UN SARCOFAGO ROSSO PER DUE: VITA DI FEDERICO II IMPERATORE

di Alessandro Lomaglio -

Nelle sue ultime ore Federico II di Svevia ripercorre le tappe di un’esistenza intensa. Personaggio difficile ma di grandi capacità culturali e di indiscussa competenza nell’amministrazione dello Stato, per tutta la vita cercò il paradiso in terra, prediligendo l’amore e la bellezza. E credendo sempre nella suprema autorità dell’impero. La sua vita fu un continuo avvicendamento di odi, d’inimicizie, di guerre e di brevi stagioni di pace. Il suo regno resta legato indissolubilmente all’impulso dato all’arte, alla poesia e alla scienza.

L’imperatore Federico, seguito dai cacciatori, giunse a Castel Fiorentino poco prima di mezzogiorno. L’aria era fredda per il vento di tramontana, che soffi ava sulla pianura della Capitanata tra il massiccio della Daunia e il Promontorio del Gargano, anche se mitigata dal sole, ancora alto nel cielo. Federico amava quei luoghi per la selvatichezza delle colline, aride e pietrose, che si elevavano intorno, e soprattutto per le caratteristiche e ampie aree acquitrinose, il cui ambiente assicurava condizioni ideali per dedicarsi ai diletti svaghi venatori. L’imperatore nutriva una profonda passione per la caccia con i falconi, a cui aveva dedicato un libro, in fase di ultimazione, elevandola ad arte e a scienza.
L’anno volgeva al termine e Federico aveva deciso di trascorrere un breve periodo di riposo in quei territori, che si estendevano intorno all’amata Foggia, da cui si allontanava soltanto per le battute di caccia. Da qualche giorno purtroppo era affetto da una febbre persistente e da acuti dolori addominali, che gli procuravano una violenta dissenteria. Quella volta i mali fisici che accusava non gli consentirono di rientrare a Foggia e fu deciso in tutta fretta di fare sosta a Castel Fiorentino, che fino ad allora non aveva mai visitato. Sulle rovine dell’antico castello normanno, costruito dai suoi avi verso l’estremità della parte più alta del colle, aveva fatto edificare un palazzo fortificato, che dominava le valli sottostanti e lo denominò Domus Solaciorum, casa degli svaghi, dove avrebbe potuto trascorrere il tempo per la caccia e il riposo. Il Palatium aveva i muri costruiti con belle pietre squadrate e i pavimenti di terracotta rosso-mattone, posati a spina di pesce. A pianterreno c’era una vasta sala, dotata di due imponenti camini, e sulla parete di fondo era stato elevato un palco, dove prendevano posto i suonatori, per allietare le serate.
Il cielo, sgombro da nubi, era di un azzurro intenso, che solo in quelle terre si poteva ammirare, anche se, essendo inverno, si avvertiva un freddo pungente. Alcuni alberi, scheletriti e spogli, sembravano scolpiti nel bronzo; altri invece erano coperti di foglie ramate, che, al soffiare del vento, si agitavano con morbida leggerezza, sembrando tante fiammelle tremolanti.

Federico e il falcone

Federico e il falcone

I cavalieri si erano affaticati per la caccia ed erano desiderosi soltanto di riprendere le forze con un calice di vino e un bagno caldo, che la servitù stava preparando. La giornata, iniziata alle prime luci dell’alba, era stata lunga, ma eccitante per le frenetiche corse dietro gli animali, che cercavano di sfuggire ai falconi predatori. Alla fine il bottino era stato più che soddisfacente.
I falconi avevano lavorato con lena, disegnando ininterrottamente ampi cerchi concentrici nel cielo prima di piombare come saette sulle prede ed ora, in attesa di essere ricoverati nella voliera, apparivano meno nervosi. Federico, che restava sempre ammirato per le loro evoluzioni, aveva cavalcato e cacciato col solito entusiasmo ed ora desiderava immergersi nella vasca e bere il vino robusto delle Puglie, sicuro che si sarebbe rinfrancato. Dagli ultimi giorni di novembre era afflitto da una dolorosa indisposizione intestinale, che lo costringeva spesso a fare uso della seggetta nel corso della giornata. Era restio a seguire i consigli dei medici, ritenendo che il male sarebbe stato passeggero, mai pensava che avrebbe potuto peggiorare.
La tipologia di malattia, che la Scuola Salernitana, la prima università attiva di medicina nell’impero, definiva flusso del ventre o popolarmente morbo della lupa, fiaccava ogni muscolo del corpo di chi ne fosse stato affetto.
Talvolta il suo pensiero andava alla morte del padre, l’imperatore Enrico, avvenuta a seguito di una indisposizione che mostrava gli stessi sintomi, ma non era certo il suo caso, perché si sentiva ancora nel pieno delle forze, anche se doveva ammettere che spesso provava una grande spossatezza. Il suo medico, Giovanni da Procida, d’accordo con i colleghi arabi ed ebrei, gli aveva consigliato una cura più aggressiva; ma non li aveva ascoltati, perché non ne avvertiva la necessità. Si sentiva ancora vigoroso e pronto a lottare, capace di cavalcare dall’alba al tramonto, dimostrando i suoi anni solo per la canizie dei capelli. I suoi occhi azzurri, come il colore del cielo terso, mandavano scintille sia quando indugiavano sulle giovani donne, che popolavano la corte, sia quando intensi e saettanti folgoravano i nemici.
Dei banali dolori addominali, per quanto fastidiosi, non potevano destare tutte quelle preoccupazioni, che manifestavano i medici e le persone a lui vicine. Fra pochi giorni avrebbe celebrato il suo cinquantaseiesimo genetliaco e doveva essere in forma, nelle migliori condizioni, per dimostrare al mondo intero lo splendore della potenza e dell’autorità dell’impero. Avrebbe indetto feste in tutte le città e a Palermo avrebbe ricevuto l’ossequio dei ministri e dei giustizieri delle sue terre, fedeli e pacificate e, soprattutto, l’affetto e la devozione del suo popolo.

