1789-1793, LE SPERANZE DELUSE DELLE FEMMINISTE FRANCESI

di Sebastiano Granata -

Con la rivoluzione francese le rivendicazioni di parità ed emancipazione delle donne furono oggetto di ampio dibattito. Ma la cosà, in realtà, non andò oltre l’approccio teoretico. La sostanziale impopolarità del femminismo, ma anche i suoi errori e il dogmatismo dei suoi oppositori contribuirono a metterne a tacere le richieste.

Club patriottico femminile nel 1791.

Club patriottico femminile nel 1791.

(Da Storia in Network n. 107, settembre 2005) Il femminismo francese ha un’ampia storia e radici molto antiche rispetto al tumulto di nuove idee che caratterizza la Rivoluzione Francese. Fin dal Medio Evo, donne e uomini francesi hanno discusso di uguaglianza dei diritti civili e politici tra i sessi, di istruzione della donna, della sua posizione economica, e delle sue relazioni con il padre ed il marito.
Nel XVIII secolo gli intellettuali condussero un dibattito abbastanza moderato sulla posizione delle donne all’interno della società, discussione che divenne gradualmente più accesa fin che, nei primi anni della Rivoluzione Francese, un ristretto gruppo di pensatori sostenne la necessità di cambiamenti che, se messi in pratica, avrebbero trasformato le caratteristiche della civiltà francese molto più di quanto si verificò con l’abolizione della monarchia.
Nubili o sposate, durante gli ultimi decenni dell’ancien régime, le donne avevano dei diritti molto limitati: la loro testimonianza era ammessa nei processi civili e penali, ma non potevano agire legalmente. In linea di massima, fino al matrimonio, la donna rimaneva sottoposta all’autorità paterna. Con il matrimonio poi passava direttamente sotto quella del marito. Da sposata non aveva alcun controllo sulla propria persona e sulla proprietà. Solo la morte del marito poteva offrirle qualche possibilità di indipendenza. Come spiega R. J. Pothier, un giureconsulto del XVIII secolo, “la nostra legge ha posto le donne in una tale condizione di dipendenza dai loro mariti ce non è lor concesso di fare alcunché di legalmente valido, nulla che sia riconosciuto dalla legge civile, a meno che non siano i loro stessi mariti ad autorizzarle”.

La condizione economica delle donne del diciottesimo secolo non era peraltro invidiabile: le loro paghe erano estremamente basse, sebbene costituissero, nelle famiglie delle classi meno agiate, una fonte essenziale alla sopravvivenza. Le donne erano escluse dalle corporazioni e anche la leggera modernizzazione dell’industria, verificatasi prima della Rivoluzione Francese, tendeva a rendere peggiori le loro condizioni. In linea di massima sia le usanze che la legge confinavano le donne al servizio domestico o a lavori più pesanti e a produzioni ad alta intensità di lavoro e sottopagate.
Era questa la condizione di subordinazione sulla quale gli intellettuali del diciottesimo secolo iniziarono a discutere. Le grandi figure dell’Illuminismo- Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Diderot, Condorcet ed altri enciclopedisti – contribuirono al dibattito, ma non ne furono i principali esponenti. Dalla metà del secolo in poi, un piccolo esercito di scrittori oggi sconosciuti fece sua la causa femminista: l’abate Joseph-Antoine Toussaint Dinouart, P. Florent de Puisieux, M.lle Archambault, P. J. Caffieux e M.me Coicy. In veste di difensori della rivoluzione sociale, questi pensatori appaiono in realtà piuttosto moderati. Qualche idea avanzata comparve su una rivista mensile, il Journal des Dames. Il suo editore era, nel 1744, M.me de Montenclos, una sostenitrice accanita dei diritti delle donne che proclamava con nettezza: “Non sto cercando di attirare l’attenzione su me stessa, ma giuro che voglio scuotere tutte le nostre abitudini, per arrivare a garantire alle donne quella giustizia che gli uomini rifiutano loro come se fosse un capriccio”.

