SPAGNA, UNA PACE SEMPRE RIMANDATA

di Max Trimurti -

Gli anni Trenta del XX secolo sono caratterizzati dalla violenza. Fino al 1939 il paese è lacerato dalla guerra civile, quindi attraversa più di 35 anni di dittatura prima di ritornare alla democrazia. Oggi lo Stato centrale viene contestato dai secessionisti catalani.

“Delenda est monarchia” (La monarchia deve essere distrutta): il 15 novembre 1930, il saggista e filosofo liberale José Ortega y Gasset termina così un articolo pubblicato nel giornale “El Sol”, nel quale denuncia l’atteggiamento di re Alfonso XIII di Borbone Spagna al termine della dittatura di Miguel Primo de Rivera y Orbaneja. Per comprendere la portata di questa affermazione occorre leggere la frase precedente: “Spagnoli, il vostro Stato non esiste più. Occorre ricostruirlo!”. Ecco dunque una diagnosi che serve da filo conduttore per la storia contemporanea della Spagna. Nel 1922, lo stesso Ortega y Gasset aveva pubblicato La Spagna invertebrata, un saggio nel quale, interrogandosi sul senso della storia spagnola, concludeva mettendo in evidenza la debolezza del processo di nazionalizzazione.
A partire dal 1931 l’ambizione dei repubblicani sarà di ricostruire uno Stato forte, che si svincoli dalla presa della Chiesa, che sappia dare risposte alle rivendicazioni regionali del nazionalismo catalano, basco e galiziano e che riesca ad apportare le garanzie necessarie per lo sviluppo economico e sociale. Questo Stato repubblicano, che si sviluppa fra il 1931 e il 1936, troverà sulla sua strada resistenze accanite. La guerra civile sarà un conflitto fra due identità di nazione e due progetti di Stato. E la visione centralizzatrice, tradizionalista e conservatrice incarnata dal generale Francisco Franco avrà il sopravvento.
Alla morte di Franco, nel 1975, se lo Stato esiste, è uno strumento politico detestato. Farlo progredire per dare corpo ad un organismo democratico ed assicurare una transizione a partire dal rispetto della legalità, costituirà la sfida principale per gli attori della democratizzazione. Una sfida che continua anche oggi. Nel 2017 lo Stato in Spagna è stato contestato dal tentativo di secessione, senza basi legali, condotto dalle istituzioni catalane, Parlamento e Generalità. A prescindere dal puro aspetto di legalità democratica, ai quali i Catalani non hanno forse prestato troppa attenzione e soprattutto al fatto che una secessione è storicamente in controtendenza rispetto al presente, la riforma dello Stato spagnolo appare in ogni caso indispensabile. Ma se esiste un accordo sulla diagnosi, le divergenze, a volte insormontabili, prevalgono sull’eventuale soluzione.
Occorre quindi chiedersi se lo Stato in Spagna rappresenti l’incarnazione di una sovranità popolare oppure l’espressione di “blocchi di poteri” che lo controllano. E se le istituzioni abbiano fallito nel costruire i suoi cittadini determinando la crisi attuale.