Aveva dato disposizioni perché fossero innalzati archi di trionfo, ispirati anche alla mitologia pagana, dove il religioso si doveva mescolare col profano, il nobile col popolano e agli inni in latino dovevano fare eco quelli in volgare. Mentre i cacciatori si avviavano verso il vestibolo, dove il fuoco dei camini diffondeva un tepore piacevole che conciliava il sonno, Federico fu avvertito che il bagno era pronto e cominciò a spogliarsi.
Era solito fare il bagno anche di domenica e, per osservare questa abitudine, aveva fatto costruire a Castel del Monte appositi locali dotati di impianti idraulici. Fare il bagno con frequenza e assiduità, sosteneva, aiutava a mantenersi in buona salute. Ricordava che il male, che ora lo affliggeva, lo aveva colpito allorché si imbarcò a Brindisi, per recarsi in Palestina. Fu costretto a rinviare la partenza e, dopo aver avvertito subito dell’inconveniente il pontefice, si recò, una volta a terra, a Pozzuoli, per curarsi presso le terme tra le più famose dell’impero. E lì apprese che il pontefice lo aveva scomunicato, non avendo prestando credito alla sua malattia.
Vedendo che l’imperatore si stava portando verso la vasca, Giovanni da Procida, che lo seguiva come un’ombra, scosse il capo e sommessamente lo avvertì che era preferibile evitare il bagno, perché era ancora accaldato per le fatiche della caccia e sicuramente era debole. Meglio sarebbe stato riposare per riprendere le forze e, solo dopo, se proprio voleva, poteva fare bagno.
Federico lo guardò meravigliato, quasi incredulo, perché non riusciva a spiegarsi il nesso tra il sudore, il bagno e i suoi dolori e con indifferenza alzò le spalle. Poi diede una pacca sul braccio del suo medico per tranquillizzarlo e si diresse spedito verso la vasca fumante per l’acqua calda. Ne accertò la temperatura immergendovi il gomito e, avendola trovata soddisfacente, finì di spogliarsi, mentre le donne, incuranti della sua nudità, continuavano a tenere costante la temperatura e a spargere profumi e incenso nei bracieri. Dopo essersi immerso nell’acqua, l’eunuco saraceno cominciò a massaggiarlo delicatamente sulle spalle e sulla nuca, cosa che apprezzò con lievi mugolii di piacere. Di certo, avrebbe trovato giovamento con un bagno tonificante, pensò tra sé, e prese a sorseggiare il vino delle sue vigne pugliesi, che gli diffondeva nel corpo una sensazione di tepore.

Anche su tale comportamento i medici non erano d’accordo; anzi il medico ebreo, che in tante occasioni gli era stato vicino e lo aveva sempre affettuosamente curato, sconsigliava di assumere bevande, in quanto, sosteneva, accumulavano liquidi nel corpo, mentre invece occorreva mangiare cibi solidi, come le pere addolcite col miele e cotte al forno. Doveva astenersi dal bere e assecondare nello stesso tempo gli sforzi per liberare il corpo dai malevoli umori interni. Seguiva la teoria che nel corpo i diversi umori debbono essere in equilibrio, in quell’armonia che regola la materia.
Una diversa situazione, dai dotti detta discrasia, determina l’insorgere di malattie. Federico non gli prestò molta attenzione, ma si compiacque per le premure del suddito fedele. Solo il medico arabo non condivideva in pieno la teoria degli umori del corpo e del loro equilibrio, ma era sostenitore di una medicina soprattutto pratica, di certo più raffi nata, ricca di nozioni astrologiche e soprattutto farmacologiche.
Federico aveva affrontato nella vita numerose vicissitudini sia fisiche, sia familiari e militari. Una volta gli proibirono di montare a cavallo a causa dei dolori di stomaco, che adesso ricordava, ma aveva tenuto duro e aveva vinto il male fino a dominarlo e ne era in breve guarito. Ora provava una persistente prostrazione fisica generale e fitte dolorose al ventre, che non lo abbandonavano nemmeno di notte. Si ribellava e cercava di concentrare l’attenzione su temi di filosofi a oppure su complicati problemi di matematica, di cui normalmente amava discutere con i suoi dotti amici.
Ricordava con soddisfazione i quesiti che aveva sottoposti al suo amico sultano e ne aveva apprezzato le risposte, elaborate da uno stuolo di filosofi e di matematici. Doveva rimettersi in salute al più presto per le tante questioni che aveva in sospeso. Il lavoro svolto a suo nome e per suo conto dai figli e dai luogotenenti era stato eccellente, eseguito con estrema puntualità e per questo tutti erano da elogiare, ma aveva altri problemi di carattere personale che poteva risolvere solo lui, come la visita a Corrado, in Germania, al quale non aveva fatto mai mancare il suo appoggio e il suo consiglio e che purtroppo non incontrava da diverso tempo. Aveva a cuore la liberazione di Enzio, la cui perdurante prigionia gli procurava grandi preoccupazioni. Non lo abbandonava mai il pensiero della ribellione del figlio Enrico, che aveva pagato con una tragica fine. Era noto che il suo cuore piangeva per l’episodio.

Tra tante vicissitudini familiari e di governo includeva il tradimento di Pier delle Vigne, che aveva gettato nel caos l’amministrazione e la Magna Curia. Come era stato possibile che un uomo, appartenente ad una famiglia di modeste condizioni, che aveva tolto dalla povertà ed elevato alle più alte cariche dello Stato, avesse potuto macchiarsi di un atto così vile ed iniquo contro il proprio benefattore. Solo l’avidità, che nell’uomo non ha limiti, poteva averlo spinto a commettere quella nefanda macchinazione e la prova della cupidigia del suo ministro era rappresentata dall’enorme patrimonio, accumulato durante gli anni di potere. Paragonava l’inganno del ministro al tradimento commesso da Giuda contro Gesù, Salvatore dell’umanità, che gli aveva affidato la cassa della piccola comunità senza mai chiedergli conto dell’amministrazione. Eppure per trenta denari lo aveva tradito e aveva consentito la sua crocifissione e morte. Quando gli annunziarono che Pier delle Vigne durante il trasferimento nel carcere di Pisa aveva colto l’occasione per liberarsi dal peso del tradimento e si era suicidato, Federico aveva commentato gelidamente: “È venuto dal nulla e nel nulla è ritornato”.
Giunse al Palatium, avvertito delle condizioni dell’imperatore, l’arcivescovo di Palermo, l’amico e fidato Berardo, uno dei familiares più intimi, a lui lealmente vicino fin dai primi anni dell’ascesa al trono imperiale, negli avvenimenti lieti come in quelli tristi. Federico ricordò quando l’arcivescovo lo accolse nel duomo di Palermo con una grandiosa e solenne cerimonia in rito bizantino al ritorno da Roma, dove era stato incoronato imperatore da papa Onorio III. Berardo aveva intonato con voce stentorea Christus vincit, la solenne litania cesarea, che veniva cantata all’incoronazione degli imperatori e dei re cristiani. Ad esso il popolo aveva risposto con una ovazione, fiero di essere presente alla cerimonia e di essere governato da Federico. Non dimenticava le delicate incombenze diplomatiche che gli aveva affidate, né le accorte iniziative intraprese come suo legato. Andò col ricordo a quanto era accaduto a Costanza, dove erano già arrivati i cuochi e i servitori di Ottone, per preparargli i festeggiamenti dell’incoronazione. Berardo era intervenuto immediatamente presso il vescovo della città e lo aveva convinto ad accogliere Federico, nonostante fosse scomunicato, anziché Ottone.
Il vescovo seguì il consiglio e fece aprire le porte a Federico, determinando il ritiro di Ottone dalla competizione e la sua sconfitta. Non era questo il momento di avvilirsi e di tirarsi indietro. Doveva continuare a vivere e a rappresentare il faro, sol invictus, come era stato denominato, per assicurare la pace e la prosperità dei sudditi.

