QUANDO GLI INGLESI DROGAVANO LA CINA

di Massimo Iacopi -

 

Il commercio dell’oppio nel Celeste Impero fruttò al Regno Unito enormi ricchezze. Che i soldati di Sua Maestà difesero in una contesa commerciale sfociata in due guerre.

Parlare dell’oppio e dell’Inghilterra vittoriana evoca immagini di sordide fumerie nell’East End di Londra, frequentate da creature perdute che “tirano sul bambù” per tutta la giornata. Di fatto questa droga ha affascinato numerosi scrittori dell’epoca, da Thomas de Quincey a Charles Dickens, da Samuel Taylor Coleridge a George Eliot. Il laudanum (miscuglio di alcol e oppio) era senza dubbio l’analgesico più utilizzato all’epoca, una sorta di Aspirina del XIX, disponibile a un prezzo irrisorio in tutte le farmacie.
Uso edonistico e terapeutico sono alla base del suo successo: nel 1827 nella sola Inghilterra si consumavano sei tonnellate di prodotti oppiacei, salite a più di 18 tonnellate nel 1859. Negli stessi anni le importazioni ammontano rispettivamente a 56 e a 140 tonnellate. Poiché veniva importato molto più laudano di quanto se ne potesse consumare all’interno, si sviluppò un fruttuoso commercio di ri-esportazione in direzione dell’America del nord e dell’Europa continentale. La produzione di papavero era concentrata essenzialmente nel Bengala, uno dei cardini geopolitici dell’imperialismo britannico in India, attraverso la Compagnia delle Indie Orientali (East India Company, EIC).
La creazione “dell’Onorevole Compagnia”, come veniva chiamata, risale al 1600, sotto il regno della regina Elisabetta I. La compagnia godeva del monopolio del commercio con il subcontinente indiano (le Indie orientali, per opposizione alle Indie occidentali, ovvero le Antille). Dopo la Guerra dei Sette Anni (1756-1763), che pose fine alle ambizioni francesi in India, l’EIC ottenne il diritto di annettere territori e di amministrarli in nome della Corona Inglese, raccogliendovi le imposte. La sua potenza politica ed economica era immensa e i suoi amministratori si arricchivano immensamente prima di rientrare in Inghilterra e di vivere di rendita.

Il No dell’imperatore

Tuttavia, la ricchezza dell’EIC non si basava solo sul commercio fra l’India e la Metropoli. L’India rappresentava anche una testa di ponte per spingersi più a est, in particolare in Cina. Fin dai primi contatti con l’Impero di Mezzo, la Cina divenne il fornitore dei prodotti di culto per i cittadini Britannici: seta, tè, spezie, porcellane (in inglese chinaware, il materiale “made in China”).
Per contro, la Cina non acquistava nulla, o quasi dal Regno Unito, come d’altronde presso gli altri Stati europei. Nel 1793 l’imperatore Quianlong rispose a re Giorgio III, che lo pregava di accettare l’installazione di una ambasciata a Pechino per supervisionare il commercio fra i due Paesi (la celebre Missione George Macartney): «Io non attribuisco alcun valore agli oggetti strani o ingegnosi e non mi servono a nulla i prodotti delle manifatture del vostro Paese». L’imperatore, proseguendo nello scritto, consentiva che i negozianti britannici continuassero a commerciare a Canton, come tutti i mercanti stranieri, «poiché il tè, la seta e la porcellana che l’Impero Celeste produce sono assolutamente necessari alle Nazioni dell’Europa e a Voi stessi».
La sostanziale chiusura del mercato cinese alle importazioni britanniche obbligò l’EIC a saldare questo deficit commerciale in lingotti d’argento. In effetti, questa è l’epoca del mercantilismo – dottrina che basa la salute economica di un Paese sull’accumulazione di metalli preziosi e su un saldo attivo nel commercio estero – e una tale fuga in avanti viene considerata molto grave. Inoltre, alla fine del XVIII secolo l’argento diviene difficile da reperire, contribuendo ad aumentare le tensioni sul mercato. Ma sul mercato esiste qualcosa che i Britannici possono vendere ai Cinesi: l’oppio. Sono stati i mercanti arabi che l’hanno introdotto in Cina intorno al VI secolo. Il suo consumo era inizialmente limitato a un uso medicinale, ma aumentò a partire dal XVII secolo: veniva fumato mescolato al tabacco, anch’esso importato dall’America attraverso le Filippine spagnole. I primi Europei a vendere l’oppio in Cina saranno i Portoghesi, rapidamente seguiti dagli Olandesi e quindi dai Britannici.

