L’ORO NERO D’ORIENTE

di Mario Veronesi -

Il pepe è stato per lunghi secoli una spezia preziosa e ricercatissima, spesso utilizzata, per il suo valore, come moneta di scambio.

L’Oceano Indiano che si credeva chiuso, è il ricettacolo dei sogni e dove si rifugiano i desideri non esauditi della Cristianità: sogno di ricchezza legato a isole dove si trovano metalli preziosi, boschi lussureggianti, spezie; popolato da animali favolosi e da mostri, sogno di abbondanza e di stravaganza, di una vita diversa. Così l’uomo medioevale vedeva e sognava l’Oriente misterioso e tutti i suoi prodotti, fra i quali spicca il pepe. Era una merce pregiata, spesso chiamato “oro nero” e usato come moneta di scambio. Esistono diverse leggende e curiosità legate a questa spezia. Si pensava che, poiché la pianta germogliava in luoghi impervi, fosse raccolta da scimmie capaci di raggiungere posti inaccessibili all’uomo. Si narrava che il suo colore bruno scuro fosse dovuto al fatto che le colture di pepe erano infestate da molti serpenti velenosi, per cui i coltivatori erano costretti a scacciarli brandendo torce infuocate, bruciando così le bacche che, per questo motivo, assumevano il caratteristico colore.
Per secoli il commercio di questa spezia era stato predominio degli arabi; l’Arabia era il più grande emporio di spezie del mondo fino a quando, con la caduta dell’impero bizantino furono le repubbliche marinare, in particolare Venezia, ad assicurarsi il monopolio del commercio delle spezie e di questo prodotto in particolare. Tanto pregiata era dunque questa spezie che a volte costituiva un prestigioso dono da elargire a principi ed ambasciatori, offerta ai consoli e agli ufficiali delle corporazioni artigiane come indennità di carica, o ai soldati vittoriosi come parte del loro bottino di guerra.

