di più, con lo svolgersi dei secoli; e generalizzata sempre di più con l’evolversi della comunicazione in forme sempre più accessibili. La televisione è una di queste, perché porta a tutti la musica, i suoi autori, i suoi interpreti.
Per questi ultimi, è forse il più importante fattore di conoscenza, di notorietà, di celebrità.

In tutti, un solo obbiettivo: parlare all’ascoltatore, raccontargli di sé e della propria anima.
Con un vincolo abbastanza importante: il rispetto da parte dell’interprete dello spirito del compositore. E credo non possa dubitarsi che quanto maggiore è l’attenzione che l’interprete dedica alla traduzione dell’anima del compositore, tanto più probabile è quello che noi chiamiamo successo
Così come tanto maggiori sono le probabilità di successo quanto maggiore è la capacità di approfondimento da parte dell’ascoltatore.
Con le dovute eccezioni, naturalmente, anche dipendenti dalla “cultura della gente”.
Ecco, allora, che un giovane pianista cinese può diventare un idolo pur senza avere nessun rispetto per gli Autori, ma ben conoscendo i gusti di persone per le quali la prevalenza va data alla tecnica e alla comunicazione “fisica”.
Così, Lang Lang suona “forte” e “veloce” e gesticolando con il corpo e il viso in modo certamente non accennato. E anche, consentitemi! un po’ ridicolo.
Con buona pace dei compositori.
E così, ha conquistato anche l’attenzione di RAI 5, che in qualche modo deve pur attrarre spettatori e “raccontare ” loro i protagonisti. Anche a costo di comunicare leggende, quali quella secondo la quale a soli due anni di età Lang Lang sarebbe stato colpito da Tom e Jerry impegnati nella esecuzione della seconda rapsodia ungherese di Liszt. Il segno del genio, certamente: credo che la maggior parte di noi, a due anni, da tutto avremmo potuto esser colpiti, salvo che da una rapsodia di Liszt. Però, deve esser vero. Sia perché il genio è sempre un’eccezione, sia perché in quella esecuzione i due cartoni suonavano forte e velocemente e muovendosi alla grande.
Che è segno indubitabile dei tempi nostri.
Ed anche paradigma della politica.
Chi strilla di più; chi è più becero; chi più e a qualsiasi costo appare in televisione ed è citato dagli altri mezzi di comunicazione di massa; chi riesce a dare l’impressione di “fare in fretta”, di “correre”, di far leggere in faccia sentimenti più o meno veri, non solo rischia di aver ragione (cosa importante fin lì e fin là), ma è (quasi) sicuro di essere ricordato al momento del voto.
Che è l’unico obbiettivo dei nostri politici, senza eccezione, pare.

Dopo che l’Emilia Romagna e la Calabria si sono espresse, 5 a 0 è il risultato vantato da PD nelle elezioni regionali. Che è comunque un risultato di tutto rilievo, checché se ne dica. È certamente vero che all’incirca il sessanta per cento degli aventi diritto al voto ha disertato le urne, ed è anche una prova che la cultura contemporanea degli italiani non annette ormai importanza più che tanto all’esercizio dei diritti politici. Una volta, il recarsi a votare era un dovere; oggi è rimasto solo un diritto che ciascuno è libero di esercitare. Ho sentito dire che è un bene. Non ne sono sicuro: noi italiani raramente facciamo qualcosa se non siamo costretti da una norma di legge. Ed anche quando è così, sappiamo che l’eventuale sanzione in rarissimi casi sarà comminata. Significa non avere nessuna coscienza di sé come cittadini e nessuna del valore della norma in sé. Crediamo solo nella sanzione, e solo in quella che è immediatamente vicina.
Queste consultazioni hanno poi dato la stura ai commenti e alle proposte più diverse, alcune anche disperate. È stata persino ventilata la possibilità di una destra guidata dall’attuale capo della Lega. Ma che bisogno c’era di sottolineare come in Italia tutti coloro che non sono “di sinistra” si nutrano di egoismi, di razzismo, di violenza per ora ancora verbale (almeno sembra)? Ma è proprio vero che per parlare di “destra” occorre essere egoisti, razzisti, violenti? Perché se così è, la destra è morta, magari deposta in una camera mortuaria a 5stelle.

