NASCITA DI UNA NAZIONE: LA TERZA GUERRA INDO-PAKISTANA PER IL BANGLADESH

di Giuliano Da Frè -

 

Innestatasi sugli sviluppi della guerra di liberazione del Pakistan Orientale da quello Occidentale, la guerra durò solo poche settimane ma modificò profondamente gli equilibri geopolitici del subcontinente. Il Bangladesh ottenne l’indipendenza e l’India riuscì ad assestare un duro colpo allo storico nemico pakistano.  

I due Pakistan tra 1947 e 1971

I due Pakistan tra 1947 e 1971

La data dell’indipendenza dall’Impero britannico di India e Pakistan (che ne rappresentavano il cuore), il 15 agosto 1947, coincide con l’inizio dei conflitti che ne hanno avvelenato i rapporti: sin dalla cosiddetta “partizione”, che provocò l’esodo di massa di musulmani e indiani, costato un milione di vittime. Ma l’indipendenza era stata segnata anche da confini non riconosciuti e dalla questione del Kashmir, la cui popolazione a maggioranza musulmana e legata al Pakistan si trovava sotto il controllo di un maharaja indiano, deciso a unirsi all’India. Ne nacque nell’estate del 1947 un’insurrezione, sfociata a ottobre nella prima guerra indo-pakistana, conclusa dal cessate-il-fuoco del gennaio 1949, e da un compromesso che lasciava in mano indiana i due terzi più fertili del territorio conteso. Dopo un conflitto frontaliero per la Rann di Kutch (vasta area paludosa presso il delta dell’Indo) scoppiato nel 1964, nell’agosto 1965 si scatenò una seconda guerra aperta per il Kashmir che, se non comportò reali modifiche allo status quo territoriale, fu contrassegnata da diverse sconfitte per l’India; particolarmente umilianti in aria e in mare, dove godeva di una superiorità quantitativa e in parte qualitativa. Sul terreno, alle difficoltà incontrate nel contenere le forze insurrezionali e speciali pakistane fecero da contraltare alcune vittorie negli scontri tra mezzi corazzati, sebbene la battaglia di Chawinda – il più grande combattimento tra carri (complessivamente oltre 400) svoltosi dopo il 1945 – si concludesse senza un chiaro vincitore.
La prova non brillante fornita dalle superiori forze indiane nel 1965 seguiva la sconfitta subita durante la guerra con la Cina dell’autunno 1962, e provocò una profonda riorganizzazione dell’apparato militare, soprattutto dopo l’arrivo al potere dell’energica Indira Gandhi, prima “lady di ferro” della storia moderna. Una riorganizzazione giunta in tempo per affrontare una nuova e più decisiva guerra, destinata a mutare il volto della penisola indiana.