Frontespizio della Costituzione del 1931

Frontespizio della Costituzione del 1931

Le elezioni municipali del 12 aprile 1931 costituiscono una schiacciante vittoria dei repubblicani e Alfonso XIII lascia la Spagna. Il 14 viene proclamata la repubblica, la monarchia viene “distrutta”, proprio come chiedeva Ortega y Gasset. Fino alla promulgazione della Costituzione, il 9 dicembre, il Paese vive otto mesi di grande effervescenza politica. Come ai tempi delle Cortès di Cadice (1810-1812), il lavoro dell’Assemblea Costituente dà vita ad una serie di progetti e di discorsi sulla Spagna. La ricostruzione dello Stato impegna la definizione di “nazione”. Il ventaglio di opzioni è ampio: si va dalla repubblica federale, sognata da alcuni nazionalisti catalani, al centralismo giacobino, che vede nell’esempio francese il modello da seguire. Tutti sono d’accordo sulla secolarizzazione dello Stato e della società. I socialisti vorrebbero istituire una repubblica sociale. I monarchici continuano a vedere nella monarchia e nella Chiesa una rappresentazione dell’identità storica del Paese. Nel 1932, su suggerimento del Vaticano, i Cattolici vengono invitati a evitare di legare la lotta alla causa della monarchia e sostenere la Chiesa nel seno della Repubblica. Il fattore religioso si impone davanti al parametro istituzionale.
Sul progetto repubblicano pesa però il ricordo del fallimento della Repubblica federale e del cantonalismo del 1873-1874, caduti sotto i colpi della restaurazione monarchica. Già allora era stata posta la questione dell’unità nazionale: il movimento cantonalista, ispirato in parte agli ideali della Comune di Parigi, aveva tentato la carta della decentralizzazione estrema. Per loro, la rivoluzione territoriale esprimeva la rivoluzione sociale.
La repubblica vuole evitare questo ricordo e i dirigenti repubblicani hanno tutto l’interesse di mostrare che il nuovo sistema istituzionale è compatibile con l’unità del paese. Il 14 aprile 1931 viene proclamata da Francesc Macià i Llussà, leader dell’Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), la Repubblica Catalana nella Federazione iberica. Il partito, fondato il 19 marzo 1931, vuole occupare l’ala sinistra del nazionalismo. Da Madrid arrivano segnali di distensione, per non aprire una più ampia crisi sulla natura dello Stato spagnolo. Ma viene comunque preso l’impegno di scrivere una Costituzione che darà spazio alla specificità catalana.
L’articolo 1 di questa Costituzione recita: “la Repubblica costituisce uno Stato integrale, compatibile con l’autonomie delle due municipalità e delle Regioni”. Le modalità di questa autonomia vengono precisate negli articoli 11 e 12 e la suddivisione delle competenze fra lo Stato centrale e le regioni autonome viene descritta dagli articoli da 14 a 22. L’articolo 4 proclama: “Il castigliano è la lingua ufficiale della Repubblica. Ogni spagnolo ha l’obbligo di conoscerlo e di utilizzarlo, senza pregiudizio dei diritti che le leggi dello Stato potrebbero riconoscere alle lingue delle province e delle regioni. Salvo disposizioni contrarie di leggi specifiche, non si potrà esigere da nessuno la conoscenza e l’uso di alcuna lingua regionale”.
Lo Stato, pur riconoscendo alle “province con caratteristiche storiche, culturali ed economiche comuni” la possibilità di organizzarsi in “regioni autonome”, si preoccupa di definire nei dettagli il perimetro delle competenze di questi “nuclei politico amministrativi”.

Alfonso XIII e il generale Primo de Rivera nel 1924

Alfonso XIII e il generale Primo de Rivera nel 1924

Il catalanismo porta con veemenza la specificità della regione, che deve radicarsi nella cultura, nel diritto e nell’economia. Ma, politicamente, è pericoloso. La sinistra catalana ha raccolto il massimo dei consensi in occasione delle elezioni regionali del 1932. Nel 1933, mentre per la prima volta le donne spagnole possono votare, la destra vince le elezioni generali. Il confronto fra Madrid e Barcellona diventa uno scontro destra-sinistra che complica il fattore regionale. Il momento culminante si ha il 6 ottobre 1934: Lluis Companys i Jover proclama lo Stato catalano della Repubblica federale di Spagna. Nessuna resistenza all’ingresso dei ministri della destra nel governo centrale di Alejandro Lerroux Garcia. Barcellona intende incarnare lo spirito della repubblica spagnola. Il generale Domingo Batet Mestres, su ordine di Lerroux, conduce le operazioni di ristabilimento dell’ordine costituzionale. La mattina del 7 ottobre, le autorità catalane si arrendono. Da quel momento inizia un periodo in cui l’autonomia catalana viene completamente dimenticata.
Questa opposizione fra Madrid e Barcellona, fra autorità centrale ed una visione federalista, assumerà connotazioni mitiche nella lettura dei nazionalisti catalani. Ancora oggi alcuni pensano che la guerra civile sia stata una guerra della Spagna contro la Catalogna. In realtà si trattò di uno scontro fra la destra, che aveva vinto le elezioni del 1933, senza peraltro ottenere una maggioranza sufficiente per governare, e la sinistra, che faceva della Catalogna il suo bastione. La concessione di Alejandro Lerroux alla destra di José Maria Gil Robles y Quiñones, capo della CEDA (Confederazione Spagnola delle Destre Autonome) è, per la sinistra repubblicana, un tradimento.
La vittoria della sinistra con il Fronte Popolare, nel febbraio 1936, doveva normalizzare la situazione e restituire alla Generalitat i suoi poteri ed alla Catalogna la sua autonomia. La ripresa del programma repubblicano, specialmente sul piano sociale, come sulla questione regionale con uno statuto d’autonomia negoziato per i Paesi Baschi e un pre-statuto per la Galizia, contribuiscono a mobilitare nuovamente le opposizioni che iniziano a cospirare. Il 17 e 18 luglio 1936 le opposizioni passano all’azione: è il tentativo di Colpo di Stato. La lunga guerra civile che ne segue diviene una guerra fra almeno due Spagne.
Se nel luglio 1938, in un momento critico per i repubblicani, il presidente della Repubblica, Manuel Azana Diaz difende l’idea di una soluzione generale fondata sulla pace, la pietà e il perdono, Franco, da parte sua, vuole a tutti i costi una vittoria totale. La ottiene nell’aprile 1939 e la prolunga con una repressione senza pietà.