Le notizie degli ultimi avvenimenti, politici e militari, che gli giungevano dalle città dell’Italia settentrionale e dalla Germania, erano incoraggianti. Aveva riordinato la Magna Curia, sconvolta dal tradimento di Pier delle Vigne, e mediante i suoi vicari aveva conseguito decisivi successi sui campi di battaglia, che gli avevano fatto riacquistare l’antica sicurezza. Restava irrisolto il conflitto con la Sede Apostolica, che pur avendo registrato momenti di tregua, non era mai giunto a conclusione, anzi, come il fuoco sotto la cenere, ricompariva all’improvviso. Il pontefice Innocenzo IV, dopo il fallito concilio ecumenico convocato a Roma, si era rifugiato a Lione, dove convocò un altro concilio, il cui oggetto principale era la conferma della scomunica e la sua deposizione da imperatore, bandendo contro di lui addirittura una crociata. Federico aveva messo in moto tutti i canali diplomatici per dimostrare ai governanti degli altri Stati da un lato le sue legittime ragioni e la sua fedeltà alla chiesa, che invero non meritava, e dall’altro le menzogne e la pretestuosità delle argomentazioni pontificie. Anche Innocenzo si era mosso con una intensa campagna diplomatica e aveva scritto a tutti i re e principi cristiani con risultati però poco soddisfacenti. I partecipanti furono meno di un terzo degli invitati, per cui non si poteva parlare di concilio ecumenico. Mancarono gli ecclesiastici della Sicilia, della Germania, dell’Ungheria, dell’Austria e di altre regioni. Comunque l’assemblea si aprì al canto Veni Creator Spiritus, intonato dal papa stesso, che sedeva al centro tra l’imperatore d’Oriente e i conti di Tolosa e di Provenza. Nella circostanza Federico fece sapere che aveva in corso trattative per la liberazione del re di Francia Luigi, che non nascondeva di essere discorde con la posizione intransigente di Innocenzo nei suoi confronti. Gli avevano riferito che Luigi ai fratelli, che facevano ritorno in patria, raccomandò di passare per Roma e sollecitare a suo nome il pontefice di rimuovere la scomunica e di riappacificarsi con Federico.
Anche questo tentativo non sortì alcuno effetto e la pace restò una vana speranza. Da parte sua, riconosceva di avere usato violenza nei confronti dei cardinali, che aveva catturati mentre si stavano recando a Roma per partecipare al concilio. Ne aveva liberato alcuni, ma ne teneva prigionieri ancora due. La sua era stata una reazione al comportamento illegittimo e dispotico della Curia Romana, la quale si era intestardita a promuovere un concilio addomesticato al solo scopo di riconfermare la sua condanna e soprattutto di destituirlo come imperatore, anche facendo ricorso ad una crociata contro di lui. Aveva fatto sapere di esser pronto a presenziare al concilio e, per essere più vicino a Lione, si era recato a Torino, dove si fermò inattesa, ma dal papa non arrivò alcuna risposta. Dall’Oriente i Cavalieri Teutonici, che, nonostante la scomunica li avesse sciolti dal giuramento di obbedienza, lo avevano ininterrottamente appoggiato, sollecitavano il suo aiuto, perché soltanto su di lui ponevano la loro fiducia e la speranza di ottenere l’accesso in Terra Santa, non certamente su Roma, votata ad una politica di intrighi, maledizioni, scomuniche, intenta solo ad accumulare ricchezze e consolidare il potere temporale. Era restia ad ogni iniziativa di affermare la fede e di preoccuparsi della salvezza delle anime dei cristiani.

Federico aveva mietuto vittorie su tutti i campi di battaglia, in Germania, come in Italia, aveva ottenuto dagli infedeli la liberazione di Gerusalemme e dei luoghi santi senza spargere sangue di entrambe le parti in conflitto, perché i cristiani potessero inginocchiarsi senza pericolo davanti al sepolcro di Cristo. Nemmeno questo successo aveva incontrato il favore della Sede Apostolica, che lo accusava tra l’altro di non aver ucciso nemmeno un infedele. Attualmente la sua stella non rifulgeva come tempo addietro, ma era sicuro che ben presto i principi cristiani avrebbero compreso la sua posizione e offerto il loro appoggio per giungere alla conclusione del conflitto con la Santa Sede, che non aveva motivo di sussistere.
Aveva il presentimento che i segnali andavano in questa direzione. Non aveva mai compreso le ragioni della velenosa ostilità degli ultimi pontefici contro di lui, fatta di continue minacce, di scomuniche e interdetti, di menzogne, di pretesti, nonostante un altro pontefice in precedenza lo avesse chiamato figlio prediletto della chiesa. Lo stesso successo conseguito in Palestina, dove erano falliti imponenti eserciti, non avevano appianato i rapporti; era stato addirittura accusato di non aver versato il sangue dei nemici e di eresia per essersi accordato in modo pacifico col sultano. Eppure, a sostenere questa blasfemia era un pontefice, vicario di Cristo e successore di Pietro, come lo aveva definito Innocenzo III, scelto come tutore dalla madre Costanza durante la sua minore età. I fatti avevano dimostrato che la scomunica lanciatagli contro per aver ritardato la partenza per la crociata era stata solo un pretesto per lanciare le milizie pontificie alla conquista dei suoi territori durante l’assenza in Palestina.
Aveva concluso in modo positivo la crociata in un tempo molto breve e aveva fatto immediatamente ritorno nel suo regno. Appena fu in Sicilia, diede inizio ad una campagna militare fulminea e riconquistò i territori occupati dai crocesegnati e si impegnò a proteggere lo stesso Gregorio IX dalla ribellione dei Romani. Era stato insignito del titolo di protettore della chiesa, ma subito dopo era stato nuovamente scomunicato per motivi diversi da quelli che concernevano la fede, perché si mostrava tollerante con i saraceni, divenuti ormai parte integrante del popolo siciliano e si dimenticava che non aveva mai mancato di condurre una lotta spietata contro gli eretici.