Molti oppositori di queste richieste si celavano nella vasta letteratura rivolta all’educazione delle donne. Restif de Bretone, seguendo l’esempio dell’Emile di Rousseau, sosteneva che qualunque idea d’uguaglianza dovesse essere soppressa: alle donne dovevano essere proibite la lettura e la scrittura, in modo che la loro attività fosse limitata allo svolgimento degli utili lavori domestici. Mentre i sostenitori del femminismo tendevano ad esaltare il matrimonio e la maternità come un diritto da rivendicare rispetto alla società, gli anti-femministi usavano questa stessa “vocazione naturale” per dimostrare che le donne dovevano contentarsi di stare a casa e obbedire al marito.
Nel 1789 le opinioni tradizionali di tutti i tipi e l’immagine stessa della casalinga felice avevano iniziato a vacillare dopo che negli ultimi anni del decennio si erano diffuse, attraverso una serie di pamphlets, alcune teorie femministe più radicali. Le sostenitrici dell’emancipazione femminile non si accontentavano più di vaghe richieste d’uguaglianza, ma formulavano proposte specifiche riguardanti l’istruzione, i diritti civili e politici. Questi opuscoli iniziarono ad apparire nel 1787 e si moltiplicarono rapidamente.

L’argomento fondamentale era la considerazione che gli esseri umani erano naturalmente uguali, e quindi la discriminazione sessuale era innaturale; l’uomo e la donna dovevano essere soci, con uguali diritti, all’interno del matrimonio; alle donne doveva essere consentito l’accesso all’istruzione superiore e ai lavori meglio pagati. Insieme alle rivendicazioni d’uguaglianza nel matrimonio e in campo economico, le nuove femministe chiesero il diritto di voto.
Uno dei pamphlets più importanti di questi esordi femministi fu il Cahier des doléances et réclamations des femmes, par M.me B.B. L’anonima autrice iniziava manifestando il suo stupore per il fatto che le donne sembravano restie a cogliere l’opportunità di farsi sentire, e si chiedeva se gli uomini avrebbero continuato a fare delle donne le vittime del loro orgoglio e dell’ingiustizia in un’epoca in cui la gente di tutti i ceti si apprestava ad affermare i propri diritti politici e perfino ai neri era concessa la libertà. Ella affermava che proprio come un nobile non può rappresentare un popolano nelle assemblee, allo stesso modo un uomo non può rappresentare una donna. Infine, M.me B.B. condannava il doppio criterio della morale sessuale, i privilegi di anzianità e quelli di mascolinità.
Quando gli Stati generali si riunirono e il governo rappresentativo iniziò la sua attività, le femministe cambiarono tattica: non si limitarono più a scrivere pamphlets o lettere ai giornali, ma cominciarono ad inviare delegazioni al governo e a servirsi come base dei club politici.

All’Assemblea nazionale cominciarono molto presto a farsi ascoltare: nel novembre 1789 l’Assemblea ricevette una serie di “Motions en faveur du sexe”, che attaccavano la subordinazione economica delle donne e i danni della vita nei conventi. Quest’ uso di indirizzare le proposte direttamente al governo continuò almeno fino al 1793. All’inizio del 1792 numerosi parigini, di entrambi i sessi, chiesero all’Assemblea di approvare una legge contro il dispotismo del potere paterno e maritale. Nell’aprile dello stesso anno, Etta Palm van Aelders, una femminista di origine olandese, presentò una petizione all’Assemblea per ottenere l’istruzione delle fanciulle, per garantire alle donne autonomia legale a 21 anni, per assicurare ad entrambi i sessi la libertà politica e l’uguaglianza di diritti, e infine per introdurre la legge sul divorzio. L’estate successiva, una rappresentante della sezione di Beaurepaire si rivolse alla Convenzione con le seguenti parole: “Cittadini legislatori, voi avete dato agli uomini una Costituzione: ora essi godono di tutti i diritti propri degli esseri liberi, ma le donne sono tuttora molto lontane da dividere queste conquiste. [.] noi chiediamo di poter pienamente godere di tutti i diritti”.
Il presidente si congratulò con la delegata per il suo zelo e rinviò la discussione fino a nuovo ordine. Quella discussione, se fosse avvenuta, sarebbe stata certamente moto interessante. Le Assemblee erano composte in grande maggioranza da anti-femministi, ma vi erano anche alcuni sostenitori dell’emancipazione femminile.