Il regime franchista rimane, per certi aspetti, un enigma. Presenta delle caratteristiche fasciste con la concentrazione del potere nelle mani del “Caudillo” e il sistema del partito unico. È anche una dittatura militare, con una rappresentanza di ufficiali nelle istanze governative e amministrative. Istituzionalmente, si insedia nell’ambiguità. Nel 1947, la legge di successione, approvata per referendum, stabilisce che “la Spagna come unità politica è uno Stato cattolico, sociale e rappresentativo che, in accordo con la sua tradizione, si dichiara costituito in regno”. Ma l’articolo 2 precisa: “La direzione dello Stato spetta al Caudillo della Spagna e della Crociata, il generalissimo delle Forze Armate, Francisco Franco Bahamonde”.
Un regno senza re… Uno Stato tradizionale che fa a meno di una dinastia… Nel 1966 una nuova legge organica contribuisce a distinguere le funzioni del Capo dello Stato e del Capo del Governo. Occorrerà, tuttavia, attendere il 1973 perché Franco nomini un titolare: sarà il suo fedele ammiraglio Luis Carrero Blanco, assassinato il 20 dicembre dello stesso anno dall’ETA.
In verità, il regime è autocratico. Franco è la fonte di ogni potere. Amministrativamente, il potere si declina attraverso i governatori delle province, equivalenti ai nostri prefetti, nominati direttamente dl Ministero degli Interni. Questo provvedimento costituisce un segno della ricentralizzazione dello Stato al quale procede il regime franchista. Secondo lo storico Marti Marin Corbera, dell’Università di Barcellona, “si è trattata di una amministrazione territoriale, che voleva omogeneizzare il funzionamento amministrativo e politico del paese nel suo insieme” (Corbera Martì Marin, “Los governadores civiles del franquismo, 1936-1963”, in Historia y Politica n. 29, 2013).
A tutto questo va aggiunto un discorso nazionalista che intende imporre la concezione della Spagna cattolica ed unitaria, fondamento della Crociata antirepubblicana, come unica verità della nazione. La forza di Franco è stata quella di aver saputo realizzare una sintesi fra le ambizioni fasciste della Falange spagnola di José Antonio Primo de Rivera y Saenz de Heredia (fucilato dai repubblicani nel 1936) e le concezioni conservatrici della destra tradizionale. Il nazionalismo servirà da motore per la mobilitazione delle masse fino alla fine del regime.
La centralizzazione franchista è stata in primo luogo una reazione contro la decentralizzazione iniziata dalla repubblica. Ma essa ha dovuto confrontarsi con dei retaggi storici. Se la Catalogna ha perso le sue istituzioni autonome, i Paesi Baschi vengono trattati da provincia. Guipuzcoa e Biscaglia, che avevano resistito, vengono punite, perdendo i loro privilegi fiscali ereditati dalle lotte del XIX secolo. Ma la provincia di Alava, che si era schierata a favore della sollevazione franchista, conserverà i suoi privilegi. Il motto del Franchismo – la Spagna una grande e libera – insiste sull’unità. Il modello storico promesso da Franco è quello della Spagna imperiale, quello dell’apogeo del XVI secolo.
Parallelamente, il regime, a partire dal 1958-1960, adotta una politica di liberalizzazione che aprirà le porte alla crescita. Nel decennio seguente, la geografia e gli equilibri sociali si modificano in profondità. Madrid passa dal milione di abitanti del 1940 ai 3,1 del 1970, Barcellona passa da 1 a 1,7, Bilbao da 195 mila ai 400 mila. Fra il 1941 ed il 1975 sei insiemi regionali vengono favoriti da migrazioni interne (Catalogna, Madrid, Paesi Baschi, Valencia, Baleari, Canarie), mentre la Spagna del centro (Castiglia, Aragona ed Estremadura), quella del sud (Andalusia e Murcia) e del nord ovest (Galizia, Asturie e Cantabrica) si svuotano, sotto l’effetto di un esodo rurale massiccio.
Nel 1975, quando muore Franco, è già operante una nuova cultura spagnola, attirata dal consumismo, segnata dall’esperienza massiccia dell’immigrazione interna o esterna. Essa porta anche le tracce della ricomposizione del cattolicesimo post conciliare ed è anche percorsa dal militantismo dei gruppi antifranchisti.
Il cardinale arcivescovo di Madrid, monsignor Vicente Enrique y Tarancon, in occasione della messa di intronizzazione del nuovo re, Juan Carlo, il 27 novembre 1975, mette fine all’illusione nazional cattolica. Egli ricorda che “la fede cristiana non è una ideologia e che essa non può essere identificata con l’una o l’altra delle ideologie imperanti”. Così facendo, egli riconosce la legittimità del pluralismo politico, sociale, culturale ed ideologico. Con questo discorso salta un lucchetto o un chiavistello del sistema e con lui luna rappresentazione univoca del paese. La Spagna può e deve coniugarsi al plurale.

