YEGHVARD 1735: LA NUOVA PERSIA SCHIACCIA GLI OTTOMANI

- di Massimo Iacopi

Nel cuore dell’Armenia un capobanda turkmeno sconfigge, contro ogni previsione, l’esercito ottomano. Questo condottiero arriva nello stesso tempo alla gloria militare e al trono di Persia, fondando una nuova dinastia e rinnovando i fasti della storia militare dell’antica Persia.

Agli inizi del XVIII secolo, l’Impero ottomano ha due avversari principali: in Europa, le potenze cristiane; in Oriente, l’Impero persiano. Quest’ultimo è certamente musulmano ma risulta retto da una dinastia, quella dei Safevidi o Safavidi, che aderisce alla Sciismo, percepito a Costantinopoli come un’eresia molto pericolosa. L’occasione per gli Ottomani di indebolire la Persia si presenta quando essa viene attaccata dagli Afghani. Nel 1722, questi ultimi si impadroniscono di Isfahan, la capitale. A quel punto, gli Ottomani intervengono militarmente. Lo Shah Tahmasp II, preso alla gola, firma nel 1727 il Trattato di Hamadan, che determina la cessione di diverse città del Caucaso, specialmente Tiflis (Tbilisi), Goris e Erevan.
Per Nader o Nadir, uno dei grandi generali persiani che hanno contribuito a lottare contro gli Afghani, la pace non è altro che un diktat vergognoso, inaccettabile. Egli organizza conseguentemente una serie di intrighi di palazzo, grazie ai quali Tahmasp II viene rovesciato e gettato in prigione. Quindi intronizza il figlio dello shah con il nome di Abbas III (di 8 mesi). Il 4 novembre 1732 la nobiltà persiana prende atto del colpo di stato e Nader diviene reggente. Ormai il personaggio è giunto a un gradino dal potere, ma risulta impopolare: la dinastia safavide, agonizzante, conserva sempre il sostegno dell’influente clero sciita. Per cingere la corona, Nader ha bisogno della gloria militare.
A questa tappa della sua vertiginosa ascensione, Nader è già un personaggio leggendario. Nato il 22 novembre 1688 nell’accampamento invernale di una tribù nomade turkmena del Khorasan (nel centro dell’attuale Turkmenistan), egli era figlio di un oscuro pastore. Da un punto di vista etnico Nader non è un persiano, piuttosto un turco di confessione sciita. Lui e i suoi sono dei membri della Confederazione Qizilbash, da sempre il braccio armato della dinastia safavide. Il piccolo Nader non trascorre un’infanzia facile. Morto suo padre, alcuni briganti uzbeki rendono schiavi il giovane e sua madre, che muore in prigionia. Nader riesce tuttavia a fuggire. Verso il 1717, non ancora trentenne, Nader raggiunge una banda di rapinatori, di cui diventa il capo, affrontando in seguito tutti i guerrieri della regione: gli Uzbeki, i suoi nemici ereditari, gli Afghani e molti altri ancora. Combattendo su tutte le frontiere della Persia, l’uomo rivela un talento innato per l’arte della guerra. La sua stella raggiunge Isfahan. Quindi arriva la presa di potere e, subito dopo, la ripresa della guerra con gli Ottomani.