Nel 1792 Aubert-Dubayet di Isère, sulla base di dati statistici, affermò che le donne “erano vittime del dispotismo dei loro padri e della perfidia dei loro mariti” e rimproverò alla legge francese di mantenere le donne in stato di schiavitù. Nella primavera del 1793, P. Guyoman della Côtes-du-Nord presentò alla Convenzione le sue riflessioni sull’uguaglianza politica: secondo questo delegato, l’unica differenza fra uomo e donna risiedeva nella capacità riproduttiva e non si riusciva a comprendere come una differenza puramente fisica potesse portare a delle disparità di fronte alla legge.
Sostenitori e sostenitrici dei diritti delle donne non abbandonarono tuttavia i vecchi sistemi di lotta: le lettere ai giornali erano sempre numerose. Il fondatore del Journal des Droits de l’Homme, Labenette, difendeva strenuamente i diritti delle donne.
La più importate espressione di femminismo è del 1791: Olympe de Gouges dichiarò di averne ormai abbastanza dei “diritti dell’Uomo”, e annunciò quindi i “diritti della Donna”. Il testo che ella presentò ricalcava puntualmente quello della Dichiarazione dell’agosto 1789.
La de Gouges chiedeva anche l’uguaglianza nelle opportunità di accedere alle cariche pubbliche, il diritto di denunciare la paternità dei figli nati al di fuori del matrimonio e, in generale, la soppressione di ogni tirannia maschile.
Le donne fecero sentire la loro presenza anche durante le grandi giornate rivoluzionarie e nell’esercito. Queste attività non erano, strettamente parlando, femministe, ma qualsiasi attività delle donne in una società che comunemente lodava la passività femminile contribuiva in qualche modo alla causa femminista.

Molte di coloro che animarono queste lotte sono rimaste sconosciute; ed è come se alcuni dei loro club non fossero esistiti. Le dirigenti femministe di cui si può tracciare un breve profilo biografico erano una strana mescolanza di persone di origini eterogenee.
Olympe de Gouges- al secolo Maria Gouze, nata nel 1748- era una scrittrice di commedie fallita, che finì sulla ghigliottina per la fede monarchica e per l’opposizione a Robespierre: ella si servì, per diffondere le sue teorie, di opuscoli, manifesti, lunghe lettere ai giornali e commedie di ben scarso successo. La sua influenza sull’opinione pubblica fu molto scarsa. Non ci sono dubbi sul fatto che l’autrice dei Droits de la Femme fosse un’ardente femminista. La sua esecuzione nel 1793 aveva certamente altre cause politiche, ma fu anche un chiaro monito alle femministe. Il Feuille de salut public, semi-ufficiale, si compiacque della sua esecuzione: ” Sembra proprio che la legge abbia punito questa cospiratrice per aver dimenticato le virtù che si addicono al suo sesso”.
Etta Palm era arrivata a Parigi dall’Olanda nel 1774. La Palm sollecitò l’Assemblea Costituente a dotare l’esercito di un corpo di amazzoni come “primo colpo a tutti i pregiudizi che si sono accumulati su noi donne” e difese l’idea di una “seconda rivoluzione nei costumi” al fine di abbattere la tirannia sessuale. A questo proposito ella si rivolse al popolo un Appel aux Françaises sur la régénération des moeurs et nécessité de l’influence des femmes dans un gouvernement libre.