Aveva difeso la Sede Apostolica dalle mire ambiziose della Famiglia Orsini che dopo la morte di Gregorio IX, aveva rinchiuso i cardinali nel Septizonium, perché non si decidevano ad eleggere un pontefice gradito ad essa. La scelta era poi caduta su Celestino IV, che regnò per soli diciassette giorni. I cardinali, che erano fuggiti da Roma, non vollero ritornare per il nuovo conclave e causarono un periodo di sede vacante, per circa tre anni, durante i quali Roma visse un periodo di estrema insicurezza. Egli diede una prova di magnanimità, liberando i due cardinali ancora prigionieri, che in tal modo potettero essere presenti al conclave, che elesse Innocenzo IV.
Aspirava ad un mondo dove le due supreme autorità, Papato ed Impero, dovessero svolgere i rispettivi compiti in modo autonomo, pacifico, senza scontri e sovrapposizioni, un mondo dove, messa nel fodero la spada, l’imperatore si potesse dedicare al benessere dei sudditi, agli studi, alla speculazione filosofica e scientifica, alla poesia, all’arte, impiegando le risorse culturali, che i dotti e gli scienziati mettevano a disposizione senza discriminazione di razza, di religione, di lingua, di sesso.
Sin da bambino aveva imparato diverse lingue, che gli permettevano di parlare ebraico con gli ebrei, greco con i greci, arabo con gli arabi. L’altra autorità, la Chiesa, avrebbe dovuto indirizzare il suo magistero soprattutto alla salvezza dell’anima, alla predicazione del Vangelo, all’unione dei popoli in un clima di pace, a deporre finalmente le armi e alzare la mano solo per benedire, non per colpire. Nella sua vita, sin da tenera età, era stato quasi ossessionato dall’ansia della conoscenza e della scienza, dalla bellezza, di cui respirava in ogni istante i profumi, come era solito affermare con una punta di retorica. Lo scopo principale era di fare dell’Italia e dell’amata Sicilia terre pacificate e unite nel segno dell’impero.
Contro questo elevato progetto si era opposta la chiesa di Roma, protesa ad affermare una egemonia temporale che non le apparteneva, suscitando lotte senza scrupoli, a cui dovette opporre pari energia e violenza, per difendere la sua dignità e l’autorità dell’impero.

Gli sovvenne in quei momenti di depressione che doveva rivedere il trattato sulla caccia con i falconi; anzi ne avrebbe parlato con Manfredi, come lui interessato a quel lavoro. Il bagno non gli apportò alcun miglioramento; i dolori ricominciarono a tormentarlo e la febbre riprese a salire. Provò un brivido al pensiero che l’infezione fosse degenerata e provò delusione, perché non era stata ancora trovata una cura efficace. Uscito dalla vasca, cominciò a barcollare. Le donne e gli eunuchi, accortisi del malore, lo avvolsero subito in morbide coperte di lana e lo portarono al piano superiore per metterlo a letto, sul quale avevano steso un finissimo zendado rosso, il colore che l’imperatore preferiva. Fuori della camera avvertiva passi frettolosi e ordini sommessi. La testa, nonostante fosse adagiata su soffi ci cuscini, gli girava vorticosamente e gli procurava conati di vomito. Nemmeno con gli occhi chiusi riusciva a fermare quella girandola. Cosa mi sta succedendo? Si chiese.
I medici accanto al letto non sapevano cosa fare, fino a quando il medico arabo, scoraggiato e quasi riluttante, prese da un sacchetto una polvere bianca e la fece annusare e poi ingoiare all’imperatore. Poco dopo i dolori cominciarono a calmarsi leggermente e il capogiro si attenuò; solo la febbre gli procurava qualche brivido. Aprì gli occhi e si guardò intorno. Scorse accanto al letto il fedele arcivescovo Berardo di Castacca, il suo medio Giovanni da Procida e più indietro quello ebreo. Poco discosto vide anche Bertoldo di Hoenburg, il fido valletto, che anni prima aveva condotto con sé da Vienna, dopo un breve soggiorno in quella città. Bertoldo era divenuto suo consigliere e per i servizi, che gli aveva reso, lo trattava come un consanguineo. Il giovane infatti lo aveva seguito in tutte le imprese e ricordava soddisfatto con quanta convinzione aveva perorato la causa della dignità dell’impero, quando lo aveva inviato come suo legato alla corte di Nicea. Lo stimava molto e ne apprezzava la sensibilità, compiacendosi anche per le poesie che componeva in volgare.
Nella stanza, appartati e silenziosi, c’erano Riccardo, conte di Caserta e genero per avere sposato sua figlia Violante, che gli aveva svelato il tradimento di Pier delle Vigne, Riccardo di Montenero, gran giustiziere di corte, e il maestro delle scuderie Pietro Ruffo col nipote Folco, al quale si sentiva affezionato per la comune passione di comporre poesie in volgare. Dalla stanza attigua proveniva un confuso vocio e riuscì a sentire l’ordine di far giungere da Lucera alcuni medici arabi, che curavano le milizie colà dislocate.

