LA RIVOLUZIONE CARBONARA DEL 1820-21

di Benedetto Croce –

In quest’ulteriore brano dalla “Storia del Regno di Napoli”, Croce descrive il moto insurrezionale seguito alla restaurazione borbonica come l’ideale termine del periodo murattiano. Vi parteciparono, infatti, gli uomini del decennio precedente e la iniziarono i militari napoleonici, accompagnati dal generale consenso della classe dei possidenti. Scarsa la partecipazione popolare e dei giovani intellettuali.

·

Insoddisfazione d’altra sorta, altro desiderio, altra brama moveva allora l’animo dei napoletani, in particolare della loro classe intellettuale e dirigente, degli uomini che erano a capo dell’amministrazione e dell’esercito, e dei possidenti che avevano il primo luogo nei comuni e nelle provincie: la brama d’istituzioni rappresentative, che permettessero una partecipazione più diretta al governo e assodassero le riforme introdotte nelle leggi e negli ordinamenti, e le altre simili da attuare, e sopratutto garantissero le nuove condizioni della proprietà terriera. E poiché il re Murat, al pari del suo imperiale cognato, si dimostrava sordo a quelle richieste, e poiché la vicina Sicilia per opera degli inglesi aveva ottenuto nel 1812 una costituzione, la nuova setta che si diffuse nell’Italia meridionale, la Carboneria, prese ad avversare il Murat e, istigata da agenti inglesi, a considerare la possibilità di un Ferdinando di Borbone re costituzionale; e si ebbero moti costituzionali in Calabria e in Abruzzo. D’altra parte, i generali e consiglieri del Murat non lasciarono d’insistere perché egli concedesse una costituzione, che fu concessa alla fine, ma troppo tardi e vanamente, dopo la sconfitta delle sue armi e alla vigilia della sua fuga dal Regno.

Questi desideri di libertà costituzionale, sebbene delusi dalla restaurazione borbonica, si fecero più vivi durante i primi cinque anni dalla caduta del Murat; nei quali, in virtù del trattato di Casalanza sottoscritto dall’Austria, rimase quasi intatto l’edifizio costruito nel periodo napoleonico, ma c’era nell’aria il sospetto che si trattasse di una tolleranza provvisoria, e alcuni atti del governo borbonico e dei suoi troppo zelanti fautori, e, sopratutto, la fisionomia stessa di questo governo e i ricordi insistenti del suo prossimo passato, non erano tali da rassicurare. Temevano i militari e gli alti funzionari, che avevano serbato i gradi e gli uffici ottenuti al tempo francese; temevano i possidenti, che avevano profittato della liquidazione della feudalità e dei demani, e della vendita dei beni ecclesiastici; temevano tutti coloro che erano andati assai innanzi con la mente e col sentimento, e vedevano ora Napoli patteggiare con Roma, e col concordato del 1818 ristabiliti quanti più conventi si poteva, permesso alla chiesa l’acquisto di beni, reintrodotto in parte il foro ecclesiastico, la censura vescovile, e altre simili cose che non si pensava potessero mai più ritornare. Lo sbocco di queste trepidazioni e della lunga attesa di garanzie costituzionali fu la rivoluzione carbonara del 1820, che bisogna considerare come lo strascico e la chiusura del periodo murattiano. Vi tennero, infatti, la parte principale gli uomini del decennio, e la iniziarono i militari napoleonici, e fu accompagnata dal generale consenso delle popolazioni, nella capitale e nelle provincie, cioè della classe dei possidenti, e non contrastata dalle plebi, le quali, per la loro naturale volubilità, rimasero allora indifferenti o si unirono ai plausi e al tripudio, cullandosi in indeterminate aspettazioni di mirabili benefici. La monarchia fu costretta a capitolare subito, mancandole ogni punto d’appoggio all’interno per la resistenza: tanto le condizioni sociali del paese erano cangiate da quelle del 1799.