Nel 1791 cercò di organizzare una federazione nazionale dei gruppi di donne, né il fallimento di questa iniziativa riuscì a fermarla : continuò a rivolgere i suoi appelli all’Assemblea in cui chiedeva l’uguaglianza nelle professioni, nell’istruzione e nei diritti civili e politici. Come la de Gouges, la Palm adottò una politica sbagliata, ad esempio invitando la Principessa di Borbone a presenziare ad una delle sue organizzazioni a scopo benefico. Tuttavia, al contrario della de Gouges, ebbe l’accortezza di lasciare il paese prima che il governo riuscisse ad arrestarla.
Théroigne de Méricourt è forse la più conosciuta tra queste tre donne, soprattutto per tutti gli attacchi che ricevette dai suoi contemporanei. Ella suscitò scandalo, nei primi anni della Rivoluzione, aprendo al pubblico il suo salotto, cercando di fondare un club di donne, partecipando di persona agli assalti alle Tuileries, e facendosi vedere in giro vestita da cavallerizza. Esortò le donne a formare un corpo militare, perché sosteneva, “è tempo che le donne contrastino la vergognosa incompetenza in cui l’ignoranza, l’orgoglio e l’ingiustizia maschili le ha per così lungo tempo tenute prigioniere”. Come la de Gouges e la Palm, anche Théroigne era di idee politiche moderate e vicina ai girondini. Quando fu picchiata da un gruppo di donne giacobine nella primavera del 1793, ella rimase mentalmente sconvolta. Ricoverata per un certo periodo in un manicomio e per breve tempo dimessa, fu internata permanentemente nel 1797.
Altre due donne che meritano di essere ricordate sono la cioccolataia Pauline Léone e l’attrice Claire Lacombe, fondatrici e presidenti del più famoso dei club femminili, le Citoyennes Républicaines Révolutionnaires.

Fondato nella primavera del 1793, il club contribuì alla caduta dei girondini, poi si distanziò dai giacobini per unirsi agli “enragés”, e tale passaggio causò in gran parte alla fine la sua chiusura. Le Républicaines erano sanculotte e il loro programma poneva l’accento sulle rivendicazioni economiche, soprattutto la richiesta di prezzi politici per i generi di prima necessità, piuttosto che su quelle femministe. Malgrado ciò, le Républicaines mostravano qualche favore alla lotta per l’emancipazione della donna.
Il programma femminista per attuare i cambiamenti educativi, economici, politici e legali si andava delineando pian piano. Per giustificare i loro obbiettivi le femministe si servirono di tre argomenti fondamentali. Il primo era che le donne erano esseri umani e come tali avevano gli stessi diritti naturali degli uomini. Le femministe consideravano la lotta delle donne come parallela e allo stesso tempo come un naturale proseguimento della guerra del Terzo Stato contro i privilegi delle classi superiori. Il secondo argomento usato dalle femministe era quello del ruolo biologico delle donne: esse, in quanto madri dei cittadini, avevano una funzione fondamentale nello Stato, perché ne garantivano la sopravvivenza. In terzo luogo, mentre la Rivoluzione era in corso, esse sottolineavano il contributo politico delle donne alla lotta per la libertà e la loro costanza patriottica. Le femministe si rendevano conto di avere argomenti molto validi per difendere le loro proposte, ma i governi rivoluzionari le respinsero tutte, una dopo l’altra.

L’istruzione era il principale terreno di aggregazione delle femministe. Su questo argomento, esse erano già giunte ad un certo accordo con i loro oppositori prima che scoppiasse la Rivoluzione. Prima del 1789 la convinzione che alle donne spettasse una migliore istruzione era, infatti, generalmente diffusa. I governi rivoluzionari esaminarono tutta una serie di progetti per il rinnovamento di questo settore. La maggior parte dei progetti seguivano la traccia di quello di Talleyrand, che dichiarava che entrambi i sessi avevano diritto all’istruzione, ma poi distingueva rigidamente i tipi di istruzione adatti all’uno e all’altro. Il suo “Projet de décret”, presentato nel settembre del 1791, conteneva un paragrafo che sarebbe stato successivamente citato all’infinito: “Tutte le materie insegnate nelle scuole pubbliche avranno lo scopo di preparare le fanciulle alle virtù della vita domestica e di insegnare loro tutto quanto è utile a crescere una famiglia”. Alexandre Deleyre, deputato alla Convenzione, liquidò ogni tipo di istruzione secondaria per le donne definendola inutile. Addirittura, alcuni legislatori più conservatori avrebbero eliminato anche l’educazione elementare per le donne, consigliando invece che esse venissero istruite sull’attività domestica direttamente in casa. Il Comitato della Convenzione sull’Istruzione Pubblica votò effettivamente la soppressione delle scuole femminili nell’estate del 1795, ma cambiò idea l’anno successivo. Poiché i governi rivoluzionari non riuscirono mai ad approvare un piano d’istruzione a livello nazionale, è difficile dare una valutazione del loro operato e pericoloso concludere che le donne furono trascurate.

