1959: GUERRIGLIERI, STUDENTI E PRETI INFIAMMANO IL SUDAMERICA

di Massimo Iacopi -

 

La conquista del potere a Cuba da parte di Fidel Castro provoca un rialzo di temperatura rivoluzionaria. Il subcontinente sudamericano conquista la scena internazionale, in un contesto solo apparentemente bloccato dalla Guerra fredda.

 

Il 19 gennaio 1959 – quasi tre settimane dopo la caduta del governo autoritario cubano di Fulgenzio Batista e l’irruzione dei primi ribelli della Sierra Maestra nel palazzo presidenziale dell’Avana – la rivista Life pubblica un articolo intitolato: “La marcia trionfale del liberatore attraverso un isola estatica”. Tracciando il periplo che porta Fidel Castro dall’est del paese fino alla capitale cubana (raggiunta l’8 gennaio) l’autore del reportage annota che “quando egli è finalmente entrato all’Havana, il mondo intero ormai parlava di lui”.
La stampa internazionale, pronta a mettere in scena la vittoria dei barbudos come l’epopea del romanticismo rivoluzionario in opposizione all’American Way of Life o al materialismo dei gloriosi anni Trenta, conferisce nel giro di qualche settimana, un’inedita centralità a Cuba, isola che era stata uno dei gioielli dell’impero spagnolo nel Nuovo Mondo, ma che per effetto di uno statuto di semi protettorato degli Stati Uniti (instaurato dall’interruzione del legame coloniale con Madrid nel 1898) aveva in qualche modo relegato Cuba nell’oblio della geopolitica.
Persino un tenace e storico oppositore del castrismo come Jacobo Machover scriverà: “Nel mese di gennaio 1959 Cuba è entrata nella storia universale”. Nei fatti, dopo il 1959, è l’intera America Latina a entrare nuovamente nella storia universale, proprio perché gli avvenimenti cubani inaugurano un vero momento rivoluzionario che non risparmia alcun paese, né alcun settore sociale della regione e che marca profondamente con la sua impronta un quarto di secolo della vita politica fra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco. Un momento storico che, sebbene ancorato alla Guerra fredda, trasforma radicalmente il destino del subcontinente.