I germi della guerra

Il sottomarino pakistano ghazi

Il sottomarino pakistano ghazi

La separazione della penisola indiana in due stati più o meno omogenei su base religiosa, rispettivamente a maggioranza indù, l’Unione Indiana, e musulmana, il Pakistan, non era tuttavia l’unica suddivisione posta in essere nel 1947. La popolazione musulmana dell’ormai ex colonia imperiale britannica era infatti concentrata in due regioni a loro volta separate tra loro da 1.600 km di territorio indiano: e così se, l’area nord-occidentale della penisola diventava il cuore del neonato Pakistan, con la capitale insediata a Karachi sino al 1958 e uno sbocco sul Mar Arabico, conosciuto come Pakistan Occidentale, la regione orientale del Bengala – affacciata sull’omonimo golfo dell’oceano Indiano – rappresentava l’East Pakistan. Ma sebbene formalmente il Pakistan Orientale fosse parte integrante e alla pari del nuovo stato, la comune appartenenza religiosa e istituzionale non potevano bastare a mantenere saldi i rapporti tra regioni lontane tra loro, e con quella occidentale che concentrava nelle proprie mani il potere politico, economico e militare, nonostante il Pakistan Orientale (meno esteso di quello Occidentale) fosse tre volte più popoloso, e garantisse con le sue fertili pianure alluvionali create dai fiumi Gange, Brahmaputra e Meghna, non solo il sostentamento nazionale ma anche il 75% delle esportazioni pakistane. Il governo federale tuttavia restituiva in termini di investimenti appena la metà di tali risorse, e con una crescente marginalizzazione della classe politico-amministrativa del Pakistan Orientale, di fatto gestito come una colonia. La situazione si aggravò quando la traballante democrazia parlamentare istituita nel 1947 fu rovesciata nel 1958 dai generali, quasi tutti reclutati nel Punjab e manovrati dai capi politici ed economici occidentali. Né i conflitti con l’India potevano continuare a fare da collante tra due regioni sempre più distanti: proprio la guerra del 1965, spacciata dalla leadership occidentale come una grande vittoria ma in realtà un successo parziale e problematico, aveva semmai comportato tensioni con gli Stati Uniti, e una crisi economica e politica crescente. Il presidente-generale Ayyub Khan, al potere dal 1958, iniziò a essere assediato da più parti: e tra chi chiedeva libere elezioni e riforme c’era anche il leader della Lega Awami che dal 1954 si batteva per l’autonomia del Pakistan Orientale, Sheikh Mujibur Rahman, poi padre dell’indipendenza del Bangladesh e suo primo presidente dal 1972, prima di essere assassinato. Dopo iniziali aperture, Ayyub fece arrestare il popolarissimo “Mujib”, scontentando però tutti: gli Orientali, che a quel punto iniziarono a chiedere la secessione; la popolazione occidentale che pure voleva le riforme; e i militari, irritati dalle oscillazioni del presidente, costretto alle dimissioni dalle proteste del 1969. Il potere passò al capo di stato maggiore Yahya Khan, dalla carriera brillante ma controversa: aveva raggiunto il grado di generale a soli 34 anni, ma era considerato un donnaiolo impenitente e un forte bevitore, e le sue prestazioni nel 1965 erano state gonfiate grazie al favore di quello stesso Ayyub, che poi non aveva esitato a scalzare dalla presidenza. Yahya Khan si impose col pugno di ferro, ma anche manovrando scaltramente i partiti politici per indebolirli in vista delle elezioni generali che aveva promesso entro il 1970. Queste ultime venivano viste come un’autentica prova del fuoco per il futuro del Pakistan Orientale: ma a distruggere le illusioni del nuovo presidente-generale fu “Bhola”.
I grandi cicloni non erano certo una novità nella regione, ma quello scatenatosi nel novembre 1970 si tramutò in un mostro che divorò 400.000 vite, provocando gravissimi danni. Soprattutto, a poche settimane dalle elezioni del 7 dicembre spezzò definitivamente i legami tra i due Pakistan, poiché i bengalesi accusarono il governo centrale di totale inefficienza nel fronteggiare la catastrofe. La Lega Awami, ormai su posizioni sempre più oltranziste, non solo stravinse a livello locale ma ottenne la maggioranza anche nel parlamento nazionale, e col doppio dei voti raccolti dal carismatico leader nazionalista Zulfikar Ali Bhutto, nuova star dei “poteri forti” occidentali. Nonostante l’avvio di trattative, la situazione precipitò rapidamente: l’ormai ex capo moderato degli Orientali “Mujib”, pressato dai separatisti, rifiutò ogni accordo, mentre nelle prime