Un problema di disciplina

Nadir Shah

Nadir Shah

Per tre anni, Nader si batte più o meno con successo. Ma la riconquista delle città caucasiche perdute con il trattato di Hamadan è impossibile per mancanza di artiglieria specializzata. Inoltre, la parte migliore dei suoi uomini è composta da cavalieri turcomanni e afghani poco disciplinati. Non è realistico contare su di essi per le metodiche operazioni di assedio. La sola possibilità di successo è quella di affrontare l’esercito del sultano in aperta campagna. Giustamente, esso è concentrato intorno a Kars, porta d’ingresso della Turchia nel Caucaso. Abdullah Köprülü Pasha, il suo comandante, è un politico, non un militare. Egli ha governato diverse province con successo e riscuote la fiducia del sultano Mahmud I.
Per attirare Köprülü Pasha fuori dal suo riparo, il 3 novembre del 1734 Nader pone l’assedio a Gandja, importante città dell’attuale Azerbaigian, che, ben fortificata, resiste. Lasciando sul posto il grosso delle sue forze, il reggente di Isfahan devasta con i suoi cavalieri i dintorni di Tiflis, in Georgia, quindi Erevan, in Armenia. Ma il generale ottomano rifiuta di uscire durante la cattiva stagione: il suo esercito dovrebbe svernare nei confini del Caucaso, poveri di rifornimenti e di foraggio. Le sue truppe, e soprattutto i suoi cavalli – molto meno rimpiazzabili con facilità – sarebbero destinati alla fame.
Nella primavera del 1735 tutto è pronto per la campagna e Köprülü Pasha esce da Kars con un contingente di 50 mila cavalieri, 30 mila fanti e 400 cannoni. Alla fine, la provocazione di Nader ha funzionato.
“Dio sia lodato” avrebbe esclamato Nader non appena informato dell’arrivo del nemico, espressione che potrebbe suonare presuntuosa, in quanto l’esercito ottomano è temibile. La sua spina dorsale e a quel tempo costituita dagli Spahis, cavalieri che godono di feudi militari non trasmissibili: essi formano in tal modo una specie di nobiltà non ereditaria. Contrariamente alle truppe montate che dominano allora in Europa, gli Spahis sono cavalieri leggeri stimati per la loro disciplina. Se la razza di cavalli relativamente piccoli non consente di portare armature, essa offre all’esercito del sultano una straordinaria mobilità, che gli permette di combattere su teatro d’operazione molto distanti dalle sue basi, in Europa, in Asia, in Africa. A fianco degli Spahis cavalcano gli Akindjis. Difficili da distinguere rispetto ai precedenti in quanto equipaggiati e vestiti in maniera quasi similare, essi vengono incaricati delle missioni classiche della cavalleria leggera: ricognizione, avanguardia e copertura dei fianchi dell’esercito. A causa dei rischi che si assumono essi vengono specialmente denominati i deliler (matti) e erdengeçtiler (quelli che hanno dato la loro testa al nemico), Gli Spahis e gli Akindjis preferiscono la sciabola alla lancia; sciabola curva, corta e affilata essa viene concepita piuttosto per tranciare che per tagliare. Tenuta con una mano ferma risulta un’arma temibile.

Giannizzeri moschettieri

La fanteria di Köprülü Pasha è composta per l’essenziale da giannizzeri, senza alcun dubbio la più celebre formazione ottomana. Originalmente, il reclutamento veniva effettuato fra gli adolescenti cristiani “turchificati” e islamizzati, per forza o per “amore”. L’addestramento accurato che subiscono ne fanno dei soldati speciali, legati da un comune spirito di corpo. Ma nel XVIII secolo la situazione è completamente cambiata: i giannizzeri sono tutti ex bottegai od artigiani mussulmani, attirati dal prestigio e dalle immunità fiscali accordate al corpo. Il loro armamento principale è composto da moschetti. Essi hanno guadagnato la fama di tiratori provetti. Sono fieri della loro abilità e disprezzano il fuoco a salve delle truppe schierate europee dell’epoca, sebbene più devastante. Ma questi tradizionalisti rifiutano di imitare i “vili miscredenti” comunque sia.
Infine gli Ottomani dispongono di una artiglieria adeguata. L’arsenale di Istanbul produce buoni cannoni, ma non in numero sufficiente, per carenza di fonti minerarie. Per questo motivo parte dei pezzi da campagna proviene dalla Svezia, dalla Francia e dall’Inghilterra. Per l’essenziale, si tratta di cannoni di bronzo, ad avancarica per mezzo di calcatoi (per intasare la polvere) e che lanciano palle fuse. Il problema di questa artiglieria è che è di provenienza diversa, lenta a spostarsi e soprattutto lenta da mettere in batteria.

