1814-1815, L’IDEA DI “FRANCIA” RIDEFINITA E CORRETTA

di Massimo Iacopi -

I trattati di Parigi del 1814 e del 1815 riportano la Francia all’interno delle frontiere del 1792 e poi a quelle del 1790. Con la fine della nazione imperiale l’Assemblea Nazionale di Parigi è quindi costretta a ridefinire cosa siano la nuova Francia e i francesi.

 

Napoleone alla battaglia del Ponte di Arcole

Napoleone alla battaglia del Ponte di Arcole

Il 6 aprile 1814, con l’abdicazione di Napoleone Bonaparte, i francesi sono senza imperatore. Con il primo Trattato di Parigi, firmato il 30 maggio seguente, essi perdono anche il loro impero. Il trattato, firmato con ciascuna delle potenze belligeranti, consacra effettivamente la cessione-restituzione di ben quarantaquattro dipartimenti, creati dalla Francia tra il 1792 e il 1812, da Roma ad Amburgo per un totale di tredici milioni di abitanti, a loro volta distribuiti su territori già appartenenti a Spagna, Italia, Svizzera, Belgio, Germania, Lussemburgo e Olanda.
Se il trattato non vieta agli ex sudditi francesi di continuare a rimanere francesi, i deputati dell’assemblea francese, attraverso la legge 14 ottobre 1814, impongono la clausola di dieci anni di residenza nella Francia interna o, per diventare di nuovo francesi, la stessa durata di residenza nei territori rimasti francesi. Le popolazioni, di fronte a questa complicazione, decidono di non servirsi di questa norma (articolo 17) che, ai loro occhi, non è altro che una clausola estranea al diritto dei popoli a disporre di sé stessi e che sottintende, peraltro, un semplice cambiamento di “padrone”. L’assemblea francese, rifiutando di prendere atto degli effetti di venti anni di espansione territoriale, mette una pietra tombale sull’esperienza imperiale napoleonica.
Del resto, si tratta solamente di sancire, con un ordine giuridico, uno stato di fatto militare consumatosi a Lipsia a seguito della campagna di Germania il 19 ottobre 1813. L’Impero napoleonico è crollato come un castello di carte nel corso delle settimane seguenti. Alla scomparsa del Ducato di Varsavia e a quella delle Province Illiriche, si sono aggiunte, a quel punto, l’evacuazione della Westfalia da parte del re Girolamo Bonaparte e l’occupazione russa di Dusseldorf, capitale del Granducato di Berg. La dissoluzione della Confederazione del Reno, il 4 novembre 1813, prende atto della fine del protettorato francese sulla Germania.
Il riconoscimento di re Ferdinando VII di Borbone come sovrano di una Spagna confermata nelle frontiere del 1808, comporta, l’11 dicembre, la fine dello Stato afrancesado di re Giuseppe Bonaparte.
La Confederazione Elvetica, di cui Napoleone era il mediatore, si apre ai coalizzati il 20 dicembre, mentre viene occupato, il 24 dello stesso mese, il Principato di Neuchâtel del maresciallo Berthier.
Nella penisola italiana la defezione di re Gioacchino Murat dalle file napoleoniche comporta non solo il mantenimento del suo regno di Napoli, ma anche una minaccia sui dipartimenti romani e toscani. Agli inizi del 1814 alla Francia rimane come alleato solamente il Regno d’Italia, con capitale Milano.