Ma la rivoluzione costituzionale nacque senza speranza di vita, perché le stava contro tutta l’Europa conservatrice, e l’Austria più direttamente interessata a impedire novità in Italia; e l’intervento dell’Austria fu la vera e sola causa del suo fallimento. Le altre cagioni, la faciloneria del rivolgimento, l’incoscienza delle difficoltà da affrontare, l’inesperienza che condusse a proclamare senza ben conoscerla e senza ponderarne gli effetti l’ultrademocratica costituzione spagnuola, il confusionismo delle idee, l’intralcio che nasceva dalla persistenza della setta carbonara, quasi governo nel governo o monarchia nella monarchia, la insoddisfazione e la consecutiva indifferenza dei proprietari e piccoli proprietari erano tali da rendere faticoso e travagliato il processo di quella rivoluzione e farlo passare per molteplici crisi interne, ma non da impedirlo e arrestarlo. Per un buon successo finale v’erano certamente, nell’Italia meridionale, condizioni più favorevoli che non nella Spagna del 1820. L’intervento dell’Austria distaccò, anzitutto, dal movimento costituzionale il re, che lo aveva sanzionato per paura e ora non sentiva la dignità e il dovere di far causa comune col suo popolo o di abdicare, e col suo contegno fiaccava la resistenza; e poi spinse un esercito disciplinato ed agguerrito contro l’esercito napoletano, scemato a causa della rivolta siciliana, ripieno di milizie nuove alla guerra, indisciplinato per la setta che vi aveva lavorato dentro, malamente disposto contro i borghesi e i carbonari che erano rimasti a casa inviando alle frontiere gli ignari e i contadini, guidato per giunta da un generale fantastico e arrischiato; e quest’esercito si dissipò al primo urto. Anche la Spagna, del resto, la guerriera Spagna di pochi anni innanzi, presentò nel 1823 poca o nessuna resistenza all’esercito del duca d’Angoulême. Le speranze di libertà costituzionale andarono sommerse; e se, nella reazione che tenne dietro, l’Italia meridionale non venne risospinta alle condizioni precedenti all’età napoleonica, fu perché tornava impossibile distruggere l’accaduto, e tentarlo sarebbe stato impresa da fanatici e da matti, pericolosa ai fini stessi che si proponevano le potenze conservatrici: onde dopo il 1821, come già nel 1815, l’Austria fa ai Borboni di Napoli consigliera di moderazione e di prudenza.

Con quel moto costituzionale si chiuse presso di noi il periodo della Rivoluzione e dell’Impero, non solo politicamente, ma anche nel rispetto intellettuale e della cultura. È degno di nota che nella rivoluzione costituzionale del 1820 mancarono quasi affatto i giovani: coloro che la guidarono e la maneggiarono erano tutti vecchi o uomini maturi, che avevano cospirato tra il 1792 e il 1799, partecipato alla Repubblica del’99, guerreggiato e amministrato nel decennio, e ora procuravano di mantenere quanto s’era acquistato, non solo dal proprio paese, ma dalle proprie persone. E (diversamente che nell’alta Italia dove già si era avvivato il movimento romantico) vecchia era la lora forma mentale, il razionalismo settecentesco, che aveva abbandonato una parte di sé stesso, la più idilliaca, nelle esperienze dell’assolutismo illuminato, e un’altra parte, la più estrema ed astratta, ma anche la più apocalittica, in quelle del giacobinismo, e ora si era ridotto ad arte di governo e di politica, a calcolo utilitario, spregiatore d’ideali e di entusiasmi, irrisore d’ideologie. Il carbonarismo aveva bensì procurato di dare uno sfondo religioso alle aspirazioni politiche, ma sostanzialmente non era uscito fuori dalla frigida teologia massonica e dal frigido suo simbolismo, se anche veniva in qualche modo sostituendo alle tendenze umanitarie quelle nazionali, più determinate e concrete. Nell’Italia meridionale, durante il periodo napoleonico, la germinazione delle idee fu scarsa o nulla; la filosofia, la storia, la poesia non produssero niente d’importante e di originale, come del resto neppure in Francia, dove il nuovo e originale venne allora tutto dalle correnti di opposizione, da quelle reazionarie e da quelle romantiche. Nostri ultimi scrittori rimanevano pur sempre i filosofi, i politici e gli economisti del settecento, ai quali seguirono alcuni epigoni, e solo il Cuoco s’innalza sugli altri, ma egli appunto tenne le parti dell’oppositore. Quando, or sono tre anni, ricorse il centenario della rivoluzione costituzionale del 1820, e si richiese e si ottenne che si celebrasse quella ricorrenza, io sentivo in me e in altri come una freddezza, della quale poi mi resi ragione considerando che nessun concetto, di quelli ancora vivi e attuosi in noi, si formò allora, neanche il concetto della libertà costituzionale, che divenne veramente nostro quando fu, non semplice cautela di garanzia, ma segno e mezzo d’indipendenza e di grandezza nazionale. Né gli uomini che operarono in quel moto parlano veramente al nostro cuore e alla nostra fantasia, perché furono gli stessi che erano apparsi giovani, entusiasti ed alacri nella repubblica del 1799 e nel gran lavorio del decennio, e che allora ricomparvero stanchi, esauriti e prossimi a morire alla storia.

(da: Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, 1925, pagg. 234-238)