Il più importante e lucroso mercato delle spezie del mondo tra il XIII e il XVI secolo era quello di Rialto, a Venezia, dove i “messeri del pepe”, cioè i sensali delle droghe, pubblicavano i bollettini giornalieri con le quotazioni. Vi si svolgevano aste pubbliche per l’aggiudicazione delle diverse partite ma molte trattative avvenivano sottobanco sussurrando il prezzo all’orecchio dei clienti più importanti. La tradizione delle “aste all’orecchio” è ancora viva in molti mercati ittici dell’alto Adriatico, anche se a bisbigliare oggi non è più il venditore ma il compratore. Immediatamente i corrieri partivano per far conoscere le quotazioni fino a Parigi, Lubecca, Londra, e alla Lega Anseatica. Ce lo ricorda anche William Shakespeare che nel Mercante di Venezia fa domandare a Solanio: “Allora, che notizie a Rialto?”.
È stato calcolato che tra il XIV ed il XV secolo i mercanti veneziani importarono spezie per cinque milioni di sterline-oro inglesi, ricavandone profitti cinquanta/ottanta volte superiori. A Venezia esisteva anche una categoria di cittadini, istituita nel 1362, chiamati con una particolare denominazione: “poveri al pevere”. Erano vecchi marinai, popolani e cittadini sopra i 60 anni a cui veniva assegnato mensilmente una certa somma di denaro per il loro sostentamento. E questo grazie ad una soprattassa governativa sul pepe. In seguito sostituito da un’imposta gravante anche sui contratti relativi ad altre merci. Potremo definirlo un assegno sociale.
Curioso il fatto che i Veneziani nel 1344 chiesero al papa il permesso di riprendere il commercio con l’Egitto proibito l’anno precedente da una bolla pontificia. L’autorizzazione papale quando giunse specificava per il viaggio un limite di 6 galee e 4 navi tonde. Non indicava però le dimensioni delle navi. Per essere in grado di approfittare appieno della concessione, nell’ottobre dello stesso anno, il Senato ordinò la costruzione nell’Arsenale di galee più grandi di quelle usate sino allora, galee in grado di portare un carico di 450 “milliaria” invece che le consuete 300, nonché l’inizio dei lavori per una nave tonda capace di portare 700 tonnellate di grano, purché si riuscisse a reperire legname e ferramenta abbastanza resisitenti. Si costruirono ed impiegarono tre galere più grandi del consueto, ma la Serenissima le mise poi in vendita, perchè risultarono difficili da manovrare. Sicuramente il Senato approfittò delle scarse conoscenze nautiche del papato avignonese!
Ma la fine del medioevo e le scoperte geografiche, portano anche alla fine di Venezia come monopolista del mercato delle spezie. Quando i portoghesi circumnavigano l’Africa, con Vasco da Gama (1469-1524), succede l’irreparabile. Le galee veneziane, nel febbraio 1504, tornano vuote da Alessandria d’Egitto perché i portoghesi si sono accaparrati tutto il prodotto, e per la Serenissima è peggio che aver perso una guerra. Nel 1498 Vasco da Gama fu il primo europeo a giungere in India via mare. Benché questo primo viaggio in India, passando per il Capo di Buona Speranza sia stato un modesto successo, i portoghesi tornarono presto in gran numero ed usando la loro superiore potenza navale ottennero il controllo completo del traffico delle spezie nell’oceano Indiano. Questo fu l’inizio del primo impero europeo in Asia che ebbe maggiore legittimazione (almeno da una prospettiva europea) dal trattato di Tordesillas, concluso, presso l’omonima cittadina spagnola, tra la Spagna e il Portogallo il 7 giugno 1494 per appianare la contesa sulle zone di espansione nelle terre d’Oltreoceano. Il trattato spostava l’immaginaria linea di demarcazione dei confini delle rispettive aree di influenza, tracciata nel 1493 da papa Alessandro IV (1431-1503) dopo il primo viaggio di Colombo; lo spostamento fu sanzionato definitivamente nel 1506 da papa Giulio II (1443-1513), che garantiva al Portogallo diritti esclusivi sulla metà del traffico mondiale del pepe.

I Portoghesi non furono però capaci di mantenere a lungo la loro supremazia su questo traffico. La vecchia rete commerciale di Arabi e Veneziani contrabbandò con successo enormi quantità di pepe evitando la scarsa sorveglianza portoghese. Da carteggi veneziani risulta che agli inizi del Cinquecento la differenza fra il prezzo del pepe in India e a Lisbona era nel rapporto di 3 a 22, garantendo così un introito smisurato ai portoghesi, poiché il pepe rappresentava i due terzi di tutte le spezie importate. Nel XVII secolo i Portoghesi cedettero quasi interamente i loro possedimenti dell’oceano Indiano a Olandesi e Inglesi. Il porto di Malabar cadde in mani olandesi fra il 1661 e il 1663. Il merito dei Portoghesi tuttavia fu quello di far conoscere all’Europa la vera natura delle varie specie di pepe. Christoval Acosta (1515-1580), uno tra i tanti medici portoghesi divulgatori della scienza botanica, dopo aver visitato Goa, pubblicò nel 1578 un libro intitolato Tractato del las Drogas y Medicinas de las Indias Orientales con sus Plantas; vi si illustravano, con rozze xilografie disegnate dal vero, varie spezie tropicali tra cui anche il pepe nero.
Questa enorme quantità di pepe, presente oramai in tutti i mercati d’Europa, giungeva dal Levante, come si è visto, seguendo due grandi vie di comunicazione: la tradizionale via terrestre della Cina, lunga ed estenuante, ma più sicura anche per lo stato di conservazione della merce, e quella più irregolare e insicura dell’oceano Indiano, percorsa da vascelli arabi, caricati a Sumatra e sulle coste del Malabar, che giungevano poi agli scali del Golfo Persico e del Mar Rosso. Così Damasco, Aleppo, il Cairo e altre città del Medio Oriente si ritrovarono a capo di un vasto traffico di pepe che, visto il suo alto prezzo, lievitato lungo i difficili percorsi, divenne protagonista di una colossale operazione di “baratto”: i mercanti cristiani ed ebrei preferivano pagare il pepe con merci come i panni e prodotti d’artigianato, di cui l’Europa era ben fornita, animando così i traffici in senso inverso alla volta del Levante. I mercanti fiorentini ne facevano un commercio tale che, col tempo, divennero maestri nel distinguerne le qualità. Nel XVI secolo a Firenze il costo del pepe era di cinque denari la libbra, quando con un denaro si campava per giorni, ed era largamente adoperato nella medicina fiorentina, oltre che far bella mostra nelle tavole dei nobili e dei prelati.
Nelle coste occidentali dell’India vi erano intere foreste coltivate a pepe che fornivano, già nel XV secolo, più di 3.500 quintali di spezia l’anno, e da lì il pepe prendeva la via della Cina dove era venduto a un prezzo quasi quadruplo ai mercanti italiani; questi poi lo portavano fino ai mercati di Firenze e di Venezia dove lo smerciavano a prezzi esorbitanti.