Almeno da noi, l’urlo e il ricorso alla forza – ed ogni altra manifestazione della violenza – sembrano ormai l’unico mezzo per attrarre l’attenzione e dunque per farsi ascoltare. Non che l’argomentare e il confrontarsi civilmente abbiano mai avuto grande preferenza (ricordate il “parlar di politica” nelle piazze e nei bar? In alcuni di questi, era persino comparso l’avviso che, lì, era proibito parlar di politica, perché “parlar di politica” era direttamente collegato con toni di voce altissimi e comportamenti ai limiti della rissa), ma un tempo esisteva qualcuno che ne faceva uso, e talvolta persino con successo.
È in fondo, il senso della rivolta degli abitanti le case popolari di Milano e non solo, ed anche il senso delle azioni degli occupanti. Chi quelle case abita “legalmente”, è ormai costretto a non uscire di casa: basta un niente, l’assenza di qualche ora, e la casa viene occupata. E gli occupanti sono “homeless” – come dicono i colti – alla ricerca della conquista di un tetto, meglio se ammobiliato, sicuri che nessuno riuscirà a ripristinare la legalità. La quale, peraltro, sembra già precaria nei confronti dei così detti inquilini (legali conduttori), molti dei quali si rifiutano di pagare affitti e bollette, così reagendo all’inerzia di una proprietà che si protesta non in grado di intervenire a nessun livello. Figuriamoci quando si tratta di ristrutturare e rendere abitabili gli stabili.
I soldi bastano appena per pagare impiegati e dirigenti degli istituti, e per provvedere alle liquidazioni ed alle spese di rappresentanza.
Che è una possibile prova a favore di coloro – e non son pochi!- che sostengono che l’impiegato pubblico ha il solo compito di riscuotere lo stipendio.
Che non è vero, ovviamente, ma la domanda mi pare lecita: perché paghiamo stipendi e salari e benefit se i beneficiari non hanno niente da fare? Non è esatto: non “possono” far niente. Va bene, ma perché non possono far niente? O bella, perché non ci sono i soldi. La colpa è dello Stato, e anche delle Regioni e delle Provincie e dei Comuni…
Infine: pare che gli abusivi cacciati dalla porta, accompagnata la forza pubblica dietro l’angolo, rientrino dalla finestra.
Ma se voi foste una madre con tre bambini piccoli, abusivi in un appartamento e magari da qualche anno, che fareste?

La presenza di Jean-Claude Juncker alla Commissione Europea sembra aver scandalizzato (per la verità, molto moderatamente): l’ex primo Ministro del Lussemburgo (1995-2013) pare sia stato promotore e garante degli accordi tra fisco e imprese che hanno fatto del piccolo Stato il paradiso fiscale d’Europa.
Se ne è parlato non più di tanto, come non più di tanto si è accennato all’inopportunità dell’assegnazione della carica europea ad un uomo con i trascorsi economici e fiscali di Juncker. Nessuno, mi pare, ha però detto che l’ex Primo Ministro ha fatto gli interessi del proprio Paese, e li ha fatti benissimo, in linea sia con i propri doveri di Capo del Governo che con i principi che regolano il sistema economico che è di tutti noi e nel quale tutti noi ci agitiamo come falene impazzite. Con una differenza sostanziale: che le falene impazziscono per la luce, mentre i nostri politici ed i nostri economisti si agitano nel buio più assoluto.
Pare, però, che Juncker si sia guadagnata la fiducia europea promettendo di stanziare qualche milione in modo che quel tanto temuto rigore possa essere allentato.
Che dire, oltre a boh!?

Su una deflazione mortifera e, poi, su di una inflazione troppo bassa si è posto l’accento, e a ragione: il nostro sistema economico ha bisogno di un tasso importante di inflazione, come è vero che deve guardarsi dalla deflazione. E questo perché – in sintesi estrema – è basato sulla crescita continua degli acquisti di beni e servizi, la quale crescita genera l’incremento dei prezzi e quindi dei profitti e, forse, di stipendi e salari e degli investimenti. La dottrina economica parla, al proposito, di fluttuazioni economiche, «la cui causa sembra risiedere nel processo di sviluppo cui le economie moderne sono soggette, e nella tendenza dei profitti previsti ed effettivi, mentre questo sviluppo è in atto, ora a elevarsi, ora a abbassarsi, in conseguenza del ritardo con cui i costi si muovono rispetto ai prezzi». Così Marco Fanno, a pag. 408 del suo Elementi di scienza economica (Lattes, 1947). Ed è forse importante avvertire che ho scelto il riferimento a questo notissimo testo perché, ancorché datato, descrive esattamente la situazione attuale. Ed anche perché la citazione – che riconosco lunga, forse troppo – mi consente di evitare di essere ancora più lungo e noioso.