settimane del 1971 scoppiavano tumulti e scioperi generali. Già da capo di stato maggiore tuttavia il generale Yahya (che dopo le elezioni traccheggiava per non riunire il parlamento a lui ostile) aveva fatto preparare dei piani per fronteggiare un eventuale tentativo di secessione, affidati all’energico generale Tikka Khan, dal 1969 “proconsole” con pieni poteri militari e civili nel Pakistan Orientale. Ma l’operazione (nome in codice “Searchlight”) mirava a tagliare alla radice il problema, rappresentato dalla presenza di una valida élite di governo locale, e dai reparti militari composti da elementi bengalesi. Se per questi ultimi erano previsti interventi mirati per impedirne l’intervento usando il guanto di velluto (fu infatti – erroneamente, alla luce degli eventi – escluso il loro disarmo in massa), i capi militari occidentali, sulla falsariga delle dottrine anti-insurrezionali che stavano prendendo piede un po’ ovunque dagli anni ’50, decisero di usare il pugno di ferro contro tutti coloro che potevano rappresentare il formarsi di una coscienza nazionale indipendente.
Il 25 marzo 1971 l’operazione scattò così con l’arresto di Mujibur e dei suoi assistenti, e con la feroce repressione di quadri civili e militari, e soprattutto contro gli insegnanti locali, gli intellettuali e gli attivisti della Lega Awami, con lo sterminio di quasi 30.000 persone in pochi giorni: alla fine della guerra, 8 mesi più tardi, fonti orientali sarebbero arrivate a ipotizzare 3 milioni di vittime; un vero genocidio, seguito all’iniziale “elitocidio”. Qualcosa di paragonabile per vastità era accaduto nel 1965 dopo il golpe del generale Suharto in Indonesia, ma fu di gran lunga più sanguinoso delle repressioni sovietiche in Ungheria e Cecoslovacchia, e in Cile dopo il 1973 e in Argentina dal 1976.
Tuttavia proprio la violenza brutale messa in atto dal governo, di fatto senza una reale provocazione – Mujibur aveva respinto un’ipotesi di compromesso e si preparava alla resistenza, ma senza incitare alla rivolta – saldò in un unico blocco la popolazione bengalese, che già ad aprile si trasformò in una tenace resistenza armata, supportata dai militari orientali che ovunque si andavano ammutinando. Militari e civili insorti formarono le unità miste dei Mukti Bahini (“combattenti per la liberazione”) che da subito, muovendosi sul proprio terreno e potendo accedere a depositi di armi anche pesanti, diedero filo da torcere al generale Tikka, di fatto trovatosi ad affrontare una guerra civile e di secessione su vasta scala. Le perdite da ambo le parti salirono vertiginosamente, e la popolazione civile, terrorizzata dall’escalation, iniziò a rifugiarsi oltre frontiera. A fronteggiare un esodo che avrebbe alla fine coinvolto 10 milioni di profughi, piovuti in un paese ancora impegnato a far uscire dalla miseria e dalla fame mezzo miliardo dei suoi abitanti, fu l’India.
Commettendo un errore di calcolo internazionale dopo quello interno, il generale Yahya – forte di un precedente accordo con la Cina e riavvicinatosi agli Stati Uniti –, riteneva l’India isolata, nonostante la collaborazione militare con l’URSS, che però non si traduceva in alleanza organica, visto il ruolo di più popolosa democrazia (occidentalizzata) ricoperto dall’Unione Indiana. In effetti gli appelli della premier Gandhi all’ONU perché intervenisse nella sempre più grave crisi dei profughi restavano inascoltati: ma la tenace “lady di ferro” asiatica era pronta a giocare le carte dei rapporti internazionali (scommettendo che la Cina, nei guai sul confine sovietico dopo la “guerra dell’Ussuri” del 1969, non sarebbe intervenuta, e che Washington sarebbe rimasta di fatto a guardare), e dell’intervento militare diretto. Nel 1971 l’India poteva infatti contare su 24 divisioni (compresa una corazzata) e varie brigate autonome, con 860.000 uomini, supportati da 1.450 carri armati, 3.000 cannoni, 625 aerei ormai tutti a reazione e per due terzi moderni, una potente flotta con una portaerei, 2 incrociatori, 4 sottomarini e navi scorta moderne, e munizioni, carburante e materiali bastanti per 2 mesi di guerra ad alta intensità. Una posizione rafforzata da un nuovo patto militare con Mosca firmato ad agosto, e dalla possibilità di manovrare per linee interne, assumendo un atteggiamento difensivo in Kashmir per concentrare il grosso delle forze nel Pakistan Orientale, dove invece per i pakistani era impossibile rafforzare le truppe già impegnate a fronteggiare una durissima guerriglia.