Una evacuazione ordinata

I dipartimenti persi dalla Francia dopo Napoleone

I dipartimenti persi dalla Francia dopo Napoleone

Quando si parla di Stati satelliti o di corone vassalle, si designano quei territori tributari, indubbiamente cruciali per il sistema napoleonico, ma comunque rimasti al di fuori della Francia. Per effetto dei loro legami con i principi Bonaparte, molti francesi vi ricoprono delle cariche, ma con una certa reticenza. In effetti, essi erano stati fortemente invitati, nel 1811, ad adottare la nazionalità delle loro nuove patrie.
In ogni caso, l’avvenire di questi Paesi viene affidato alle decisioni del Congresso di Vienna (settembre 1814-giugno 1815).
L’abbandono dei 44 dipartimenti francesi assume tutto un altro significato. Non si tratta, in questo caso, di trarre solo le conseguenze della caduta di Napoleone, liquidando le sue conquiste. Con questo provvedimento la Francia perde anche i territori del Belgio, la cui annessione era di quattro anni antecedente al colpo di stato napoleonico del 18 brumaio. Ecco dunque il motivo per il quale l’imperatore si era ostinato a rifiutare qualsiasi pace che avrebbe sacrificato il porto di Anversa e la frontiera sul Reno: altrimenti come era possibile porsi come garante delle acquisizioni della rivoluzione, dopo essere stato incapace di difendere una delle sue conquiste?
Ma poiché le armi hanno ormai dato il loro verdetto, spetta ai sovrani vincitori alleati il compito di decidere: la Francia non solo ritrova un Borbone sul trono, ma rientra anche nelle sue frontiere del 1° gennaio 1792, pur avendo inglobato le enclave del contado Venassino e di Avignone (ex dipendenza dello Stato della Chiesa), di Mulhouse e di Montbeliard e una larga parte della Savoia.
Al di fuori di tali frontiere, a parte le piazzeforti francesi già dal XVII secolo (Philippeville, Meriemburg, Sarrelouis e Landau) e qualche cantone dei dipartimenti di Jemappes, della Sambre, della Mosa e della Sarre, tutto il resto è perduto. Inoltre, i nativi della vecchia Francia dovranno cessare da tutte le funzioni pubbliche occupate all’estero. Questa “defrancesizzazione” del personale però non maschererà, sotto altro nome, il mantenimento delle istituzioni francesi.
Di fatto, in special modo in politica interna, risulta praticamente impossibile annullare gli effetti della Rivoluzione e dell’Impero. Quale statuto accordare ai popoli “fratelli” dei dipartimenti “riuniti” che sono stati accolti sotto il direttorio e il consolato? Come considerare questi uomini che per tre, sei o diciotto anni sono stati contribuenti, coscritti e cittadini francesi a pieno diritto?
Indubbiamente, le popolazioni insorte dell’Olanda e delle città anseatiche hanno manifestato il loro rigetto nei confronti di questi legami imposti, nel caso specifico, dal blocco continentale contro l’Inghilterra a partire dal 1806. La stessa considerazione vale, su scala ridotta, per la rivolta dei giovani fiamminghi del Dipartimento della Lys o di quelli della Toscana e della Liguria. Altrove, nonostante il crollo dello spirito pubblico, l’ordine francese è stato più o meno rispettato fino al momento dell’evacuazione. La rivolta in Piemonte e in un cinquantina di località, fra le quali Anversa, Barcellona, Genova, Amburgo e Magonza, si verificherà solo dopo la Convenzione del 23 aprile 1814 e risulterà quindi posteriore all’abdicazione di Napoleone.

La paura degli immigrati poveri

Benjamin Constant

Benjamin Constant

I deputati francesi, non potendo più assumere come in precedenza decisioni sul destino dei popoli, sono costretti a interessarsi della sorte degli individui. È quello che accade in occasione delle sedute del 28 e 29 settembre 1814, che sfoceranno nella votazione della legge del 14 ottobre dello stesso anno. Si assiste, a quel punto, al risveglio di dibattiti, tipici dei tempi della Convenzione o del Direttorio, quando si affrontavano due idee universali e dove, facendo trionfare l’idea dello Stato-nazione, i rappresentanti del popolo francese avevano posto le basi di uno Stato-impero. Sotto la Restaurazione, i loro successori sono costretti a stabilire l’interpretazione di questo fatto compiuto sul campo, vale a dire a ridefinire che cosa è la Francia e che cosa sono i francesi.
Quella che viene proposta alla votazione del 14 ottobre 1814 è una concezione ristretta della nazionalità. Per rimanere cittadino francese, occorre dimostrare dieci anni di residenza nella Francia dell’interno. La paura di un afflusso di immigrati poveri spinge allora a imporre delle condizioni talmente restrittive, che potrà rispondere a questi requisiti solo una ristretta cerchia di individui (ad esempio, 140 magistrati belgi), già inseriti nei circuiti commerciali o istituzionali del Paese; in definitiva, prevale l’interesse, ben compreso da tutti, di una immigrazione selettiva di manifatturieri o di persone, diciamo “utili”. Per contro, la porta resta ben chiusa per i rivoluzionari di Liegi, i clubisti di Magonza o i giacobini. La stessa cosa vale per i veterani bonapartisti, che potrebbero aspirare, e a buon diritto, a una pensione militare, o anche solo ad una mezza paga (demi solde).
Al di là delle preoccupazioni a breve termine, quello che è in gioco è certamente l’identità di un intero Paese, fra nazione, regno e impero: gli uni, di sensibilità tradizionalista, riducono il momento espansionista a un episodio senza domani, che non deve toccare un corpo nazionale già consolidato, gli altri – quelli che daranno vita alla spinta patriottica – inscrivono, al contrario, lo stesso momento in una dinamica storica spezzata dal caso delle armi e vorrebbero che siano riconosciuti i servizi resi nel contesto di una storia condivisa.