In una pagina esemplare anche per sintesi e concretezza, il Fanno scrive: «nei periodi di depressione l’attività economica langue, la disoccupazione operaia è rilevante, i consumi sono limitati, le riserve di prodotti abbondanti, bassi i prezzi di questi e delle azioni industriali, nulla la produzione di impianti nuovi e parziali l’utilizzazione degli impianti vecchi; quindi elevati i costi medi di produzione, non ostante i bassi salari e il basso tasso dell’interesse, e depressi i profitti. Ma le forze interne di sviluppo del sistema, continuando ad agire, rendono necessario l’aumento della produzione. E questo non tarda a verificarsi. Non appena, infatti, incominci per qualsiasi motivo a intravvedersi la prospettiva di prossimi alti profitti, il movimento di ripresa si inizia, preceduto di regola dal rialzo delle azioni industriali. Le officine chiuse si riaprono, quelle che lavorano a orario ridotto aumentano la loro attività e, grazie al ripartirsi delle spese fisse fra un numero maggiore di unità di prodotto, i costi medi diminuiscono. I disoccupati cominciano ad essere richiamati al lavoro e i consumi aumentano. Estendesi allora anche la produzione dei beni di prima necessità, e nuove schiere di lavoratori vengono rioccupate. Il che, facendo aumentare ulteriormente i consumi, dà un nuovo impulso alla produzione. E si inizia così, col concorso per lo più del credito bancario, un movimento ascendente a effetti cumulativi, per il quale ogni aumento della produzione genera aumenti successivi, e il quale viene mantenuto in vita e via via intensificato dall’aumento dei profitti, che esso stesso promuove. Infatti, i beni di consumo di cui, man mano che i disoccupati sono richiamati al lavoro aumentasi la produzione, non possono comparire sul mercato che dopo un periodo più o meno lungo. Cosicché la domanda di cotesti (sic!) beni comincia e continua per molto tempo ad aumentare prima che ne aumenti l’offerta; e il loro prezzo di conseguenza si eleva. E ciò mentre i prezzi delle materie prime impiegate a produrli rimangono stazionari o quasi per la presenza di cospicue riserve, che però vengono via via utilizzate; mentre i salari, ultimi sempre a muoversi, rimangono essi stessi stazionari, e di poco si eleva il tasso dello sconto, per il largo margine di credito di cui le banche ancora dispongono. Per tutto ciò la differenza tra costi e prezzi, cioè il profitto diviene effettivamente, come era stato previsto, rilevante e concorre a tenere vivo il movimento.[...]».
Chissà se Politici ed economisti italiani contemporanei e impegnati hanno mai letto e, se lo hanno fatto, ricordano la pagina citata. Io ne dubito. Dal momento che si tratta in genere di persone dotate di intelligenza (almeno) normale, se la ricordassero vi troverebbero più di un suggerimento per il superamento della fase economica nella quale ci dibattiamo, e per la quale nessuno pare disporre di rimedi.

Non i sindacati – certamente non quelli italiani – che a novembre forse più di prima si limitano a criticare e a contrastare qualsiasi tentativo di cambiamento, senza peraltro suggerire alcuna pianificazione concretamente realizzabile. E neppure un qualsiasi provvedimento concreto. Qualcuno ha parlato delle liquidazioni e delle pensioni dei sindacalisti?
E qualcuno ha accennato alla possibilità di rivedere gli stipendi di certi giornalisti e direttori di giornali? Non certo il sindacato della stampa. E forse le organizzazioni che si occupano delle strutture degli uffici della politica hanno proposto e attuato la revisione dei costi relativi, segnatamente di alcuni stipendi e liquidazioni e pensioni i cui livelli sono infinitamente maggiori di quelli riservati a chi svolge le stesse funzioni lontano dalle Camere e strutture similari? E forse qualcuno si è impegnato sul fronte delle retribuzioni dei rettori universitari, e presidi di facoltà e degli annessi e connessi, magari a cominciare dalle spese di rappresentanza e dai costi di convegni e congressi di facciata?
Siamo nel pieno di un’ondata di scioperi che non si comprende bene quali obbiettivi si propongano, al di là degli slogan relativi alla creazione di posti di lavoro, al mantenimento del valore dei salari e degli stipendi, alle garanzie per i lavoratori, al rinnovo dei contratti…