Cuba, il socialismo incanta di nuovo

Eppure, tutto non cominciò a Cuba. Senza risalire ancora più lontano nel tempo alla rivoluzione messicana del 1910, anch’essa beneficiata di una vasta eco fino alle rive del Rio della Plata, né alle sollevazioni agrarie della Colombia degli anni Trenta, l’inizio degli anni Cinquanta marca l’inizio di questo momento rivoluzionario. In Bolivia l’ascesa al governo attraverso elezioni del Movimento Nazionalista Rivoluzionario (MNR) di Victor Paz Estenssoro nel 1952, a seguito di una sommossa che aveva unificato il mondo delle miniere con quello delle campagne del meticciato e con quello indigeno, viene seguito da un processo di ridistribuzione delle terre senza precedenti, di nazionalizzazione dei beni di produzione e di adozione di dispositivi di inclusione sociale, sebbene il governo perda rapidamente il consenso della maggior parte dei gruppi sociali che l’avevano condotto al potere. Alla fine, la rivoluzione boliviana si conclude nel 1964 con un colpo di stato militare.
Nello stesso momento in Guatemala il presidente eletto nel 1951, Jacobo Arbenz Guzman, dà inizio a una ambiziosa riforma agraria che viene a toccare gli interessi delle compagnie americane della frutta, insediatesi nello stato sin dalla fine del XIX secolo. Arbenz viene rovesciato nel giugno 1954 da una operazione pilotata dalla CIA, con la benedizione dell’Organizzazione degli Stati Americani e il silenzio della Comunità Internazionale.
Sebbene la maggior parte dei paesi dell’America latina appaia come l’archetipo di un Terzo mondo che scopre di trovarsi di fronte a una crescita demografica galoppante (il tasso di crescita annuale della popolazione è del 2,8% fra il 1961 e il 1970) e di battere tutti i suoi record in materia di povertà e di ineguaglianza, gli interventi americani e l’estremo conservatorismo delle oligarchie locali sembrano escludere, nel breve periodo, qualsiasi trasformazione sociale riformista. Da quel momento, si impone a una parte delle sinistre latino-americane la scelta dell’opzione della rivoluzione e della lotta armata. L’argentino Ernesto Che Guevara presente a La Paz nel 1952 e a Città del Guatemala nel 1954, incarna questo momento di radicalizzazione anteriore al 1959, sebbene il suo incontro con i fratelli Castro, a Città del Mesico nel luglio 1955 sia altrettanto decisivo nella costruzione del successivo mito rivoluzionario.
In questo contesto, la seduzione esercitata dalla rivoluzione cubana in America Latina per almeno dieci anni si basa essenzialmente su tre fattori. In primo luogo, l’eccezionalità del processo che porta Castro al potere (ottantadue guerriglieri sbarcati dallo yacht Granma nel dicembre 1956 sulla spiaggia di Las Coloradas a Niquero riescono a vincere un esercito sostenuto, fino quasi alla fine, da Washington) o quanto meno la messa in scena di questa eccezionalità – in particolare da parte di Regis Debray nel suo best seller Rivoluzione nella Rivoluzione? (1967) – in quanto l’opposizione al regime dittatoriale di Batista era molto ampia e non limitata ai soli barbudos.
In secondo luogo, la sua autentica capacità di trasformazione sociale nei primi anni, estrinsecata dalla riforma agraria e dalla campagna di alfabetizzazione, passando attraverso politiche pubbliche progressiste per quanto riguarda le donne, nonché dall’accesso alla sanità o dalla democratizzazione culturale.