Tuttavia non si può negare che il governo si proponeva di rafforzare e perpetuare le differenze tra i sessi attraverso l’istruzione pubblica. E altrettanto evidente che la Rivoluzione non riuscì a migliorare o ad ampliare l’istruzione femminile. D’altra parte, però, la laicizzazione dell’istruzione e la promessa di un potenziamento della scuola elementare apriva qualche speranza di impiego per le nubili istruite. Era questa infatti una delle poche speranze che la Rivoluzione dava alle donne che si guadagnavano da vivere da sole.
I governi rivoluzionari non fecero neppure alcuno sforzo per aiutare le donne danneggiate dal crollo del commercio di alcuni generi di lusso, come la seta e i pizzi. Il governo aveva infatti creato degli “ateliers nationaux” per gli uomini fin dai primi anni della Rivoluzione, ma si era mostro riluttante a fare lo stesso per le donne. Anche dove le donne furono ammesse agli “ateliers nationaux”, furono regolarmente pagate meno degli uomini.
Sotto l’antico regime, le donne potevano talvolta votare o essere reggenti; durante la Rivoluzione esercitarono il diritto di riunirsi in associazioni politiche. Tuttavia, meno di cinque anni dopo la convocazione degli Stati generali tutto ciò era svanito. I legislatori prendevano scarsamente in considerazione la questione del suffragio femminile, malgrado l’accesa campagna condotta dalle femministe. La sistematizzazione della legge elettorale francese eliminò tutti i casi eccezionali che in qualche modo avevano permesso alle donne di votare; per la prima volta, dopo secoli, le donne furono totalmente escluse come gruppo da questo aspetto della politica.

Poche persone protestarono per questa esclusione: le donne della sezione “Droits de l’Homme” di Parigi e le Républicaines Révolutionnaires condannarono le norme della Costituzione del 1793, ma si limitarono a discorsi all’interno del club delle seconde. È possibile che la scarsa frequenza delle elezioni rendesse meno evidente l’esclusione delle donne, anche perché a livello dei club e delle sezioni dove realmente si faceva politica, le donne continuarono a votare per un certo periodo. Probabilmente anche l’esclusione delle donne dalla reggenza non fu molto significativa, ovviamente perché, abolita la monarchia, chiunque veniva automaticamente escluso da questa funzione.
Per le donne comuni, il problema della cittadinanza era molto più importante del diritto di voto o di reggenza. Le donne erano sufficientemente cittadine da poter prestare giuramento civico, ovvero di servirsi di uno dei principali mezzi per dimostrare la propria adesione agli ideali rivoluzionari e per partecipare alla vita pubblica? Nel 1790, quando l’Assemblea Nazionale prestò giuramento, anche il pubblico, costituito sia da donne che da uomini, si unì ai delegati. Due mesi dopo il diritto delle donne di prestare giuramento era già messo in discussione. Brigent Baudouin, moglie di un funzionario municipale a Lanion, scrisse all’Assemblea per conto di un gruppo di donne del suo villaggio: ” Non c’è una parola nella Costituzione che riguardi le donne, e bisogna ammettere che attualmente esse non possono prendere parte al governo; malgrado ciò, le madri possono e devono essere considerate cittadine”. Quindi, secondo la Baudouin, doveva essere loro concesso di prestare il giuramento rivoluzionario di fronte alle autorità municipali. Il giuramento pubblico diventò un diritto particolarmente importante durante la festa della Federazione, nell’estate del 1790.