Solo allora localizzò il luogo dove era stato costretto a fermarsi, dopo la battuta di caccia, per i dolori che lo opprimevano. Si trovava nel Palatium di Castel Fiorentino, che non aveva riconosciuto al suo arrivo e dove veniva ospitato per la prima volta. Dio mio, pensò, perché gli venne in mente il vaticinio di un astrologo di corte, che una volta gli predisse la morte presso una porta di ferro, in un luogo il cui nome era associato alla parola fiore.
Poiché era superstizioso, al pensiero di questa profezia, non aveva mai voluto sostare a Firenze ed aveva finanche evitato di attraversarne il territorio. Quando apprese che a Palermo era scoppiata una ribellione ed occorreva rientrare con urgenza, allungò il percorso e i tempi del viaggio per aggirare il territorio fiorentino. Era inquieto per la malattia e avvilito perché non avrebbe potuto portare a termine i progetti, da tempo predisposti con cura. Aveva il presentimento che una sorte maligna non gli avrebbe consentito di realizzarli, proprio quando la ruota della fortuna sembrava girare nuovamente a suo favore. Dall’agitazione, che avvertiva intorno al suo letto e dalla camera attigua, comprese che tutti erano allarmati per le sue condizioni di salute e chi gli stava accanto mostrava sul volto una profonda inquietudine.
Giorni addietro aveva notato dei leggeri segnali di miglioramento, ma il colore terreo del viso, la spossatezza, che lo opprimeva fino a impedirgli di muoversi, la febbre, che ormai non lo abbandonava più, e poi quei dolori continui non erano sintomi incoraggianti; si affidava solo alla speranza che tutto si potesse risolvere quanto prima per il meglio, come spesso gli era capitato nella vita. Doveva reagire al male, seguendo forse i consigli dei medici, evitare il bagno, non bere liquidi, mangiare cibi solidi. In verità aveva provato a seguire questa terapia, ma purtroppo non aveva registrato alcun risultato positivo. Solo a tratti gli era sembrato di provare un certo sollievo, ma i dolori prendevano all’improvviso il sopravvento e gli creavano una grande sofferenza. In quei momenti, disteso a letto, era solito ammirare l’aquila scolpita al centro del baldacchino, sorretto da quattro esili colonne tortili molto eleganti e tra sé faceva i complimenti al bravo mastro falegname, capace di ricavare da un tronco un’opera d’arte.
Il letto era situato di fronte a due bifore, che si aprivano su un panorama mozzafiato, e, sebbene fornite di vetri policromi, lasciavano filtrare molta luce. Anche le pareti, rivestite da pietre squadrate di marmo colore avorio erano molto belle, intervallate di tanto in tanto da altre di colore più scuro, in modo da formare un motivo ornamentale suggestivo. Il pavimento era coperto da mattoni rossastri di terracotta, posati a spina di pesce, racchiusi in una greca di colore nero che richiamava motivi ellenistici. Dietro la testiera del letto era stata murata una porta di ferro, che, come aveva appreso dall’arcivescovo di Palermo, dava accesso alla torre più alta della fortezza. Berardo certamente non era a conoscenza della drammatica profezia dell’astrologo, altrimenti non gli avrebbe rivelato il segreto della porta.

Quante volte a Castel del Monte, isolato e misterioso sulla cima del colle, mentre il sole indorava le sue pietre calcaree, aveva goduto degli ampi panorami che si estendevano fino al mare. Aveva gustato la bellezza di quella terra ventosa e brulla che lo aveva indotto a chiamare Selvaggia la figlia, andata sposa a Ezzelino da Romano, il fiero signore veneto, sempre al suo fianco nelle lotte contro i comuni della valle padana. Dalla sommità del castello aveva ammirato le evoluzioni dei suoi falconi che volteggiavano nel cielo turchino e all’improvviso saettavano rapidi sulle prede. Di sera, spesso si era attardato ad ammirare il movimento appassionante ed enigmatico degli astri come se stesse assistendo ad uno spettacolo fantastico ed esaltante. Sul tardi i dolori ripresero e avvertì brividi di febbre.
I medici, quasi impietriti accanto al letto, perché non riuscivano a procurargli alcun sollievo, si sentirono avviliti e impotenti, ad aiutare il loro amato imperatore. La scienza medica d’oriente e d’occidente, che mirabilmente si erano fuse in altre circostanze, adesso non trovavano un rimedio per alleviargli i dolori. Solo la polvere bianca, estratta, come gli aveva spiegato il medico arabo, allo stato di latice da un fiore, che cresceva in oriente, gli leniva la sofferenza, attenuando sensibilmente le fitte dei dolori, ma il medico stesso gli aveva consigliato di non eccedere nell’assumerla.
Una volta, alla sua domanda, il medico gli aveva spiegato che quella pianta, già nota ai Sumeri e ai Greci, veniva chiamata “pianta della libertà”. Federico, anche in forza del nome, aveva deciso di farla coltivare in Sicilia, il cui clima non era molto differente da quello di altri paesi del Mediterraneo orientale. Il medico però lo aveva sconsigliato con una certa decisione di dare attuazione a quella iniziativa. Erano poi sopraggiunte questioni di governo più urgenti e l’idea era tramontata.

Credeva nella medicina che lo aveva attratto e per questa passione aveva sostenuto degli esami presso la Scuola Medica Salernitana, la prima e la più affermata del tempo, frequentata da studenti di tutta Europa. Lo Studio era già famoso da oltre un secolo, ma volle dotarlo di uno statuto, dedicandogli una parte delle Costituzioni Melfitane. Dispose che la professione poteva essere esercitata soltanto da medici qualificati, forniti del titolo idoneo. Inoltre, gli studenti dovevano leggere e consultare le opere di Ippocrate e di Galeno, sostenere regolari esami e, a conclusione degli studi, affiancare un medico esperto, almeno per un anno, allo scopo di esercitarsi nella pratica. Lo Studio era aperto a tutti, uomini e donne, di qualunque paese e qualunque religione professassero. Molte donne lo frequentavano, dedicandosi soprattutto alla ginecologia, più consona alla loro natura. In seguito, per amore della cultura emanò un editto col quale fondò l’Università di Napoli per lo studio del diritto, la prima università del mondo che vanta un regolare atto di nascita. Vi chiamò ad insegnare i più esperti in materie giuridiche, strappandone alcuni all’antico studio di Bologna, che eccelleva soprattutto in canonico, per contrapporgli una scuola laica di diritto.
Il male purtroppo peggiorava e pensò, sconsolato, che questa volta sarebbe stato veramente duro venirne fuori. Il suo fisico, sebbene robusto, non riusciva a sopportare il dolore ed era spesso sopraffatto dall’ira anche per motivi banali. Avvertiva un persistente infiacchimento e una respirazione affannosa, che gli procurava un sudore freddo per il corpo. Gli tornò alla mente l’indovino che gli aveva predetto la durata della vita fino a 267 anni, millantatore e bugiardo; se lo avesse avuto tra le mani, lo avrebbe fatto torturare e mandato a scontare nel carcere peggiore la condanna per aver mentito all’imperatore. Non aveva mai creduto a quella profezia; ne aveva solo riso al pensiero di come avrebbe accolto la notizia il prete di Roma.
Quando gli sembrò di sentirsi meglio, ordinò di aprire la finestra e respirò a pieni polmone l’aria fresca che veniva dalla vallata. Poi notò che ormai le ombre della sera avanzavano e miriadi di stelle cominciavano a brillare sul velluto scuro del cielo. Lontano, a meridione, dietro i monti che si stagliavano all’orizzonte, dopo aver attraversato lo stretto di Messina, proseguendo verso ponente si trovava Palermo, la città dove aveva trascorso la sua infanzia non proprio felice e spensierata, essendo orfano di entrambi i genitori.