Nader: uno contro quattro

All’inizio del giugno 1735 Abdullah Köprülü Pasha viene informato che Nader e vicino, con un esercito stimato intorno ai 20 mila uomini. A causa della ridotta consistenza di questi effettivi, il generale turco si aspetta che il suo avversario batta in ritirata per ritrovare il grosso delle sue forze, lasciate all’assedio di Gandjia. Dopo una marcia spossante, l’Ottomano installa il suo campo nella piana di Yeghvard fra Kars e Erevan, nelle prossimità del monte Ararat, nel cuore di quello che è oggi la Repubblica d’Armenia. In linea d’aria il campo si trova a circa 120 km da Kars e più di 400 km da Gandjia, di cui intende soccorrere la guarnigione.
Orbene, nonostante un rapporto di forze molto sfavorevole, Nader non ha alcuna intenzione di ripiegare. Il 19 giugno, dopo aver dissimulato un contingente di cavalieri dietro il margine di una foresta vicina, egli fa avanzare i pochi uomini che ha: qualche fante e truppe montate. La battaglia ha inizio alle 14. Nutrendo dubbi sulle intenzioni offensive dei Persiani, gli Ottomani non si affrettano a mettere in batteria i loro cannoni sulla cresta di una piccola collina sul davanti del loro corpo di battaglia. Si attendono una serie di scaramucce, di dover tirare su cavalieri in continuo movimento. Vengono quindi presi completamente alla sprovvista quando, all’improvviso, le truppe di Nader passano all’attacco.
In una manovra arrischiata, 2-3 mila jazayechis, moschettieri d’elite montati su grossi cavalli, paragonabili a dragoni occidentali, si gettano all’assalto della collina. Il moschetto degli Jazayer, che dà loro il nome e che essi impiegano una volta a terra, è di un calibro più elevato delle armi europee dello stesso tipo. L’arma ne guadagna in portata e in precisione,ma al prezzo di un peso considerevole: fino a 18 kg contro i 5 di un moschetto medio europeo. Inoltre, si tratta di un’arma delicata e lunga da caricare. Tuttavia, queste non sono carenze insormontabili per tiratori ben selezionati e addestrati.
Il brusco assalto è un successo. Gli artiglieri ottomani se la danno a gambe e i loro preziosi pezzi vengono catturati. Questo colpo di mano suscita costernazione nel resto dell’esercito di Köprülü Pasha, che assiste da lontano all’azione. La fase di apertura della battaglia si conclude in tale contesto, con un secondo successo ottenuto in maniera identica al primo. Altri moschettieri neutralizzano l’altro concentramento di artiglieria ottomana, ugualmente piazzata troppo in avanti rispetto alla linea di battaglia principale.

Tuonar di vespe

Senza tardare, l’ordine di avanzare viene dato alla fanteria persiana schierata al centro della linea di battaglia. La missione sembra suicida: questa accozzaglia poco numerosa va a scontrarsi direttamente con i terribili giannizzeri. I Persiani non hanno nessuna possibilità di successo e Nader ne è cosciente. Per questo motivo egli fa sostenere la sua progressione dalla sua artiglieria leggera a dorso di cammello, gli Zamburak (le “vespe”). Il loro schieramento è rapido e a corta distanza, e il loro tiro è devastante, soprattutto quando è concentrato su una unità compatta.
In effetti e giustamente, i giannizzeri si schierano tradizionalmente serrati gli uni agli altri: i loro capi esigono da essi che tengano duro come un “muro di ferro” e attendono imperturbabili l’ordine di contrattacco e di sfondamento della linea avversaria.
Al momento in cui le due fanterie si affrontano, il Persiano gioca la sua ultima carta. Il contingente di cavalieri nascosto nella foresta vicina passa all’azione e prende sul rovescio il corpo di battaglia ottomano già scosso. Se egli conduce personalmente la carica decisiva, come è riportato in certune fonti, Nader ha probabilmente assunto la guida degli elementi più sicuri del suo esercito: i suoi fratelli d’arme, i guerrieri delle tribù Qizilbash. Seminano lo sgomento nei ranghi ottomani. Questi cavalieri non differiscono in nulla di essenziale rispetto ai loro omologhi ottomani, se non per il fatto che utilizzano più volentieri la lancia. Altra differenza: i Persiani caricano a fondo, senza risparmiare i loro cavalli. Nader sa che la sola ricchezza di un cavaliere è la sua montura e quindi evita di esporla al tiro avversario. In tale contesto, egli paga o rimborsa i cavalli uccisi sotto i suoi uomini, per incoraggiare la loro aggressività.
Vedendo che le cose si mettono male, una parte della cavalleria ottomana gira la briglia senza chiedere altro, allontanandosi dal campo di battaglia: fra questi i famosi Akindjis, evidentemente poco inclini a offrire la testa al nemico. Il panico si propaga nelle file ottomane e ben presto tutto l’esercito si sbanda in uno sconvolgente “si salvi chi può”. Nella confusione, Köprülü Pasha viene scaraventato a terra dal suo cavallo e decapitato. Diversi altri generali di alto rango muoiono nel tentativo di cercare di bloccare la fuga dei loro uomini. Il combattimento vero e proprio è stato breve: l’azione è durata circa due ore, mentre il resto è stato un sanguinoso inseguimento della cavalleria sulla strada di Kars. La sconfitta ottomana è spaventosa. Su 80 mila soldati, solo un decimo sarebbe riuscito a raggiungere la piazzaforte. La cifra, forse esagerata, risulta comunque non verificabile, ma è certo che le perdite persiane sono state di molto inferiori a quelle ottomane.
Nader, trionfatore della giornata, si mostra magnanimo. I corpi dei generali avversari, fra cui quello di Köprülü Pasha, vengono restituiti. Vengono informate le guarnigioni ottomane assediate inviando loro alcuni prigionieri, come messaggeri, i quali non mancano certo di segnalare che gli sperati soccorsi non arriveranno più. L’effetto viene conseguito: Gandjia, Tiflis e Erevan decidono di capitolare e dietro loro tutte le piazzeforti del Caucaso meridionale ritornano sotto il controllo persiano. Istanbul si rassegna a negoziare e la frontiera ritrova il suo tracciato antico.
Essendo il giovane Abbas III deceduto, qualche giorno dopo la vittoria di Yeghvard, il 10 marzo 1736, in occasione del Noruz, il Nuovo Anno persiano, Nader convoca tutti i notabili per un’assemblea straordinaria. La riunione ha luogo nella pianura stepposa del Mughan, nel cuore dell’Azerbaigian riconquistato. E, come ci si poteva attendere, i grandi del regno gli propongono il trono. Nader non si fa pregare, accetta la nomina e cinge la corona. Il figlio dell’umile pastore è ormai diventato il nuovo “Re dei Re” (Shah in Shah) della Persia, un racconto degno delle Mille e una notte.