Non gli imprenditori – men che meno quelli italiani – strenuamente impegnati ad abbattere i costi di produzione e di distribuzione aggredendo quelli più facili: salari, stipendi, sicurezza, benefici e garanzie varie, fondi pensione… Ma almeno gli imprenditori qualche suggerimento pratico lo adombrano, per quanto non condivisibile possa essere. Accenni che però partono comunque da un’immagine degli imprenditori e delle imprese italiani sostanzialmente sbagliata: la professionalità e l’eccellenza e la creatività di cui si vantano, ma delle quali anche il novembre appena trascorso si è incaricato di mettere in dubbio la veridicità, fatte salve le (rare) eccezioni. La stragrande maggioranza degli imprenditori e dei manager italiani affronta in modo improvvisato i problemi di quegli “scambi economici” che devono avvenire, oggi, in un mondo che cambia con una velocità in progressione geometrica. E l’adagio secolare “pochi, maledetti e subito” guida ancora la ricerca del profitto, nella più bieca manifestazione di un capitalismo sempre più cieco ad autoreferenziale. Gli imprenditori – il cui compito è “fare impresa” e dunque creare produzione, distribuzione e comunicazione in grado di generare utilità privata e pubblica – per troppo tempo hanno vissuto avvalendosi dell’aiuto di Stato e quindi del capitale pubblico, e della speculazione finanziaria senza peraltro contribuire a creare quella ricchezza che dovrebbe, tra l’altro, tradursi in stipendi e salari, da un lato, ed in nuovi capitali e investimenti, dall’altro.

Non i politici, ovviamente. Perché, oltre ad essere impreparati a “fare Politica” ed a maggior ragione a “fare Economia” e probabilmente anche a fare qualsiasi altra cosa (salvo le solite anche numerose eccezioni), chi in Italia fa politica ha tutto l’interesse a mandare messaggi di intenzioni ad interlocutori di parte (e quindi immediatamente collegabili con interessi di parte, appunto) ed a far sì che a questi non seguano risultati concreti, problematici a raggiungersi e in grado di scontentare quasi tutti. E dunque, a non portar nuovi voti e neppure, forse, a confermare quelli ottenuti. Che è un rischio non da poco per i tantissimi deputati, senatori, governatori, consiglieri, presidenti e mammasantissima di cui l’Italia è ricchissima. L’occupazione principale dei politici italiani – oltre a quella di godere delle prebende e dei privilegi che, essendo essi legislatori, si fanno accordare da leggi e leggine – è giocare allo scaricabarili (vedi in cattedra) limitandosi ad indicare “chi dovrebbe e non fa” e, soprattutto, i temi che “chi dovrebbe e non fa” avrebbe il compito di svolgere affinché il legislatore possa lavorare.
E non a caso le promesse politiche – come le affermazioni dei sindacati e gli intendimenti degli imprenditori – sono da noi puri slogan.
Slogan, appunto, che hanno anche la caratteristica di esser comuni alla stragrande maggioranza degli attori in campo, politici in testa.
E che proprio perché comuni, in mancanza almeno di un “come” si avvolgono su se stessi, senza risultato alcuno.

La Ferrari (e il made in Italy) a fine novembre sono definitivamente entrati nel mondo degli slogan. Così come la creatività e lo spirito di iniziativa, e la cultura e il turismo e l’arte italiana. Il mondo della formula uno ha, da tempo, oramai, un nuovo idolo, meritatamente assurto al rango di Capo degli Dei: la Mercedes. Perché ha lavorato, ha ideato, ha pianificato, ha realizzato e ha comunicato: cose che forse fanno anche gli italiani, ma evidentemente meno bene.
Io dubito fortemente che la Ferrari possa rinascere sotto la guida dei nuovi Dei: sembrano opportunisti almeno quanto di capacità modeste.
Ma forse l’agonia della Ferrari ha un vantaggio: non influisce e non influirà direttamente sulle fortune dell’industria automobilistica italiana, sempre che di auto italiane si possa ancora parlare. Non si chiama FCA, e dunque…
Pensate al danno che deriverebbe alla Mercedes da una débacle in formula uno! Il marchio Mercedes è presente in tutti i segmenti del mercato automobilistico, e in tutti sembra ancor oggi “far premio”.
Ferrari, invece…

Una cosa è certa: se gli auguri portano bene, non ce ne è mai stato bisogno come per gli anni futuri. Auguri, auguri a tutti noi, e buon Natale.