Nei primi anni di vita la fortuna lo aveva benignamente assistito, tanto che a quattro anni fu consacrato re di Sicilia. Ricordava la serate estive, durante le quali con i cortigiani, distesi sotto le palme che svettavano nei giardini della reggia, si impegnava in accese discussioni o nella declamazione di versi elaborati secondo la nuova lingua, trasmessa dai trovatori provenzali. Ne era innamorato e dopo averla introdotta nel regno, era certo che si sarebbe affermata nelle restanti regioni d’Italia. Durante gli incontri si gustavano i famosi dolci siciliani innaffiati dagli amabili vini di Trapani e di Pantelleria, mentre i suonatori arabi intonavano accattivanti melodie.
La luna e le luci delle torce si riflettevano nelle acque dei laghetti artificiali, attorno ai quali le danzatrici saracene ballavano il saltello con movimenti sinuosi ed eleganti del corpo al suono dei pifferi e dei tamburelli, accompagnandosi ritmicamente con lo schiocco delle dita. Gli tornava alla mente la fontana adorna di Veneri nude, il cui fondo era coperto di mosaici colorati, che raffiguravano ondine al bagno, mescolate con animali esotici, mentre ruscelletti di acqua limpida si insinuavano tra le colonne e gli alberi del giardino. Era questa la bellezza del mondo a cui pensava e che aveva impressa nella mente. Sin da piccolo provava un amore profondo per la natura, una passione vera, che non l’aveva mai abbandonato. Aveva aspirato a formare una corte che fosse la più raffinata, assecondato dalla moglie Costanza, e la trasformò in uno straordinario centro culturale di poesia, di scienza, di filosofia, di matematica, impiegando le personalità più dotte dell’epoca nelle diverse discipline, senza distinzione di razza e di religione, cristiane, greche, arabe, ebree. Ne apprezzò la cultura e rispettò le loro usanze e tradizioni.
Era una corte composita e nello stesso tempo unita e coesa, alla ricerca della verità e della bellezza, dove problematiche e teorie eterogenee si confrontavano, talvolta si scontravano, ma alla fine riuscivano a fondersi. Amava quell’ambiente che gli dava un senso di libertà, illuminato dalla bellezza e confortato dalla scienza. Quando gli affari militari e politici lo tenevano lontano da quel mondo, avvertiva la sua mancanza e provava un desiderio costante di farvi ritorno al più presto e di riprendere quel godimento interiore, allietato dai versi di promettenti poeti, di cui si sentiva partecipe, e dall’amore di giovani donne, affascinato da una mai appannata ricerca del bello.
Verso di esso si sentiva debitore per non avergli potuto dedicare tutto il suo tempo, schiacciato sotto il peso degli affari di Stato alla guida dell’impero, agitato da contrasti, talvolta anche familiari, spesso da invidie e da incomprensioni, avvelenato da tradimenti e da contrasti con la Sede Apostolica, i cui motivi erano spesso solo strumentali.

Federico incontra Al-Kamil Muhammad al-Malik

Federico incontra il sultano Al-Kamil Muhammad al-Malik

Si sentiva tranquillo, perché non era mai venuto a patti con la propria coscienza; la sua azione di governo era stata sempre diretta al benessere del popolo, a cui aveva dato le leggi e assicurato la libertà e la pace. I pontefici, che si erano succeduti sulla cattedra di Pietro negli ultimi anni, lo avevano duramente e anche ingiustamente combattuto, spinti soprattutto dalla cupidigia e dalla bramosia di potere. Avevano accantonato gli uffici spirituali e impugnato la spada per colpire, anziché alzare l’ostensorio per benedire. Aveva affrontato i pericoli e i disagi di una crociata, nonostante fosse scomunicato, per averne ritardato la partenza per reali cause di salute. I motivi veri, da cui era mosso il pontefice erano di spingerlo a partire per la Palestina in modo da tenerlo lontano dal regno ed avere mani libere per occupare i suoi territori.
In oriente si era accordato col sultano sulla liberazione di Gerusalemme e dei luoghi santi, perché entrambi nutrivano il desiderio di concludere in modo pacifico la questione di evitare stragi inutili e luttuose per impadronirsi delle poche case di un vecchio borgo, qual era allora Gerusalemme. Contro la città fu lanciato l’interdetto, che vietava ai chierici e agli ordini religiosi di assistere l’imperatore e cercava nel contempo di far fallire con ogni mezzo la missione. Egli da solo si era incoronato re di Gerusalemme in una chiesa vuota, con i crocifissi per terra e le statue coperte, senza nemmeno una candela o il rintocco di campane. Ma ce l’aveva fatta e questo per lui era importante, perché poteva far ritorno nel suo regno in pace con se stesso. Era turbato per le voci che gli giungevano dalla Sicilia sulla guerra mossagli dalle milizie pontificie. Appena rientrò, con una rapida campagna militare riconquistò i suoi territori e scacciò gli occupanti.
Del breve periodo trascorso in Palestina ricordava l’ingresso nella città santa, che appariva disabitata per l’interdetto lanciato dal suo acerrimo nemico Geroldo, il Patriarca di Gerusalemme. In città aveva sostato nel sacro recinto ed aveva ammirato l’imponente Cupola della Roccia, che si ergeva di fronte al Templum Domini. Del santuario musulmano ricordava la pianta ottagonale, che forse tenne presente nella costruzione di Castel del Monte. Si era commosso nella basilica del Santo Sepolcro per tutto quello che il luogo rappresentava per i cristiani e si meravigliò perché non aveva ancora sentito la voce del muezin che invitava i fedeli alla preghiera. Un dignitario gli precisò che il sultano aveva dato ordine di tacere per tutto il tempo in cui l’imperatore cristiano si fosse fermato a Gerusalemme. Apprezzò enormemente la sensibilità dell’amico musulmano e lo ringraziò, ma gli fece sapere che nella sua Palermo il muezin adempiva al rito tutti i giorni. E quando davanti alla moschea di Omar vide un prete che col vangelo in mano chiedeva l’elemosina a tutti, fedeli e non fedeli, senza distinzione, ordinò di allontanarlo subito e gli impose di non ripetere più quella funzione, se non voleva marcire in fondo ad una prigione.