Bersaglio successivo: i Moghul

Nader o Nadir Shah non è sazio di onori. Nel 1738 si rivolge verso est e si impadronisce di Kandahar, prima di attaccare un enorme pezzo dell’Impero Moghul, che domina la gran parte dell’India. Superando i terribili passi afghani, Nadir piomba su Peshawar e nel Lahore, quindi sconfigge un enorme esercito moghul a Karnal, il 24 febbraio 1739. Si tratta della sua vittoria più bella, coronata dal saccheggio di Delhi e dal massacro di buona parte della sua popolazione. Ebbro di gloria militare e di ricchezze, Nader si comporta in seguito da despota, pronto a colpire con la sua leggendaria ascia di guerra chiunque sia sospettato di complotto. Egli usa e abusa sia dell’ascia sia dei suoi principali luogotenenti, che alla fine si alleano contro di lui e l’assassinano nella sua tenda nella notte dal 19 al 20 giugno 1747. La dinastia degli Afsharidi, che lascia all’Iran, quasi non riuscirà a sopravvivergli. I suoi successori si dilaniano fra di loro e se il nipote di Nader, Shahrock, riuscirà finalmente a regnare dal 1750 su un Iran ridotto (il Khorassan), il resto dell’Iran viene retto dalla dinastia Zand, iniziata con Muhammad Karim Khan (1705-1779). Shahrock Afsharide verrà definitivamente rovesciato nel 1796 dal capo tribù, Agha Mohammad Khan, che fonderà la dinastia dei Qadjari. Quest’ultimo cinge a sua volta la corona e fonda una dinastia che durerà fino al 1925, quando un nuovo colpo di stato, guidato da un generale al servizio dei Qadjari, Reza (1878-1944), darà inizio alla dinastia dei Palhavi.

Per saperne di più
Saberan Foad, Nade Shah ou la folie au pouvoir dans l’Iran du XVIII siecle, L’Harmattan, 2013;
Tucker Ernest S., Nadir Shah Quest for Legitimacy in post Safavid Iran, University Press of Florida, 2006;
Ward Steven R., Immortal. A Military History of Iran and its Arme Forces, Geogetown University Press, 2014;
Michael Axworthy, The Sword of Persia: Nader Shah, from Tribal Warrior to Conquering Tyrant, I.B. Tauris, 2006.