In terzo luogo, il vigore messo in campo dal regime per difendersi dai diversi tentativi di destabilizzazione e nel mantenersi al potere, sia durante l’embargo, decretato dagli USA a partire dal 1960 (con la contropartita di rinunciare ai sogni originali di non allineamento per gettarsi nelle braccia di Mosca) sia nel corso del tentativo di sbarco controrivoluzionario della Baia dei Porci nell’aprile 1961.
La Conferenza tricontinentale organizzata a L’Avana nel gennaio 1966, che riunisce 512 delegati provenienti da 82 paesi appartenenti in maggioranza al Terzo mondo, costituisce il culmine della rivoluzione cubana, non solo in America Latina, ma anche in Africa e in Asia. La fondazione dell’Organizzazione di Solidarietà dei Popoli d’Asia, Africa ed America latina (OSPAAAL) fornisce alla politica estera castrista un nuovo organo ufficioso, mondialmente conosciuto anche per la qualità grafica dei manifesti di propaganda prodotti e diffusi sotto la sua direzione.
Ovunque a sud del Rio Bravo si costituirono gruppi di guerriglieri che adottarono un’organizzazione propria oppure estrapolandola dal modello rivoluzionario dei focos guevaristi: nel caso specifico, il Movimento della Sinistra Rivoluzionaria di Domingo Alberto Rangel Bourgoin nel Venezuela (MIR, 1960), scissione del Partito Socialdemocratico Azione democratica (AD), allora al potere; le Forze Armate Ribelli nel Guatemala (FAR, 1962); o ancora l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) e le Forze Armate Rivoluzionarie (FARC) in Colombia, entrambe costituite nel 1964. Nella seconda metà degli anni 1960 verranno ad aggiungersi fenomeni di guerriglia urbana, sull’esempio dei Tupamaros uruguaiani (1965) o dell’Esercito Rivoluzionario del Popolo in Argentina (ERP, 1970). Molti di questi guerriglieri sono transitati da Cuba, vera Mecca rivoluzionaria degli anni Sessanta, e spesso vi sono stati formati militarmente. Del resto, L’Avana cerca in tutti i modi di esportare la sua rivoluzione, per meglio consolidarla di fronte al nemico imperialista incarnato dagli USA.
Il movimento del Sessantotto consente di misurare l’ampiezza dell’onda d’urto cubana, poiché anche gli studenti in rivolta del Cile (1967), del Brasile e del Messico (1968) e della Colombia (1971), o gli operai del Cordobazo argentino (1969) rivendicano – in maniera più o meno esclusiva – l’eredità del castrismo o del guevarismo.
Fuori dall’America Latina, e nonostante la cocente sconfitta dell’esperienza di Che Guevara, partito per il Congo nel 1965, Cuba lancia a quel punto una nuova fase del suo internazionalismo rivoluzionario e di espansione del socialismo, inviando al massacro circa trecentomila uomini in Angola, fra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta. Tutto questo in nome della lotta contro il colonialismo e dell’espansione del socialismo, senza tuttavia riuscire a sviluppare un proprio programma di fronte alle pressioni dell’Unione Sovietica.
Peraltro, nello stesso periodo, la rivoluzione cubana riceve anche il sostegno di numerosi intellettuali, soprattutto occidentali, che, appena tre anni dopo il XX Congresso del Partito Comunista Sovietico (che ha reso pubblici i crimini dello stalinismo e considerevolmente “offuscato” il suo mito), pensa di potervi intravvedere i segni di una rinascita e id un rilancio dell’orizzonte socialista al di sotto dei tropici. La Cuba di Castro attira importanti flussi di militanti europei, nutriti dalle idee del terzomondismo nascente, di critiche della società dei consumi e desiderosi di mettere mano alla rivoluzione.