Il giorno successivo alla presa di possesso della città santa, giunse alla sua dimora l’amico Fakhr-ad-Din, il quale per conto del sultano, di cui era ministro, gli portò splendidi doni, gioielli finemente lavorati, alcuni animali esotici, falconi incappucciati e delle ballerine saracene. Fu senza dubbio questo il dono che maggiormente gradì. Ne ammirò una in particolare per il colore ambrato della pelle, gli occhi sfavillanti e neri come l’ebano, i folti capelli crespi dello stesso colore. La osservò con lo sguardo pieno di ammirazione e, appena tornò a Palermo, la fece sistemare in un’ala della reggia. In sua compagnia trascorse le ore più felici e spensierate della vita. Amava vederla danzare sugli agili piedi con movenze sensuali e armoniose, volteggiando intorno all’ampia fontana; talvolta si nascondeva dietro le colonne, che circondavano la vasca e poi ricompariva all’improvviso, ansante e sorridente, mentre spargeva sull’acqua petali di rose. Uno spettacolo stupendo. Al termine della danza, si rannicchiava ai suoi piedi e gli poggiava la testa sulle ginocchia. Egli allora cominciava ad accarezzarle i capelli, che gli solleticavano il palmo della mano, come avveniva quando sfiorava la criniera di Dragone, il cavallo di un nero splendente, che era il suo preferito. Erano momenti di supremo piacere.
L’ultima volta l’aveva vista danzare come al solito intorno alla vasca, graziosa e leggera, poi con una giravolta gli fu accanto. Tentò di abbracciarla, ma la danzatrice con rapida mossa si allontanò e si nascose dietro una colonna. Quando riapparve, la guardò e notò i suoi occhi neri, che nella semioscurità brillavano come due stelle. Le sorrise al colmo della felicità; la ragazza capì e ricambiò il sorriso con un bacio pieno d’amore, soffiato al suo indirizzo sulla punta delle dita. Un giorno, mentre era a Cortenuova a celebrare la vittoria con i suoi cavalieri, gli recapitarono la notizia che a Palermo la danzatrice saracena, che lo deliziava nei giardini della Reggia, era scivolata, mentre ballava e aveva battuto la nuca sull’orlo della vasca. Aveva perduto conoscenza e durante la notte era morta senza riprendersi.
Nell’apprendere quella ferale notizia sentì il mondo crollargli addosso. Aveva sopportato tante disgrazie nel corso della vita, aveva perduto tante persone a cui era stato legato, ma questa gli sembrò la più crudele e dolorosa. Addio occhi neri, addio capelli crespi come crini, addio armonia, addio bellezza. La perdita era insostituibile. Non poteva abbandonare la campagna militare, anche se il suo primo impulso fu di lasciare tutto e di correre a Palermo. Quando si riprese, chiamò Bertoldo di Hohenburg e gli ordinò di partire immediatamente per la Sicilia, ingiungendogli di non svelare a nessuno la partenza e tanto meno i motivi che gli avrebbe spiegato. Poi commosso gli disse che la danzatrice saracena era morta per un incidente mentre stava ballando. Doveva essere tumulata nel sarcofago di porfido rosso, che anni prima aveva fatto trasportare da Cefalù a Palermo e destinato alla sua sepoltura. La tumulazione della ballerina doveva avvenire di notte in assoluta segretezza, avvertendo i testimoni che se avessero lasciato trapelare qualcosa sulla cerimonia, sarebbero stati torturati e gettati in prigione per il resto della vita. Successivamente, quando rimise piede nella sua terra si accertò che la sepoltura era avvenuta secondo quanto aveva disposto.

Nel Palatium di Castel Fiorentino, la malattia lo costringeva a stare sempre a letto e, se tentava di alzarsi, spesso le forze gli mancavano e doveva nuovamente coricarsi. La malattia non regrediva; anzi continuava a torturarlo senza concedergli tregua. I rimedi dei medici risultavano inefficaci ed egli si sentiva sempre più stremato. Si cibava di poche mele cotte al forno, che i medici continuavano a sostenere di essere l’unico cibo che poteva assumere per mitigare il male. Ma i risultati mancavano e non c’era alcun miglioramento che potesse incoraggiare. Solo la polverina bianca del medico arabo gli dava qualche sollievo e gli facilitava il sonno. Non aveva nemmeno voglia di parlare con i suoi amici filosofi , che si erano presentati a palazzo per stargli vicino e adesso se ne stavano muti e preoccupati in un’altra sala. Talvolta ricordava quando durante le sere d’inverno, in una sala della reggia, rischiarata dalla luce delle torce e dalle fiamme dei camini, che, bene alimentati e profumati, diffondevano un piacevole tepore, oppure d’estate nei giardini al chiarore della luna, distesi su comodi divani sotto le palme, discutevano sulla creazione dell’universo, sulla immortalità dell’anima, sull’esistenza di un altro mondo dopo la morte, sull’eternità. Tra breve, pensava tra sé con amaro presagio, avrebbe sciolto i dubbi e avuto le risposte alle sue domande, che lo avevano interessato sin da bambino. La vita dell’uomo è transitoria ed egli, sebbene malato nel corpo, era tuttavia lucido di mente e responsabile.
Rassegnato ormai al suo destino, volle dettare le sue ultime volontà nella consapevolezza di assicurare ai suoi discendenti l’autorità e la dignità, che aveva sempre tenute come punti di riferimento nel governo dell’impero. Nel momento estremo, al fine di assicurare la pace al suo diletto popolo, stabilì con dettagliata precisione le diverse attribuzioni concesse agli eredi, in modo che evitassero, dopo la sua morte, l’insorgere di liti e contese tra di loro. Non dimenticò nemmeno obiettivi di poco conto, come la costruzione di un ponte su un fiumiciattolo, che riteneva strategico nell’asse viario della regione, disponendo che la spesa andava attinta dalla rendita di una fattoria, che possedeva da quelle parti.
Chiamò accanto a sé per primo l’arcivescovo di Palermo Berardo di Castacca, poi volle che fossero presenti anche il margravio di Hohenburg Bertoldo, il genero Riccardo Conte di Caserta, il maestro delle scuderie Pietro Ruffo e il nipote Folco, il notaio e poeta Giovanni da Otranto, Giovanni di Ocrea, il suo medico personale Giovanni da Procida, il giudice dell’impero, del Regno di Sicilia e della Magna Curia Roberto da Palermo, il gran giustiziere imperiale e della Regia Curia Riccardo da Montenero e Nicola da Brindisi, pubblico scrivano e notaio del Regno di Sicilia e della Curia imperiale, che redasse il testamento. Al termine della stesura dell’atto firmò per primo Federico e poi tutti i presenti in qualità di testimoni, tranne Manfredi, figlio naturale dell’imperatore.