Tutto sommato il pepe che giungeva dalle tradizionali vie del Levante seguiva un tragitto più sicuro, oltre che più breve, della circumnavigazione dell’Africa e continuava a godere fama, non si sa se alimentata dall’eccessivo zelo dei mercanti Veneziani, di droga di migliore qualità e aroma. Certo è che il pepe che viaggiava nelle umide stive delle navi portoghesi, spesso squassate dalle tempeste dell’oceano, il più delle volte non riusciva a garantire quelle qualità organolettiche richieste dal mercato, o peggio, e non di rado, riusciva a stento a raggiungere gli scali di Lisbona a causa dei numerosi imprevisti determinati dalla pericolosa rotta oceanica. Così, quando le famose “naos de Yndias” giungevano a Lisbona con forti ritardi, o rischiavano persino di non arrivare, si mobilitava la catena delle imprese di mercanti italiani ed ebrei, che allora attraversava tutto il Mediterraneo, dove per altro il pepe continuava a “navigare”, riuscendo a calmierare il suo prezzo, che inevitabilmente avrebbe subito delle lievitazioni. Questo a dimostrazione che la Serenissima, nonostante lo spostamento dell’asse commerciale verso le potenze atlantiche, era tutt’altro che in declino.
Dal canto loro gli spagnoli grazie a Magellano riuscirono a circumnavigare l’America meridionale e navigando nell’oceano Pacifico raggiunsero le Molucche, madrepatria di noce moscata, chiodi di garofano e del più pregiato e costoso pepe. Furono però gli Olandesi a ottenere il monopolio del commercio delle spezie indonesiane che durò per oltre 200 anni. Nel XVII secolo, il pepe da merce di lusso cominciò a perdere il suo prestigio e il suo prezzo diminuì notevolmente, anche in conseguenza all’introduzione di altre spezie quali caffè, cacao e tabacco.
Con il termine “pepe” oggi designiamo un complesso di droghe o spezie di largo uso, sia in cucina che in medicina, che si riferisce al frutto di diverse e numerose specie del genere “Piper”. La scienza oggi è in grado di determinare minutamente le differenze qualitative tra le varie produzioni e di studiarne l’importanza alimentare e terapeutica mediante, l’individuazione dell’alcaloide principale contenuto nel pepe, la “piperina”, responsabile del caratteristico sapore e dei numerosi olii essenziali che gli impartiscono il singolare aroma. Ancora oggi è in uso il detto “Caro come il pepe”, un modo di dire per indicare una merce particolarmente costosa.

 

 

 

Per saperne di più

A. Carletto, La via delle spezie – Libreria Editrice Fiorentina, 1988
F. C. Lane, I mercanti di Venezia – Einaudi, Torino 1982
F. Antinucci, Spezie: una storia di scoperte, avidità e lusso – Laterza, 2016