JOSEPH CONRAD, CRONACHE DI VIAGGI OLTREOCEANO
di Giuliana Arena -
La stabilità del mare contro la fluidità della terraferma, la nave come microcosmo di valori etici e dilemmi morali, il viaggio come ricerca di sé. Nelle opere dello scrittore polacco i salti temporali e l’assenza di una voce unica prefigurano la nuova opera modernista che trasuda modelli etici e propone un nuovo eroe romantico.
Tra fine ’800 e inizi ’900 le opere di Joseph Conrad comunicano impulsi, sintomi e conflitti già di matrice estremamente moderna. La nave configura il topos da cui tutte le riflessioni scaturiscono, il sostrato narrativo ruota attorno alle vite travagliate dei marinai: «uomini in lotta con se stessi molto più che col mondo esterno […] un viaggio nel continente dell’interiorità, che celebra e al tempo stesso demistifica totalmente i viaggi e le conquiste dell’uomo occidentale giunto ai confini del mondo e, simultaneamente, alla soglia di una crisi epocale di civiltà» (Casoli 2002, 234). L’eroe dei racconti conradiani è un homo duplex perché vive il disagio di una mancata accettazione di quei canoni, oramai anacronistici, imposti dalla società del suo tempo.
In buona parte del macrotesto conradiano, di caratterizzazione essenzialmente autotelica, l’accento è sul senso ineluttabile di estraneità e paralisi che il protagonista avverte verso se stesso, gli altri e la società di appartenenza; una forza centrifuga sospinge da una gabbia ideologica al mare, per rintracciare punti saldi assenti sulla terraferma. I canoni universalmente riconosciuti sono ora ribaltati in una logica inversa: il mare è solido e stabile[1], al contrario di una terraferma fluida e instabile (metafora delle acque psichiche dell’uomo, difficili da sondare). Ancora, dalla dicotomia esocultura-endocultura provengono svariate forme di lotta, analizzate in chiave decadentista grazie alla considerazione della dimensione psicologica del visibile.
In questo scenario la nave costituisce un microcosmo di valori etici con i grandi dilemmi morali che travolgono la mente umana; una prospettiva modernista racchiusa nell’eterno dilemma per cui l’uomo combatte: l’illusione della vita affetta da precarietà e incertezza. Essa assume così un’importanza epistemica, in considerazione dei concetti di naturalismo e vitalismo: uno spazio topico interno diverso dal mare in cui l’eroe naviga sfidando la furia degli elementi e comprendendo l’impossibilità di vincere sulla natura. In The Mirror of the Sea, riguardo la nave, emerge: «a ship is not a slave. You must make her easy in a seaway, you must never forget that you owe her the fullest share of your thought, of your skill, of your self-love. If you remember that obligation […] she will lay out the heaviest gale that ever made you doubt living long enough to see another sunrise» (Conrad [1906] 2008, 78). Dunque, l’approccio alla verità può avvenire solo superando il limen durante una faticosa e avvincente quest umana.
Il nomadismo personale dà modo di riflettere sulla transitorietà dell’uomo e la sua imperfezione in confronto alla permanenza e perfezione della Natura, punto d’intersezione delle forze primordiali e quindi modello etico. L’autore, in particolare, volge lo sguardo a un passato mitico perché non ha alcuna fiducia nel presente e nella Natura che può offrire consolazione solo a chi abbandona la speranza e decide di non combattere più. In tal senso, il romanzo diventa scoperta della vita e delle sue brutali e arbitrarie verità, esplicando il conflitto tra illusione e realtà, tra ciò che l’uomo crede di essere e ciò che è davvero. Questa visione soggettiva e problematica della realtà lo porterà a essere un artista-outsider che riflette sulla sua condizione di ‘non-appartenenza’. Da ciò nasce una visione pessimistica della civiltà, oltre alla battaglia incessante con lessemi espressi in quella che non è la madrelingua dell’autore polacco: l’inglese. Egli scrive sotto un influsso emozionale per esprimere il senso di inquietudine causato dalla transizione verso un domani dal volto ignoto: il futuro dev’essere costruito sulle rovine di un passato alienante, incerto e ansiogeno.