Il sarcofago nella cattedrale di Palermo

Il sarcofago nella cattedrale di Palermo

Federico con un flebile tono di voce fece giurare a tutti di essere garanti delle sue ultime disposizioni. In particolare, avessero bene in mente che la chiesa romana andava subito risarcita di quanto le era stato tolto, manifestando in tal modo un atteggiamento devoto nel confronti di essa, a condizione che non fossero lesi il prestigio e la dignità dell’impero. Designava erede universale il figlio Corrado, che doveva procedere in via primaria a sollecitare un accordo col pontefice, senza sacrificare le prerogative imperiali. Se Corrado fosse morto senza lasciare eredi, i successori sarebbero stati in ordine l’altro figlio Enrico e poi Manfredi, il figlio naturale, a cui era molto affezionato. Chiedeva di indossare sul letto di morte il saio dei cistercensi, l’ordine monastico che lo aveva sempre attratto, e di celebrare i funerali a Palermo senza alcuna pompa. Infine, dispose di essere sepolto nella Chiesa Maggiore della città nel sarcofago di porfido rosso accanto ai propri genitori, al nonno Ruggiero e alla prima moglie, Costanza, forse non amata, ma per la quale aveva sempre nutrito molta stima e rispetto.
Pensò all’euforia del prete di Roma, al momento ancora a Lione in Francia, che, appresa la notizia della sua morte, avrebbe esultato. Era questa la carità cristiana, commentò tra sé con amarezza, la misericordia del vicario di Cristo. Un prete lo aveva scomunicato per aver ritardato la partenza per la crociata, accusandolo di spergiuri e dissolutezze, che mascheravano le reali intenzioni di occupare il suo regno durante l’assenza in Palestina. Un altro lo aveva nuovamente scomunicato dopo averlo assolto, solo perché si era opposto alla cupidigia di incrementare il proprio potere temporale. Egli non aveva mai preso in considerazione queste miserie umane, che invece costituivano il prestigio e il potere di chi portava la tiara. A lui bastava il compianto delle sue genti e la tranquillità della sua coscienza per aver difeso l’autorità dell’impero, anch’esso di emanazione divina, per aver sempre operato per la pace e perseguito il benessere dei sudditi. Aveva avuto cura dei suoi beni, perché gli appartenevano per diritto divino, essendo l’imperatore.
Respirando a fatica, chiese a tutti i presenti nella camera di avvicinarsi e volle ribadire di celebrare le esequie con la massima semplicità, senza alcuno sfarzo. Inoltre, dispose di annunziare la sua morte solo dopo qualche giorno, in modo che si potesse prendere cognizione del nuovo assetto dell’impero, rispettando le disposizioni successorie stabilite col testamento. Ripetette che il suo corpo doveva essere sepolto nel sarcofago di porfido rosso, accanto alle persone più care, i genitori, il nonno e la moglie Costanza. Infine, ingiunse a tutti di giurare solennemente che, se nel sarcofago avessero trovato le spoglie di un altro cadavere, non dovevano rimuoverle né indagare a chi appartenessero, perché, per sua espressa volontà, aveva deciso di riposare accanto ad esse per l’eternità. I presenti si guardarono perplessi, poi col capo chino e la mano destra sul cuore giurarono che avrebbero rispettato puntualmente le sue decisioni.

Federico sembrò avere acquistato una rassegnata serenità ed anche quelli che gli stavano attorno si rilassarono. Chiamò l’arcivescovo Berardo e gli chiese di volersi confessare, perché, mondato dai peccati, potesse essere accolto in seno alla santa chiesa, madre di misericordia. Tutti uscirono dalla stanza, dove restò solo l’arcivescovo, che gli impartì i conforti religiosi e gli somministrò il viatico, incurante dei divieti imposti dalla Sede Apostolica. Al termine, l’imperatore sembrò assopirsi e alcuni rientrarono. Dopo poco l’imperatore socchiuse gli occhi e abbozzò uno smorto e vago sorriso, come a ringraziare quanti gli erano stati vicini ed anche perché avrebbe chiarito fra poco i misteri e i dubbi, che durante la vita lo avevano assillato e incuriosito. Fu l’ultimo sorriso di Federico imperatore. All’improvviso, si abbandonò pesantemente sui cuscini e rimase immobile. Manfredi fu il primo a reagire. Si avvicinò al letto, guardò commosso il padre così tranquillo da sembrare che dormisse e con un gesto di immenso affetto gli chiuse gli occhi, che ancora brillavano di un azzurro intenso. La meraviglia del mondo non c’era più. Era l’anno del Signore 1250 – VIII Indizione – il giorno 13 del mese di dicembre. Era il 30° anno del suo impero, il 22° del Regno di Gerusalemme, il 52° del Regno di Sicilia. Mancavano solo 13 giorni al suo LVI genetliaco. Montavano la guardia al Palazzo, silenziosi e commossi, i fedeli arcieri saraceni, fatti giungere da Lucera.

Federico era stato un personaggio difficile, talvolta anche violento, ma indubbiamente di elevate capacità culturali e di indiscussa competenza nell’amministrazione dello Stato. Quest’uomo, che le avversità della vita non erano riuscite a fiaccare, giaceva adesso sereno nella immobilità della morte. Per tutta la vita aveva cercato il paradiso in terra, aveva prediletto l’amore e la bellezza e aveva creduto nella suprema autorità dell’impero. Non aveva mai avuto paura dell’eternità ed era ritenuto a torto un non credente e aveva rivolto il suo interesse alle leggi immutabili della natura, che scandiscono ogni istante della vita terrena dell’uomo e regolano i fenomeni del mondo visibile. La sua vita era stata un continuo avvicendamento di odi, d’inimicizie, di guerre e di brevi stagioni di pace. Ma il suo genio gli fece superare gli ostacoli e rifulse luminoso e sublime.
Anche in mezzo a tanti trambusti, legò il suo nome a scelte nobili ed elevate, proteggendo l’arte, la poesia, la scienza, assicurando la giustizia e la tranquillità al suo popolo, promuovendo l’osservazione scientifica e la cultura. Il pontefice a Lione, all’inizio del 1251, venuto a sapere della morte del suo nemico, diede ordine a tutte le chiese di suonare a festa le campane e aggiunse con tono sprezzante: “Si rallegrino il cielo e la terra”, un comportamento di certo poco dignitoso da parte di chi si definiva vicario di Cristo e successore di Pietro. Di tutt’altro tono fu il messaggio che Manfredi inviò al fratellastro. Corrado per annunciargli che era morto “il sole del mondo che brillava sulle genti, il sole della giustizia e della pace”, confortandolo perché, dopo la morte c’è sempre la vita. Federico fu definito dai contemporanei “stupor mundi”, meraviglia del mondo, di un mondo troppo angusto per lui, che non sempre lo comprese, spesso lo rifiutò e non seppe apprezzarne le illuminate intuizioni.

Per saperne di più
David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Einaudi, Torino 1990.
Wolfgang Stürner, Federico II e l’apogeo dell’impero, Salerno Editrice, Roma 2009.
Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Federico II: ragione e fortuna, Laterza, Roma-Bari 2004.