A Bearne la Guardia Nazionale invitò 84 donne a partecipare alla cerimonia, ma le autorità municipali rifiutarono fermamente di ammetterle. A Tolosa la polizia municipale puntò i fucili sulle donne intervenute per disperderle. Prive di regole precise a cui fare riferimento, le donne dovevano dipendere dalla buona volontà delle autorità locali. Anche a questo livello basso ma importante dal punto di vista simbolico, il ruolo politico delle donne fu sempre considerato un privilegio e non un diritto.
Una sola volta il governo rivoluzionario prese veramente sul serio le donne, ma solo allo scopo di mettere fuori legge i loro club. Sembrava che l’articolo 7 della seconda Dichiarazione dei Diritti, che garantiva il diritto di libertà di parola e di assemblea, non fosse applicabile alle donne più di quanto lo fosse l’articolo 5, che prometteva la possibilità di accesso alle cariche pubbliche a tutti i cittadini. I montagnardi soppressero i club femminili nel 1793, accusando le Républicaines Révolutionnaires di condotta antirivoluzionaria. Ci furono ben poche proteste alla soppressione dei club femminili. La Lacombe guidò una delegazione di donne alla Convenzione il giorno seguente, ma i deputati le fischiarono e le spinsero fuori con la forza. Nelle province i club si sciolsero senza clamori. Per un certo periodo le donne di Parigi continuarono a partecipare alle assemblee delle sezioni o ai club misti come la “Société Fraternelle du Panthéon”. Forse ciò rese il colpo meno duro; perlomeno, nella capitale le donne avevano qualche occasione di partecipare alla vita politica. Tuttavia la loro posizione nei club maschili era confusa; in un’assemblea della sezione “Panthéon-Français” si applaudì ad una delegazione della “Société des Amis de la République”, quando il suo portavoce affermò che, poiché i club femminili erano stati banditi, non era più possibile concedere alle donne di votare all’interno di altri club.

La soppressione dei club femminili aveva in realtà distrutto le aspirazioni politiche femministe; nondimeno, essa non fu l’affermazione più chiara delle posizioni del governo sui diritti delle donne. Infatti, dopo la giornata rivoluzionaria del primo pratile dell’Anno II(20/05/1795), la Convenzione votò per l’esclusione delle donne dalle sue riunioni; in seguito sarebbero state ammesse ad assistere solo le donne accompagnate da un uomo in possesso di un documento di cittadino. Tre giorni dopo la Convenzione mise tutte le donne di Parigi in una sorta di arresti domiciliari: “Tutte le donne devono tornare alle loro case, fino a nuovo ordine. Coloro che fossero sorprese per le strade un’ora dopo l’emissione di questo ordine, in gruppi di più di cinque, saranno disperse con la forza e successivamente sottoposte ad arresto fino a che sia ristabilito a Parigi l’ordine pubblico”.
Con l’avanzare delle Rivoluzione le coraggiose speranze delle femministe degli anni 1789-91 erano divenute delle pure utopie.
Solo dal punto di vista legale le femministe potevano considerarsi in qualche modo soddisfatte: la Rivoluzione che era stata così severa con le donne per ciò che riguardava la vita pubblica, fu molto più comprensiva nella sfera privata. Le leggi sull’eredità furono modificate in modo da permettere uguali diritti ai figli maschi e alle figlie femmine. Con le nuove leggi, le donne raggiungevano la maggiore età a ventun anni ed avevano la facoltà di contrarre obbligazioni e di essere testimoni nei processi civili. Furono cambiate anche alcune leggi sul diritto di proprietà, dando alle donne una certa libertà di amministrare i loro beni, e fu riconosciuto il valore del parere materno nelle decisioni riguardanti i figli minori.

La legislazione rivoluzionaria sul divorzio prevedeva la parità per uomini e donne. Tuttavia rimanevano alcune ineguaglianze: le donne non potevano far parte delle giurie pubbliche ed erano di fatto escluse dai Tribunali di Famiglia, a cui fu affidato il compito di dirimere controversie familiari dal 1790 al 1796. Per di più, tutte queste conquiste ebbero vita breve: il Codice napoleonico annullò quasi tutti i miglioramenti ottenuti dalle donne, facendole ritornare nella situazione descritta da Pothier nel 1769.
La causa principale del quasi totale fallimento del femminismo rivoluzionario fu la ristrettezza del suo gruppo di sostenitrici: il femminismo fu e rimase l’interesse di una minoranza. La maggioranza delle donne francesi non aveva alcun interesse a un cambiamento della propria condizione sociale: la maggior parte di loro accettava la definizione di femminilità consacrata dal diciottesimo secolo. A questo proposito, il discorso fatto dalle donne di Epinal ai loro uomini è più rappresentativo di questo atteggiamento di qualsiasi manifesto femminista: “Se la nostra forza fosse stata pari al nostro coraggio, anche noi non avremmo esitato a prendere le armi, e avremmo diviso con voi la gloria di aver conquistato la libertà. Ma erano necessarie braccia più forti delle nostre per sconfiggere i nemici della Costituzione; la nostra debolezza ci ha impedito di prendere parte a questa Rivoluzione”.
Il movimento femminista non era riuscito a raggiungere queste donne: né le sue parole né le sue azioni avevano avuto alcun significato per le donne comuni. Il femminismo infatti non divenne mai parte integrante del programma della maggioranza dei club femminili.