Il viaggio a Santiago

I movimenti di guerriglia non sono le sole espressioni di questo momento rivoluzionario, che si concretizza anche in diverse esperienze di governo. La rivoluzione militare peruviana del 1968, sotto la guida del generale Juan Velasco Alvarado si traduce in una riforma agraria di notevole ampiezza e in un tentativo di politica a favore dei nativi – fatto eccezionale per l’epoca – mentre Lima e l’Avana ristabiliscono le loro relazioni diplomatiche. Nel settembre 1970 la vittoria elettorale dell’Unione Popolare (UP, coalizione di forze politiche di sinistra) nel Cile viene percepita da numerosi osservatori, soprattutto a sinistra, come una possibile “seconda Cuba”, sebbene l’ostinazione del socialista Salvador Allende Gossens (vittorioso al suo quarto tentativo alle elezioni presidenziali) e la “via cilena al socialismo”, risolutamente democratica, abbiano ben poco a che vedere con la teoria dei focos rivoluzionari e con il regime del partito unico instaurato a Cuba nel 1965.
Di fatto, mentre le sinistre europee guardano a Cuba come a un simbolo antimperialista, carico di esotismo e di folklore rivoluzionario, l’esperienza cilena si costituisce come un autentico nuovo modello, che incarna le possibilità di vittoria elettorale di una unione delle sinistre. François Mitterand e Gaston Defferre, per il Partito Socialista francese, Jacques Duclos ed Etienne Fajon per il Partito Comunista francese sono alcuni dei soggetti politici europei di sinistra che fra il 1970 ed il 1973 si recano a Santiago del Cile per osservare la trasformazione radicale della società. Queste visite in Cile contribuiranno a rendere difficili le relazioni fra Castro e Allende, mal sopportando il primo l’ombra che gli getta la fama internazionale del secondo.
L’immensa emozione provocata dal colpo di stato dell’11 settembre 1973 e la morte di Allende sono, d’altronde, all’altezza delle passioni politiche che aveva suscitato l’Unione Popolare cilena per tre anni, spesso percepita come un nuovo tentativo di riconciliazione fra marxismo e democrazia, allo stesso modo in cui lo era stato il socialismo dal volto umano di Alexander Dubcek in Cecoslovacchia. Inoltre, l’analisi della caduta dell’UP, compilata allora da Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano, costituirà una matrice decisiva per il “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana e dimostra fino a che punto la vita politica latino-americana sia suscettibile di pesare al di là delle sue frontiere naturali.
Con grande delusione degli ambienti conservatori, la febbre rivoluzionaria guadagna anche settori tradizionalmente poco inclini al filocomunismo, come la Chiesa cattolica. Dal 24 agosto al 6 settembre 1968 si riunisce a Medellin, la seconda Conferenza dell’episcopato latino-americano. Due settimane di lavori portano alla pubblicazione di un documento che sollecita le chiese d’America Latina a prendere coscienza della misura delle sofferenze sopportate dalla maggioranza delle popolazioni della regione, facendo appello alla liberazione degli oppressi. Il documento dei vescovi denuncia le strutture di dominio politico ed economico ereditate dal periodo coloniale, condanna il capitalismo liberale e le ineguaglianze che non cessano di aumentare, esprimendo un’opzione preferenziale per i poveri. Questi sono i grandi orientamenti delle conclusioni della Conferenza, che esigono la messa in opera di una pastorale impegnata – anche sovversiva, se le circostanze lo esigono – all’affermazione della fede cristiana come matrice della trasformazione sociale, conformemente al messaggio dei Vangeli e non come un pilastro dell’ordine stabilito.
Conseguenza diretta dell’aggiornamento proveniente dal Concilio Vaticano II, la Conferenza di Medellin cristallizza anche alcune mutazioni del cattolicesimo latino-americano dalla fine degli anni Cinquanta. In Cile, Monsignor Manuel Larrain Errazuriz prende l’iniziativa della ridistribuzione delle terre ecclesiastiche nel suo vescovado di Talca. Nel Brasile, dal suo arcivescovado di Olinda Recife, nel Pernambuco, Monsignor Helder Pessoa Camara assume una posizione a favore dei contadini e reclama una riforma agraria. In Argentina, il Movimento dei Preti per il Terzo Mondo (Sacerdotes para el Tercer Mundo) mette al centro la questione del sottosviluppo e dialoga con il marxismo e la teoria della dipendenza (seconda metà degli anni Sessanta). E’ da questa effervescenza intellettuale che deriva la Teologia della Liberazione nel 1971, con la pubblicazione concomitante della Teologia della Liberazione, Prospettive, del teologo peruviano Gustavo Gutierrez e di Gesù Cristo liberatore, saggio di cristologia critica, del brasiliano Leonardo Boff. Alcuni sacerdoti passano persino all’azione, come il colombiano Camilo Torres Restrepo che nel 1966 prende le armi con l’ELN e muore in combattimento.
Se questo Cristianesimo della liberazione va incontro a una certa eco in Europa, in Vaticano ispira anche notevole sospetto. Non è quindi un caso la prima visita di un papa in America latina, quella di Paolo VI, in occasione della Conferenza di Medellin nel 1968. L’elezione di papa Giovanni Paolo II segna la fine della Teologia della liberazione che diventa oggetto di una sistematica politica di repressione da parte della Santa Sede.