Blitzkrieg al curry

Carri armati anfibi indiani PT76 in marcia su Dacca

Carri armati anfibi indiani PT76 in marcia su Dacca

L’estendersi dell’insurrezione e le operazioni di inseguimento lanciate dai pakistani lungo i confini avevano provocato diversi incidenti armati con le forze indiane. Il 20 ottobre si registrarono i primi combattimenti con armi pesanti a Kamalpur, mentre un mese più tardi si svolse una battaglia aerea nel settore di Boyra (conclusasi con l’abbattimento di due jet pakistani), dove già da giorni erano in corso aspri scontri. In Pakistan la popolazione scese in piazza per chiedere di “schiacciare l’India”, mentre Indira Gandhi – che mesi prima aveva chiesto ai suoi generali di preparare un immediato intervento, fermato però dalla stagione dei monsoni estivi – era ormai pronta al peggio, potendo contare su un cauto appoggio russo e sulla neutralità americana e cinese, a patto che la guerra non si prolungasse. Ad aiutare la premier indiana arrivò il terzo errore del suo rivale pakistano: e dopo aver sbagliato i suoi calcoli in politica interna e internazionale, il generale-presidente Yahya riuscì anche a non imbroccare la mossa d’apertura del conflitto cui ormai si era deciso. Come nel resto del mondo, anche l’alto comando pakistano era rimasto impressionato dal brillante e fulmineo attacco aereo coordinato col quale nel giugno 1967 Israele aveva iniziato e vinto la “guerra dei Sei giorni”. Dimenticando tuttavia che l’operazione “Focus” prima di scattare era stata studiata dagli israeliani per anni nei minimi particolari, arrivando a conoscere i turni dei servizio dei piloti arabi, i generali pakistani avevano raffazzonato rapidamente un piano similare: sorta di copia e incolla dal roboante nome in codice “Chengiz Khan”, che avrebbe dovuto annientare a terra l’aviazione indiana. Ma non solo questa – sempre sulla base delle lezioni del 1967 – si era preparata disperdendosi, migliorando la rete radar (che però funzionò solo in parte, e fu poi rafforzata con l’impiego ufficioso di un aereo-radar sovietico Tu-126 MOSS) e costruendo shelter corazzati a protezione dei suoi apparecchi; il piano d’attacco, pur scattato in un venerdì festivo per i musulmani al fine di ingannare il nemico, prevedeva di lanciare i primi raid al crepuscolo, con poco tempo utile quindi per sfruttare l’effetto sorpresa prima del calare della notte. Inoltre il coordinamento fu carente, mentre non va dimenticato che parte dell’aviazione pakistana da mesi andava logorandosi nelle azioni di controguerriglia nelle regioni orientali, che assorbivano ingenti risorse proprio quando “Chengiz Khan” prevedeva attacchi simultanei contro 11 basi aeree indiane e decine di obbiettivi terrestri, ma senza le necessarie copertura e profondità.
L’attacco col quale il 3 dicembre 1971 la Terza guerra indo-pakistana iniziava ufficialmente – e con il Pakistan nell’antipatico ruolo di chi aggrediva un paese impegnato a soccorrere milioni di profughi, mettendo in secondo piano il ruolo indiano di supporto ai Mukti Bahini – si risolse in un fiasco, con poche perdite tra le forze aeree indiane che non solo abbatterono diversi jet attaccanti ma anche lanciarono a loro volta 23 precisi attacchi notturni contro 8 basi nemiche, infliggendo gravi danni.
A questo punto la guerra, durata appena due settimane sino all’armistizio del 16 dicembre 1971, oltre alle continue operazioni aeree che comportarono la distruzione di forse 150 aerei delle due parti, compresi modernissimi jet quali MiG-21, Su-7, Mirage, Hunter, F-104 e il bombardiere indiano Marut, con una prestazione della IAF (Indian Air Force) decisamente migliore rispetto a quanto avvenuto 6 anni prima, può essere suddivisa in due teatri principali, aeromarittimi e terrestri.