I club femminili si accontentavano di svolgere compiti ausiliari a quelli delle associazioni maschili. Le vere grandi assenti del movimento furono le donne eminenti dell’epoca rivoluzionaria. M.me Robert, condirettore del “Mercure National”, apparteneva alla Société Fraternelle des Jacobins, ma non era femminista. M.me de Staël, forse la più importante delle donne della Rivoluzione, sembra aver avuto qualche inclinazione femminista, ma certamente non può essere citata come un esempio di militante. Il quadro è chiaro: le donne più influenti di quell’epoca mantennero accuratamente le distanze dalle femministe che godevano di cattiva fama.
Le sostenitrici dei diritti delle donne non riuscirono d’altra parte ad avere l’appoggio dei maggiori portavoce della Rivoluzione. Condorcet fu infatti una lingua anomala; era molto più comune l’atteggiamento di Mirabeau, che scrisse fiumi di inchiostro sull’ “irresistibile fascino della fragilità”, ammonendo le donne che la loro delicata costituzione fisica le limitava ai “docili lavori” di casa e dubitando che si dovesse concedere loro persino di uscire di casa. L’atteggiamento di Robespierre rimane enigmatico, Jacques Godechoot sostiene che egli parlò a favore del voto alle donne all’Assemblea Costituente, ma altri studiosi lo collocano nel campo opposto. Louis-Antoine Saint-Just si limitò a sostenere che le leggi sull’adulterio dovevano essere applicate con equità ad entrambi i sessi, ma, come Mirabeau, apparteneva alla scuola del “fascino della fragilità” e auspicava che le fanciulle fossero educate in casa, con i riguardi dovuti alla conservazione della loro castità.

Jean-Paul Marat, Camille Desmoulins e Gracchus Babeuf ignorarono il movimento delle donne. In conclusione, le femministe non riuscirono ad ottenere l’appoggio di nessuno dei grandi, e furono sostenute da un ristretto numero di club e da pochi individui isolati, molti dei quali politicamente moderati, che con il progredire della Rivoluzione furono eliminati.
Le personalità femministe più rappresentative non avevano molte possibilità di suscitare l’approvazione delle donne “per bene”. Le pretese di nobiltà della de Gouges, di Théroigne de Méricourt e della baronessa d’Aelders apparvero ridicole agli occhi dei contemporanei e il biasimo si riversò su qualunque cosa facessero. Le disdicevoli vicende di Théroigne de Méricourt e di Claire Lacombe non giovarono al movimento, così come i legami della Léon e della Lacombe con l’arrabbiato Leclerc. Inoltre, mentre ai rivoluzionari maschi venivano facilmente perdonati i peccatucci nella sfera sessuale, le donne non poterono mai contare sulla stessa tolleranza; e nel momento stesso in cui protestavano contro questo doppio criterio di moralità, esso agiva contro di loro. Tutte le dirigenti femministe furono ulteriormente compromesse dalle loro convinzioni politiche, moderate o estremiste che fossero. Inoltre, le femministe erano considerate colpevoli delle azioni di tutte le altre donne: le emigrate, le tricoteuses, Maria Antonietta, Carlotta Corday. Le femministe potevano certo protestare, ma non erano in grado di convincere l’opinione pubblica che il principio di responsabilità collettiva non poteva essere applicato all’intero sesso.
Esse commisero errori sia tattici che strategici: spesso i gruppi di donne si lasciarono distrarre dai loro obiettivi primari; le Républicaines Révolutionaires, ad esempio, si lasciarono coinvolgere in tumulti di piazza a causa della loro pretesa di indossare la coccarda tricolore e il berretto frigio.