Controrivoluzione

La paura di una contaminazione di tutta l’America Latina da parte dell’idea rivoluzionaria diventa anche una potente molla nella politica estera degli Stati Uniti. Il 13 marzo 1961, due mesi dopo l’arrivo alla Casa Bianca, John Fitzgerald Kennedy formula all’indirizzo del subcontinente latino-americano il programma di una Alleanza per il Progresso, ricorrendo al paradigma rivoluzionario, come fanno a quel tempo quasi tutti gli attori politici latino-americani: “Noi proponiamo di portare a buon fine la rivoluzione delle Americhe al fine di costruire un emisfero in cui tutti gli uomini possano sperare un livello di vita decente nella dignità e nella libertà”. Con l’obiettivo di minare i fondamenti sociologici della sovversione, Washington si impegna a fornire un aiuto allo sviluppo a tutti i governi che si dimostrino nello stesso tempo anticomunisti e disposti a lottare contro la povertà e le disuguaglianze.
Il paese che beneficia maggiormente del dispositivo americano lungo gli anni Sessanta è il Cile, soprattutto dopo la vittoria presidenziale del democratico Eduardo Frei Moltalva nel 1964: Santiago riceve più di 1,5 miliardi di dollari da Washington o da parte di istituzioni finanziarie multilaterali. Invano, poiché questo non impedisce ad Allende di vincere le elezioni del 1970, fornendo in tal modo alla Casa Bianca la sensazione che l’America latina sia presa in “un sandwich fra Cuba e il Cile”. Richard Nixon, che nel 1967 aveva stimato che l’America latina sarebbe diventata una polveriera se non si fosse risolta la questione del suo sottosviluppo, si orienta prioritariamente sulla necessità di schiacciare “questo figlio di puttana di Allende”. Nixon può essere considerato come uno dei principali ispiratori morali della tragedia cilena dell’11 settembre 1973.
Se la responsabilità di Washington nell’ondata controrivoluzionaria (avviata all’inizio degli anni Sessanta) è dimostrata, sarebbe semplicistico attribuire solo al governo americano la militarizzazione delle società latino-americane. In seno a quest’ultime, in effetti, una parte della gerarchia cattolica, le forze armate, i grandi proprietari terrieri, le oligarchie economiche, così come larghi settori dell’opinione pubblica, sono favorevoli a questo processo e accolgono con entusiasmo l’instaurazione di regimi autoritari, accordando loro un sostengo spesso duraturo. Questo atteggiamento è testimoniato anche dall’entusiasmo di milioni di argentini per il Mundial di calcio del 1978, nel momento in cui la dittatura di Jorge Videla tortura gli oppositori talvolta a poca distanza dagli stessi stadi di calcio.
La diffusione della dottrina di sicurezza nazionale fra le gerarchie militari di quasi tutti i paesi latino-americani costituisce un elemento decisivo per comprendere la natura di questi nuovi regimi autoritari. Basata sulle riflessioni strategiche condotte negli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale, ma anche in seno alla Scuola Superiore di Guerra fondata a Rio de Janeiro nel 1949, e alimentata dagli apporti tecnico-tattici della guerra controrivoluzionaria teorizzata dell’esercito francese (nel contesto delle guerre coloniali a partire dalla fine degli anni Cinquanta), questa dottrina mette l’accento sul pericolo interno rappresentato dal comunismo, dando così la priorità allo “sradicamento del cancro marxista”.
Da queste considerazioni deriva la messa in opera di un sistema di controllo di sicurezza da parte dello stato, spesso poco incline al rispetto delle regole e tendente all’uso di metodi non di stretta ortodossia “democratica”, per conseguire i suoi fini di sicurezza sociale. Sono frequenti il ricorso alla tortura, alle esecuzioni sommarie, alle sparizioni. I regimi di sicurezza nazionale, però, non hanno il monopolio esclusivo della repressione dei tentativi rivoluzionari. In Venezuela, dove la democrazia è stata ristabilita nel corso del 1958, i governi socialdemocratici di Romulo Betancourt Bello e di Raul Leoni come anche quello del democratico cristiano Rafael Caldera Rodriguez, conducono una lotta senza quartiere contro i numerosi focolai rivoluzionari sorti nel paese. Nel Messico, dove il Partito Rivoluzionario Istituzionale controlla senza opposizione lo spazio politico dalla fine degli anni Venti, la ribellione studentesca del ‘68 viene repressa nel sangue qualche giorno prima dell’apertura dei Giochi Olimpici d’estate.