Sul fronte occidentale, quello tradizionalmente interessato dai precedenti conflitti combattuti dal Kashmir al Kutch tra 1947 e 1965, il Pakistan schierò – delle sue forze che complessivamente contavano 365.000 effettivi, 820 carri armati, 1.100 cannoni e 285 aerei, ossia dal 50 al 60% in meno della controparte indiana, e per di più suddivise in due teatri di guerra lontani e separati – 2 divisioni corazzate, 10 di fanteria, e varie brigate carri e da montagna, inquadrate in 3 corpi d’armata.
In Kashmir i combattimenti, svoltisi su terreno difficile (e in taluni casi su passi di montagna alti sino a 4.000 metri) e in settori pesantemente fortificati, videro limitate avanzate locali da ambo le parti e senza un chiaro vincitore nonostante le gravi perdite – 7.000 fra gli indiani e di poco inferiori quelle pakistane, comprendenti anche il generale comandante la 23ª divisione –, mentre nel Punjab gli indiani ottennero maggiori successi, più ampi nel sud dove occuparono 2.600 kmq di territorio conteso, e distrussero 34 carri e 100 veicoli nella battaglia di Longewala. Nello scacchiere occidentale la superiore flotta indiana dell’ammiraglio Sardarilal Mathradas Nanda (definito alla sua morte, nel 2009, il “Nelson indiano”), schierava in Mar Arabico due incrociatori e diverse moderne navi scorta, prevalendo sulle ormai vecchie unità di superficie avversarie, operando un parziale blocco delle linee marittime con la cattura di diversi mercantili, e attaccando soprattutto con le nuovissime motomissilistiche acquistate dall’URSS, tipo “Osa-I” e armate ognuna con quattro missili antinave Styx: gli stessi che il 21 ottobre 1967 avevano per la prima volta affondato una nave da guerra, il cacciatorpediniere israeliano Eilat. Nella notte del 4-5 dicembre 1971 le navi lanciamissili fornite da Mosca fecero il bis, e affondarono al largo di Karachi il caccia-conduttore pakistano Khaibar da 3.300 t, un dragamine e una nave trasporto munizioni, danneggiando irrimediabilmente un secondo cacciatorpediniere e le infrastrutture portuali. Pochi giorni dopo un secondo raid delle veloci “Osa” comportò nuovi pesanti danni al porto di Karachi e a una nave appoggio. I pakistani ottennero un unico successo, anch’essi impiegando l’arma più sofisticata della loro marina, quando il sottomarino Hangor (uno dei tre “Daphne” costruiti in Francia nel 1968-1970) riuscì il 9 dicembre ad affondare la moderna fregata antisom indiana Khukri; prima nave da guerra vittima di un sottomarino dopo il 1945.
Nel Golfo del Bengala la superiorità della squadra indiana, incentrata sulla portaerei leggera Vikrant equipaggiata con jet multiruolo Hawk e piccoli bombardieri Alizé, non solo affondò il sottomarino pakistano Ghazi, ma spazzò via assieme a raid di commandos e della IAF le forze navali nemiche in Bengala (11 tra pattugliatori e cannoniere e decine di unità minori e logistiche) colpendone le basi costiere, al prezzo di un solo aereo. Più travagliata la conquista con un attacco anfibio di Cox’s Bazar, completata solo grazie alla resa pakistana dopo che le operazioni di sbarco erano state rallentate dalla scarsa esperienza indiana.
Ma sarebbe stata una vera e propria blitzkrieg aereo-terrestre a decretare la fine del dominio pakistano sull’odierno Bangladesh, nato sulla disfatta subita dall’esercito federale.