Inizia, a quel punto, un periodo di trattative politiche fra il potere e le opposizioni per portare il paese verso una democrazia. Sarà appunto la transizione democratica che convenzionalmente si fa risalire alla nomina di don Adolfo Suarez Gonzales, duca di Suarez, alla presidenza del Governo nel 1976 e termina con la vittoria dei socialisti nel 1982. In queste discussioni che si concludono con la legalizzazione dei partiti politici, le elezioni libere (15 giugno 1977), la redazione di una Costituzione e la sua approvazione per referendum (6 dicembre 1978), il concetto di “nazione” verrà rivisitato e il riconoscimento delle regioni a forte identità diventerà una priorità.
Il governo di Adolfo Suarez ristabilisce le singolarità fiscali della Biscaglia e del Guipuzcoa. Nel giugno 1977 avvia un negoziato con il presidente della Generalitat in esilio, Josep Tarradellas i Joan. Questi rientra a Barcellona il 23 ottobre 1977, dove viene accolto da circa un milione di persone. Il governo lo pone alla testa della Deputacion di Barcellona, l’equivalente franchista del Consiglio Regionale.
Dopo le elezioni del 15 giugno 1977 viene messa in piedi una commissione costituente con il compito di redigere un testo che riconosca la diversità della Spagna. Occorrerà molto senso del negoziato per mettere insieme le vedute centralizzatrici del vecchio ministro di Franco, Manuel Fraga Iribarne, con quelle del nazionalismo catalano di Miquel Roca Yunyent, o ancora quelle propugnate dalla sinistra. Ancora una volta, al centro del patto costituzionale si gioca il ruolo rappresentativo della nazione. La lotta contro il franchismo aveva favorito, dopo la sconfitta (largamente dovuta alle divisione nel fronte repubblicano) un lento e progressivo riavvicinamento degli oppositori. La cultura politica degli attori della transizione precede la loro azione (Julia Santos, Transicion. Historia de una politica española 1937-2017, Barcellona, Galaxia Gutenberg, 2017). La decentralizzazione appare in tale contesto come ineluttabile: essa rappresenta da un lato il rifiuto dell’omogeneizzazione franchista e reintroduce il ricordo della repubblica nel processo di democratizzazione.