Tutti i club di donne furono danneggiati dall’abitudine di anteporre la causa di altre persone alla propria. I club delle province si trasformarono tranquillamente in associazioni di beneficenza e anche le coraggiose Républicaines erano più interessate al prezzo del pane che ai salari delle donne. Per quanto lodevoli per nobiltà di intenti potessero essere queste posizioni, esse danneggiavano gravemente ogni sforzo volto al mutamento radicale della situazione femminile. Le femministe mostrarono altri segni di inesperienza, sia dal punto di vista politico che organizzativo. Esse agirono sempre isolatamente: le varie dirigenti non erano attivamente in contatto fra di loro; ogni club agiva indipendentemente e i pochi tentativi di fondare un’organizzazione a livello nazionale non approdarono a nulla.
Potremmo anche dire che lo spirito dell’ epoca sia stato contrario alla rivoluzione femminista. Uno degli aspetti importanti di questa opposizione fu rappresentato dall’ideale della famiglia nucleare. Le femministe stesse incontrarono continuamente l’ostacolo che consisteva nella convinzione che i cambiamenti da loro sollecitati fossero innaturali, perché le donne appartenevano alla casa: era questa la motivazione che veniva più comunemente data per respingere le loro richieste. L’idea della famiglia come nido protetto, curato dalla moglie, nel quale il marito poteva trovare riposo dalle fatiche del mondo esterno, era piuttosto recente. Certamente essa non rifletteva la situazione delle classi più povere, poiché le donne dei ceti inferiori non potevano davvero dedicare tutto il loro tempo alle cure della casa: furono le classi abbienti ad elaborare una visione agiografica della famiglia.

Una volta chiuse stabilmente le donne IN casa, non c’era nessun”bisogno” del femminismo e la maggior parte dei politico di classe media non poteva che guardarlo con stupore: secondo il loro modo di pensare, il rifiuto delle richieste femministe era uno dei tanti atti di gentilezza nei confronti delle donne, che erano per loro natura troppo delicate per affrontare lo sporco mondo esterno in cui le femministe avrebbero voluto gettarle.
Il femminismo rivoluzionario era cominciato con ardore ed entusiasmo, ma la sua impopolarità, i suoi errori, la cieca incomprensione e il dogmatismo dei suoi oppositori si unirono nel farlo dimenticare. Fino a che durò, fu un fenomeno molto reale, il cui programma complessivo di cambiamento sociale fu forse quello di più ampia portata del periodo rivoluzionario. Fu proprio questo accentuato radicalismo a far sì che esso rimanesse un movimento di minoranza. I contemporanei più influenti continuarono ad ignorare del tutto i discorsi, i giornali, le relazioni, uno dopo l’altro, senza mai riconoscerne l’esistenza. Malgrado il suo carattere di minoranza e il suo totale fallimento, il femminismo rivoluzionario non fu privo di significato, mostrando con la massima chiarezza le mutevoli fasi della Rivoluzione e rappresentando una prova inconfutabile dell’impronta socialmente conservatrice di quel sommovimento politico.

Per saperne di più

Histoire et sociologie du travail féminin, di E. Sullerot, Parigi 1968 (traduzione italiana Etas Kompass, Milano 1973).
The Crowd in the French Revolution, di G. Rudé, Oxford 1967 ( traduzione italiana Editori Riuniti, Roma 1989).
Les Femmes et la Révolution, 1789-1794, di P. M. Duhet, Julliard, Paris 1971.
Citoyennes tricoteuses. Les femmes du peuple à Paris pendant la Révolution française, di D. Godineau, Alinéa, Aix-en-Provence, 1988.
Histoire du féminisme français du moyen âge à nos jours, di M. Albistur – D. Armogathe, Editions des femmes, Paris 1977.
Il primo femminismo (1791-1834), di A. Rossi Doria, Unicopli, Milano 1993.