mappa-2-la-campagna-in-pakistan-orientaleStudiando le carte (vedi mappa a fianco) coi piani stesi dal generale indiano Jagjit Singh Aurora, il 55enne comandante dello Eastern Command e veterano dei precedenti conflitti con Pakistan e Cina, sembra di rivedere il film della preparazione russa per l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022, con i reparti d’attacco che la circondano su tre lati della frontiera. Ma al contrario di quelli addottati da Putin, i piani indiani erano stati accuratamente calibrati, e potevano contare su una adeguata superiorità al fine di evitare di essere deboli ovunque: Aurora schierava 250.000 uomini ben addestrati ed equipaggiati, che sarebbero inoltre stati appoggiati da oltre 100.000 guerriglieri Mukti Bahini, che avevano provocato la dispersione dei poco più di 80.000 soldati pakistani disponibili nello scacchiere, con crescenti carenze di materiali, aerei e ricambi. L’attacco simultaneo da più direzioni, compresi i raid aerei dal mare, l’azione coordinata coi guerriglieri, e la superiorità quantitativa indiana ebbero ragione delle difese approntate dai pakistani, costretti a combattere in un paese dalla popolazione ostile e lungo 2.250 km di confine; comunque si batterono con la consueta determinazione, che provocò complessivamente 11.000 morti e quasi 40.000 feriti nella campagna orientale.
La conduzione strategica della lotta fu tuttavia carente da parte di un alto comando pakistano influenzato dalla politica: un errore fondamentale fu concentrare le truppe ai confini invece di architettare una difesa in profondità ancorata ai grandi fiumi che come il Meghna, il Brahmaputra e il Gange rappresentavano impervie difese naturali coprendo Dacca e altri centri nevralgici, soprattutto dopo che ne erano stati fatti saltare i ponti. Gli attaccanti si erano tuttavia preparati grazie al moderno materiale ceduto da Mosca, comprendente motozattere e carri leggeri anfibi PT-76 (che però si surriscaldavano dopo 30 minuti in una traversata che poteva richiedere sul Gange anche 3 ore, e dovevano essere presi a rimorchio), mentre per creare teste di ponte sulle sponde opposte furono impiegate truppe d’assalto trasportate da elicotteri pesanti supportati dai jet della IAF (operazione “Cactus Lilly”). Due anni più tardi gli egiziani avrebbero usato mezzi simili per lanciare il riuscito attraversamento del Canale di Suez all’inizio della guerra del Kippur.
Dopo aspri combattimenti inziali, il 7 dicembre il II Corpo indiano conquistava Jessore con una settimana di anticipo sulle previsioni, mentre il 14 veniva raggiunta la linea del Gange. A nord gli indiani avanzarono con maggiore fatica, ma riuscirono a impedire ai pakistani di ripiegare su Dacca grazie a sbarchi di paracadutisti alle loro spalle, mentre sin dall’inizio era stata tagliata la strategica strada Dacca-Chittagong. Per il 14 la capitale del Pakistan Orientale fu investita e bombardata: temendo che il crollo delle difese scatenasse le rappresaglie dei Mukti Bahini, il giorno seguente il comandante delle forze pakistane generale Niazi (Tikka Khan, ormai definito il “macellaio del Bengala”: era stato richiamato a comandare un corpo d’armata in Punjab, per poi diventare Capo di Stato Maggiore dal 1972 al 1976) chiese un cessate il fuoco, seguito il 16 dicembre dalla firma della resa dei 93.000 militari e paramilitari ai suoi ordini.
Le ostilità cessarono ufficialmente alle 14.30 del 17 dicembre 1971: era finito il terzo – ma non ultimo – conflitto armato tra India e Pakistan; con una netta vittoria indiana, sebbene in Kashmir e sul fronte occidentale la situazione sul terreno restasse per lo più immutata, innescando più tardi nuovi scontri sul Siachen (1984) e a Kargil (1999). Conflitti resi pericolosissimi dalla creazione di arsenali atomici con missili e sottomarini strategici a partire dalla seconda metà degli anni ’70.
Mentre la nascita del Bangladesh indipendente, ufficializzata e riconosciuta nel 1972, cambiava la geopolitica del subcontinente indiano.

Per saperne di più
AA.VV., Guerre in tempo di pace dal 1945, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1983
S. Ganguly, Storia dell’India e del Pakistan, Bruno Mondadori, Milano 2004
G. Da Frè, I grandi condottieri del mare, Newton Compton, Roma 2016