Autopsia di un fallimento

Nel luglio 1979 si apre in America centrale un ultimo capitolo del momento rivoluzionario, con la vittoria del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN), che in Nicaragua rovescia il governo Somoza. Il nuovo tentativo rivoluzionario dà vita a un’esperienza fallimentare che rimarrà al potere fino al 1990. Nel 1980 la costituzione del Fronte Farabundo Martì di Liberazione Nazionale (FMLN), in Salvador, costituisce una tappa decisiva nello spostamento della febbre rivoluzionaria verso l’istmo centroamericano, mentre il mito cubano subisce un progressivo appannamento al ritmo del crescere dell’allineamento di Cuba a Mosca e della sovietizzazione del regime dell’Avana.
I tempi sono ormai molto cambiati dall’epoca dell’entrata trionfale dei barbudos a l’Avana: all’orizzonte messianico della lotta armata, brutalmente offuscata dai precedenti fallimenti e dalla morte del Che Guevara in Bolivia nel 1967, quindi dalle lotte intestine fra guerriglieri, si sostituisce progressivamente quello dei diritti dell’uomo, mentre il marxismo resiste sempre meno alle delusioni derivate dall’applicazione del socialismo reale.
Nel 1964 un colpo di stato porta al potere in Brasile una giunta di militari e civili che avrebbe tenuto il potere fino al 1985. In particolare, i militari brasiliani sono gli autori più riusciti di un modello di governi di sicurezza nazionale che, a partire dal 1968 al 1974, condurranno una lotta senza quartiere contro la guerriglia urbana e rurale della sinistra nel paese.
Negli Stati Uniti la determinazione del nuovo presidente Ronald Reagan nell’azione per lo sradicamento dei Sandinisti in Nicaragua si traduce, nei fatti, con un sostegno finanziario e militare ai contras antisandinisti. In Salvador si scatena la violenza degli squadroni della morte, responsabili, in particolar modo, dell’assassinio dell’arcivescovo Oscar Romero. Le ultime febbri rivoluzionarie vengono soffocate nel corso degli anni Ottanta, fatto che tende a riportare nuovamente l’America Latina, piombata nel “decennio perduto dei debiti”, in una posizione di secondo piano nelle relazioni internazionali.
Sessant’anni dopo la fiammata del 1959, che cosa rimane di questi due decenni durante i quali le sinistre latino-americane hanno tentato di trasformare le società con la violenza? Solo il regime cubano, ormai con il fiato corto, sopravvissuto alla caduta dell’Unione Sovietica e alla morte di Fidel Castro, ma che da tempo ha rinunciato alla propagazione dell’ideologia, aprendosi gradualmente al capitalismo ma persistendo nel confinare la propria popolazione ai margini del mondo. Sebbene la memoria dei militanti caduti sotto i colpi della repressione rimanga ancora viva, non vanno comunque sottovalutate le cocenti sconfitte subite e, in particolar modo, le numerose illusioni perdute.
L’America Latina rimane ancora oggi teatro di grandi diseguaglianze sociali e – lo dicono le statistiche – la più violenta del mondo. Tutto questo nonostante a partire dal 1973 (colpo di stato in Cile) sia diventata il laboratorio della mutazione neoliberale, capace di caratterizzare la storia globale degli ultimi quattro decenni, e nonostante numerosi governi di sinistra – giunti al potere dopo il 1985 attraverso regolari elezioni – si siano succeduti al potere. A questi ultimi, infatti, si deve la responsabilità di aver aggiunto, alle precedenti, ulteriori frustranti delusioni.

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Per saperne di più
Massimo De Giuseppe, Gianni La Bella, Storia dell’America latina contemporanea – il Mulino, Bologna, 2019;
Loris Zanatta, Storia dell’America latina contemporanea – Laterza, Roma-Bari, 2010;
Raffaele Nocera, Angelo Trento, America Latina, un secolo di storia. Dalla rivoluzione messicana a oggi – Carocci, Roma, 2013.