Le tre regioni, dette storiche – la Catalogna, i Paesi Baschi e la Galizia – vengono a quel punto distinte perché hanno già disposto fra il 1932 ed il 1939 di uno statuto e pre-statuto d’autonomia. Per Adolfo Suarez costituisce una priorità ottenere il sostegno degli autonomisti. Lo statista spagnolo dimostra al mondo la sua buona fede democratica legalizzando il partito comunista spagnolo (aprile 1977), mentre il successo del referendum di ratificazione della Costituzione valida l’insieme della transizione democratica. In catalogna, gli elettori approvano con il 91% il nuovo testo. Nei Paesi Baschi, nonostante una astensioni importante (55%), il “si” vince con oltre il 70% dei voti.
Le elezioni regionali nei Paesi Baschi (9 marzo 1980) ed in Catalogna (20 marzo 1980) non hanno rappresentato solamente la messa in opera delle nuove istituzioni, ma anche una forma di riparazione e di vittoria ritardata dei nazionalismi locali sul nazionalismo unificatore ed univoco del Franchismo. Baschi e Catalani giudicano che la Spagna, nel suo passato, sarebbe stata colpevole di aver alienato i diritti delle regioni non castiglianofobe. Le rivendicazioni nazionaliste sarebbero, per la loro storia, democratiche. Una parte delle difficoltà attuali provengono da questo elemento della cultura politica, forgiatasi nell’opposizione al franchismo e durante la transizione.
L’abuso da parte del Franchismo dei simboli nazionali giustifica i fiorire di simboli regionali concorrenti. Oggi, il Paese dispone di 17 bandiere di comunità autonome. Nei comuni viene richiesto che vengano issate le bandiere della Spagna, dell’Unione europea e della Comunità autonoma, alle quali la municipalità aggiunge lo stendardo della città. Sono numerose le polemiche in Catalogna o nei Paesi Baschi, in quanto la bandiera nazionale viene ufficialmente boicottata.
Dal 1968 al 2011 il terrorismo dell’ETA ha colpito allo scopo di imporre, per fortuna senza successo, una rivendicazione di indipendenza. Secondo lo storico francese Joseph Perez (Histoire de l’Espagne, Fayard, 1996), la questione terrorista, che egli collega a quella dei nazionalismi, è la “questione più grave, che il paese si trova da risolvere”.
Mentre la lotta è stata sanguinosa (più di 800 morti per attentati terroristici) e lunga, la questione basca si è normalizzata nel funzionamento delle istituzioni. Il nazionalismo basco rimane – che governa il Paese quasi ininterrottamente dal 1980 – ma appare oggi compatibile con l’idea della Spagna costruita attraverso il consenso costituzionale del 1978. Dal 1980 al 1996 lo Stato delle autonomie si è sviluppato su due diversi ritmi: da un lato, le tre comunità storiche, più l’Andalusia e la Navarra e dall’altro le altre dodici comunità. Dal 1996, il paese è quasi uniformemente decentralizzato. Nel 1993, il partito socialista di Felipe Gonzales Marquez perde la maggioranza assoluta alle Cortès. I deputati nazionalisti catalani e baschi diventeranno un punto di appoggio. Cambiamento di rotta nel 1996: stavolta mancano dei voti ai conservatori di José Maria Aznar Lopez. Nazionalisti catalani e Baschi passano ad appoggiarlo. La logica parlamentare consente a formazioni che privilegiano obiettivi regionali, mascherati dietro discorsi più globali, di diventare arbitri della vita politica. E lo fanno ricorrendo al loro brevetto di democrazia, guadagnato nella lotta al Franchismo.

Manifestazione indipendentista a Barcellona nel 2012

Manifestazione indipendentista a Barcellona nel 2012

Fra il 2012 ed il 2018, la crisi catalana, la cui conclusione appare ancora incerta, viene a turbare il fragile equilibrio istituzionale stabilito nel 1978 e consolidato da 30 anni di pratica. Gli Europei ed il mondo riscoprono la pluralità spagnola.
Da un lato, nazionalisti catalani radicalizzati denunciano uno Stato totalitario, nel momento in cui la Spagna ha portato a compimento la più importante decentralizzazione del’epoca contemporanea. Al di là della soluzione del problema, la crisi catalana riattiva fratture storiche ed oppone diverse idee della Spagna. Rifiutando di associare la Catalogna alla Spagna, proprio quando la storia dimostra l’esatto contrario, i tradizionali indipendentisti (che in questo caso hanno trovato anche l’appoggio della borghesia di destra di Convergenza Democratica ed Unione Democratica di Catalogna, interessata al controllo locale giudiziale e fiscale) riattivano un mito, secondo il quale la Catalogna potrebbe essere una Spagna radicalmente differente. Una cosa difficile da digerire sotto il punto di visto storico: la Catalogna, che ha contribuito con la Castiglia a fare la Spagna, si troverebbe nelle stesse condizioni del Piemonte se dovesse reclamare l’indipendenza dall’Italia, che ha contribuito a costruire.
La Spagna si trova di fronte ad una rebus sulla sua unità. Politicamente, le vie della costruzione istituzionale di questa unità sono state difficili da trovare e sono state imposte dall’alto. Ma esiste una Spagna vissuta, sentita e rappresentata negli Spagnoli. Che la riunione di tutte queste concezioni non converga su un modello unico, non deve mascherare la realtà di una Spagna che, oggi più che mai, si coniuga al singolare ed al plurale.
Vale la pena concludere questa analisi con una frase attribuita al cancelliere tedesco Otto von Bismarck: “La Spagna è il paese più forte del mondo: gli Spagnoli hanno passato secoli a cercare di distruggerlo e non ci sono riusciti”.

Per saperne di più
Paul Aubert, La frustration de l’intellectuel liberal, 1898-1939, Cabris Sulliver, 2010;
JuliaSantos, Transicion. Historia de una politica española (1937-2017), Barcellona, Galaxia Gutenberg, 2017;
Joseph Perez, Histoire de l’Espagne, Fayard, 1996;
Guy Hermet, Storia della Spagna nel Novecento, il Mulino, 1999.