Alla ricerca di una identità storica

Luigi XVIII risolleva la Francia, di -Louis-Philippe Crepin, 1814

Luigi XVIII risolleva la Francia, di Louis-Philippe Crepin, 1814

Alcuni deputati distinguono le popolazioni incorporate sulla base del solo diritto di conquista da quelle la cui riunione è stata oggetto di un voto, oppure è stata avallata, diciamo così, dai loro vecchi sovrani (Nizza, Savoia, Belgio, Renania e Liguria).
All’inverso, partendo dal principio che la libertà costituisce la conditio sine qua non della formazione di un corpo politico, il deputato Gustave Fornier de Saint Lary punta l’indice sui condizionamenti militari che hanno pesato e pesano sugli abitanti dei territori annessi; questa violenza originale annulla il valore dei plebisciti e tutti gli altri segni di integrazione. Egli mette in guardia contro le conseguenze di una eventuale eccessiva “larghezza di vedute” «della quale ne risulterebbe spaventato anche il cosmopolitismo più ardente». Il deputato Joseph Vincent Dumolard replica, evocando lo spettro della decomposizione nazionale, perché anche lo stesso vecchio regno di Francia risulta costituito da provincie anch’esse acquisite o conquistate: «Io non vedo proprio dove si andrebbe a finire con un tale sistema; avrei dei dubbi se i Fiamminghi, i Lorenesi, gli Alsaziani non si sentissero francesi». All’annuncio della Pace di Luneville, il 9 febbraio 1801, lo stesso Bonaparte, in risposta alle felicitazioni del Corpo Legislativo, aveva fatto risalire al Trattato di Campoformido (1797) il momento in cui «i belgi erano ormai francesi, come lo sono i normanni, quelli della Linguadoca ed i borgognoni».
Tuttavia, in una assemblea composta di deputati nominati sotto l’Impero, si impone una concezione ristretta, sanzionando, in tal modo, l’esame di coscienza collettivo iniziato con il De l’esprit de conquête et de l’usurpation dans leurs rapports avec la civilisation européenne di Benjamin Constant. L’espansione repubblicana e napoleonica rappresenta, pertanto, una deviazione rispetto alla via storica, per meglio dire monarchica, della costruzione del Paese: poiché sono stati i re che hanno fatto la Francia, sono francesi solo i popoli che lo sono diventati sotto un re… Per contrasto, l’impresa imperiale è stata una «bizzarra e gigantesca riunione che, certamente non poteva essere di lunga durata», per usare le affermazioni del deputato Joseph Pemartin. Succede pertanto quello che doveva succedere: «Ogni popolo riprenda la sua precedente esistenza!».
Tutta una discendenza di storici, specialmente in occasione del Trattato di Versailles, all’indomani della Grande Guerra, metterà in evidenza le tracce lasciate dalla Francia nei territori perduti nel 1814-1815 (il secondo Trattato di Parigi del 20 novembre 1815, dopo Waterloo, aggrava il primo trattato con il ritorno alle frontiere del 1790) e la vulnerabilità di un paese privato dei suoi limiti, cosiddetti naturali, a cominciare dalla frontiera sul Reno.
Ci sarà, tuttavia, un’altra storia da scrivere o piuttosto una memoria da ritrovare che, abbandonando il prisma politico (sciovinismo, patriottismo, imperialismo) si sarebbe interessata a processi, in termini di appropriazione, di circolazione e di ricordo. Tutto questo prima che le province perdute nel 1871 non contribuiscano a far definitivamente dimenticare i dipartimenti perduti nel 1814 e prima che il completamento repubblicano dello stato nazione non respinga l’esperienza alternativa di uno stato-impero. In realtà, tale ricordo era stato conservato specialmente dai funzionari rimpatriati e dai legami amichevoli che ne erano nati, oltre che dalle abitudini assunte durante l’epoca napoleonica.

Per saperne di più

Jean-Claude Caron, La France de 1815 à 1848 – Armand Colin,‎ 2002.
Vittorio Criscuolo, Il Congresso di VIenna - Milano, Il Mulino, 2014.
Emmanuel de Waresquiel e Benoît Yvert, Histoire de la Restauration (1814-1830): naissance de la France moderne – Perrin,‎ 1996.