L’arte del contrabbando

Per eliminare ogni rivale la Compagnia delle Indie Orientali si assicurò il monopolio della coltura del papavero nel Bengala, ormai stabilmente sotto il suo dominio. Nel 1729, a fronte dell’aumento del consumo di oppiacei, che arrivava a interessare il personale della Guardia Imperiale, l’imperatore Yongzheng vietò la vendita e il consumo di oppio, a eccezione del consumo per uso medico. Nel 1796 giunse il divieto della coltura e dell’importazione della droga. Ma non servì a nulla. Nel 1729 entravano in Cina 60 tonnellate di oppio, salite a 75 nel 1775; a fine secolo furono superate le 200 tonnellate e nel 1838 l’importazione raggiunse la cifra record di 2.500 tonnellate. Anche se gli inglesi non erano i soli esportatori, il prodotto appariva come un’ottima soluzione per appianare il deficit commerciale del Paese. Per contro, le autorità cinesi erano allarmate per il crescente flusso di uscite di denaro.
Gli inglesi, a causa dell’interdizione imperiale, non praticarono direttamente il contrabbando, ma ricorsero a intermediari locali che vendevano la droga in cambio di moneta, che rimessa nelle casse dell’IEC serviva per pagare gli acquisti di prodotti cinesi. Fu allestita una rete di dealer ante litteram, che beneficiava della tolleranza delle autorità locali, facilmente corruttibili. Ma che suscitò una risposta vigorosa da parte del governo di Pechino. Nominato espressamente per far cessare questo commercio fraudolento, Lin Zexu, governatore generale di Canton, nel 1839 arrestò 1500 rivenditori di oppio e fece distruggere più di una tonnellata di droga. Indirizzò inoltre una lettera alla regina Vittoria perché l’aiutasse a «liberare la Cina di quelli che esercitano il contrabbando dell’oppio per guadagnarsi il popolo cinese e permettere in tal modo a questo veleno di diffondersi in tutte le province». Lanciò inoltre una precisa accusa: «Navi barbare si affollano qui per fare commercio e grossi profitti. Il loro profitto viene dalla ricchezza della Cina, dalla sua ricchezza lecita. Con quale diritto utilizzano essi in cambio questa droga velenosa per fare del male al popolo cinese?» La lettera non ebbe alcun esito e il governo di Sua Maestà si impegnò nella Prima guerra dell’Oppio (1839-1842) seguita da un’altra (1856-1860) che vinse senza troppi problemi.

Il granaio dello Yunnan

Al termine di questi due conflitti, il commercio dell’oppio venne legalizzato e il governo imperiale ricevette persino una piccola percentuale su ciascuna cassa importata. Ma si trattava pur sempre di una intossicazione pianificata ai danni dell’Impero cinese. Di fatto, le importazioni di oppio continuarono a crescere fino alla fine del secolo.
E la richiesta era talmente importante che fu avviata una produzione nazionale nel Sichuan e nello Yunnan. Si trattava di droga di minore qualità ma molto meno cara e quindi alla portata di un maggior numero di consumatori. Alla fine degli anni ’70 del XIX secolo la produzione nazionale raggiunse il doppio delle importazioni straniere e, secondo alcuni osservatori inglesi sul posto, divenne dieci volte più grande verso il 1900 (34.506 tonnellate contro le 3.450 della decade 1870).
Il consumatori cinesi erano valutati intorno a una ventina di milioni su una popolazione di 430 milioni di individui, tenendo anche conto che i bambini e le donne di norma non fumavano. Si fumava molto nei porti aperti al commercio occidentale e nelle regioni costiere, meno nelle campagne e nell’interno della Cina, salvo dove esisteva una forte produzione locale.
L’oppio cinese cominciò così a costituire una pesante concorrenza per i Britannici e il commercio dell’oppio indiano divenne progressivamente meno vantaggioso. Inoltre, il carattere immorale di questo traffico, che basava il proprio profitto sull’intossicazione di milioni di persone, venne denunciato con sempre maggior forza in Gran Bretagna, specialmente dalle Chiese Protestanti. Quasi all’improvviso, nel 1906 Londra smise di opporsi all’adozione, da parte del governo cinese, di una politica di proibizione allo scopo di sradicare la produzione, l’importazione e il consumo di oppio.
Nei cinque anni successivi (1907-1911), la produzione nazionale precipitò dalle 35.000 tonnellate a circa 4.000, mentre le importazioni provenienti dall’India britannica scesero da 3.200 tonnellate a 1.500. Questo promettente sviluppo non sopravvisse purtroppo alla caduta dell’Impero cinese del 1911: i “signori della guerra” che si spartirono il Paese lasciarono nuovamente spazio alla coltura del papavero, fonte di notevoli entrate finanziarie. La Cina degli anni ’20 e ’30 del XX secolo diventerà nuovamente una gigantesca fumeria, fino alla successiva occupazione giapponese.

Per saperne di più
Zheng Yangwen, Storia sociale dell’oppio – Utet, Torino, 2007
Frank Dikötter, Lars Peter Laamann, Zhou Xun, Narcotic Culture: A History of Drugs in China – C. Hurst & Co. Publishers, 2004
Peter Ward Fay, The Opium War, 1840-1842: Barbarians in the Celestial Empire in the Early Part of the Nineteenth Century and the War by Which They Forced Her Gates Ajar, The Opium War, 1840-1842: Barbarians in the Celestial Empire in the Early Part of the Nineteenth Century and the War by Which They Forced Her Gates Ajar – The University of North Carolina Press, 1975