Ma entriamo nel vivo della scrittura conradiana. L’autore fa largo uso del racconto obliquo: una storia ‘cornice’ esplica il vissuto individuale e paradigmatico dell’attante, grazie alle singole vicende degli altri personaggi; l’oggettività narrativa è compromessa per l’uso del punto di vista, con la conseguente moltiplicazione delle voci narranti e la frantumazione dell’ottica interpretativa come ad esempio, in Nostromo (1904). Poi in Under Western Eyes (1911), che ha per oggetto la negazione delle libertà individuali, i punti di vista non servono a mediare criticamente tra lettore e vicenda narrata, ma a definire le personalità dei due personaggi che collaborano al modello tematico; il concetto tradizionale di letteratura viene scardinato in quanto l’autore riversa il suo interesse sul casuale, l’arbitrario e i meandri dell’inconscio. I salti temporali e l’assenza di una voce unica già prefigurano la nuova opera modernista che trasuda modelli etici e propone il concetto di eroe romantico, come nel dramma esistenziale Lord Jim (1899-1900); esalta, a livello sociologico, l’isotopia dello sguardo come in The Nigger of the Narcissus (1897) oppure garantisce la presenza del kairos, il tempo formativo, evidenziando la dimensione morale come in The Shadow-Line: A Confession (1917). È presente quindi una sorta di fusione tra temi ed elementi tradizionali e modernisti, con varie stratificazioni simboliche: l’opera è sviluppata come travellogue e i personaggi vengono già osservati e analizzati dalla prospettiva dell’esplorazione della mente.
È senz’altro l’integrità dello sguardo a rappresentare il fil rouge delle vicende raccontate che si annodano le une alle altre in una prosa a impatto altamente visivo e impressionistico: nell’incipit de The Secret Sharer (1910) si passa da una descrizione paesaggistica alla considerazione del self, ovvero dallo spazio esterno a quello interno. Esiste un intreccio di esperienza, immaginazione e creatività liberatoria grazie a un linguaggio altamente visionario e simbolico[2]. In questo caso l’oblò non è più semplicemente apertura nella nave per dare aria e luce al suo interno e consentire la vista verso l’esterno quanto piuttosto mezzo per evadere dalle frontiere dell’ego, riflettendo sulla propria condizione ontologica. Lo scrittore «intendeva usare il potere della parola scritta per far udire, per far sentire, soprattutto per far vedere. La funzione della parola è quindi di evocare e presentare concretamente, visivamente, quel mondo di personaggi, di fatti, di sensazioni, che costituisce la materia di una narrazione. Quando non adempie tale funzione, la parola è inefficace, perché la vera emozione artistica dipende interamente da ciò che si riesce a rappresentare» (Conrad 1967-1983, xxvii-xxviii).
La potenza evocativa dei sensi è alla base di un’arte basilarmente visuale: lo sguardo possiede una duplice valenza poiché enuclea la presenza, con riferimento a un codice naturale (rispetto all’ambiente circostante osservato dall’oblò) e l’assenza riguardo a un codice antropologico (presa di coscienza e ricomposizione olistica in funzione di sé e dell’altro). Il marinaio, nonché narratore omodiegetico delle vicende raccontate, esperisce la solitudine per mare e osserva dall’oblò del suo battello ciò che lascia in un’ottica nuova, decodificando la realtà per ritrovare un ethos comune di riferimento. Pertanto l’oblò è un simbolo forte di evasione dal sé e archetipo di spazi, proiettando lo sguardo a un altrove ormai irraggiungibile che presenta frammentazione e instabilità ed è osservabile e decifrabile in lontananza, dal mare (metafora dell’essere). La prosa conradiana diventa così «specchio eloquente dello snodo fra tradizione romantica e modernità problematica» (Casoli 2002, 233) poiché l’autore è «nella perplessità morale […] poeta dell’individualismo eroico e catastrofico» (ivi, 233). Trattando il molteplice e lo scetticismo Conrad offre una panoramica kafkiana della società, con una trama fitta di turbamenti e dilemmi esistenziali.
In un arco temporale di oltre un secolo la concezione ordinata e consequenziale delle cose, da tempo stravolta in era vittoriana, cede il passo a un’interpretazione solipsistica dell’esistenza intesa come forza deflagrante perché accomunata dall’idea di caos, morte e distruzione. Lo spazio naturale viene introiettato in quello mentale così l’elemento dinamico del viaggio non è più da/verso qualcosa, ma da/verso se stessi ed enuclea l’essenza di romanzi di formazione con la tematizzazione della solitudine umana, gli aspetti nascosti e ramificati della personalità e l’insondabilità dell’ignoto propri del Modernismo. È ora il mondo interiore che interessa e colpisce profondamente non solo il fautore dell’opera artistica, impostata su canoni mentali associativi, ma anche e soprattutto il fruitore di quest’ultima e compartecipe alla sua creazione, il lettore.
Note
[1] La definizione viene offerta da Joseph Conrad nell’opera The Shadow-Line: A Confession (1917).
[2] Solo dopo The Nigger of the Narcissus (1897), la posizione impressionistica di Conrad viene superata per lasciare spazio a una visione più complessa del valore simbolico dell’arte.
Per saperne di più
Casoli G., Novecento letterario italiano ed europeo: autori e testi scelti, Città Nuova Editrice, 2002.
Conrad J., [1906] The Mirror of the Sea & A Personal Record, Wordsworth Editions, 2008.
Conrad J., Tutti i racconti e i romanzi brevi, Mursia, 1967-1983.
Costantini M. [et al.] (a cura di), La letteratura vittoriana e i mezzi di trasporto, Aracne, 2006.