L’IMPLOSIONE DELL’IMPERO SOVIETICO

di Massimo Iacopi -

Le aspirazioni nazionali e democratiche hanno senza dubbio giocato il loro ruolo. Ma in questo crollo geopolitico di prima grandezza, ci si dimentica spesso di un evento decisivo: la proclamazione, nel giugno 1990, da parte di Boris Eltsin, della sovranità della Russia.

La caduta dell’URSS alla fine del 1991 costituisce il risultato di un processo complesso e la conseguenza di cause plurime. In quell’anno crollano simultaneamente un sistema socio-economico (il “Socialismo avanzato”, per riprendere una definizione utilizzata da Leonid Breznev) e uno Stato federale.
La lista delle cause che hanno portato alla “più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, secondo l’espressione usata dall’attuale presidente russo Vladimir Putin è decisamente lunga. Mikhail Gorbacev, al potere dal 1985, cerca di trasformare l’URSS attraverso una riorganizzazione economica (perestroika) e una maggiore trasparenza (glasnost). Ma il sistema economico sovietico non riesce a uscire dalla crisi e l’autarchia lo isola dai circuiti mondiali. Dalla metà degli anni ’70 i tassi di crescita sono scesi brutalmente, la produttività del lavoro è crollata e la curva dei consumi è in diminuzione. A tutto questo viene ad aggiungersi una crisi demografica caratterizzata soprattutto dalla diminuzione delle speranze di vita (4 anni per gli uomini) e da una riduzione significativa della popolazione attiva. Inoltre, l’economia sovietica non può più ricorrere, come nei decenni precedenti, allo spreco di manodopera, che aveva nascosto gli errori nelle scelte economiche staliniane e di Nikita Krushev.
In aggiunta, in un contesto di competizione con gli Stati Uniti (specialmente durante l’amministrazione Reagan), il regime sovietico, che dal 1979 è impigliato nel pantano afghano, accresce le spese militari, che, alla fine del 1980, rappresentano fra il 15 e il 18% del PIL.
L’URSS viene altresì indebolita dalle fratture del “blocco comunista” dell’Europa dell’Est, con la crisi del regime polacco (l’esplosione del movimento Solidarnosc nel 1980, l’instaurazione della legge marziale del 1981). Sul piano interno, l’URSS affronta una crisi ideologica e morale, caratterizzata da una “menzogna generalizzata” (secondo la definizione di Andrej Sakharov) e dalla contestuale incapacità del sistema di porre sotto controllo le nuove tecnologie dell’informazione globalizzata. La libertà di parola favorisce l’espressione di numerose rivendicazioni, in particolare quelle di tipo nazionalista.
In questo contesto, l’elemento discriminante è proprio il risveglio delle nazionalità che compongono la “grande e fraterna famiglia delle repubbliche socialiste sovietiche”. Il crollo dello Stato federale sovietico appare come il risultato di un doppio processo: un movimento centrifugo, che mette in subbuglio le periferie occidentali e meridionali dell’URSS (le repubbliche baltiche e caucasiche, più impermeabili alla sovietizzazione-russificazione), e una implosione del centro russo, dovuta in gran parte alla strategia politica di Boris Eltsin. Quest’ultimo, nel suo confronto-scontro con Mikhail Gorbacev, non esita a giocare la carta del nazionalismo russo, proclamando, nel giugno 1990, la “sovranità” della Russia. In tal modo svuota l’Unione del suo contenuto e scatena nel contempo una reazione a catena, in quanto ogni repubblica si vede incoraggiata a proclamare la propria sovranità, se non la propria indipendenza.
“Il problema nazionale è stato pienamente e interamente deciso nell’URSS. […] Non rimane che qualche punto minore di frizione” aveva dichiarato sconsideratamente Mikhail Gorbacev, agli inizi del 1987. Negli anni seguenti, il segretario generale del Partito Comunista Sovietico (PCUS), continuando a negare l’evidenza, a differenza di Boris Eltsin, rifiuta di prendere sul serio la crescita dei nazionalismi e tenta di arginare la corsa del nazionalismo russo, convinto di poter contare sulla solidità dell’idea federale, che cercherà di difendere fino in fondo.

Gli stati baltici

Le Repubbliche baltiche (che rappresentano appena l’1% del territorio e il 3% della popolazione sovietica), dopo l’indipendenza ottenuta nel 1918 e l’incorporazione forzata all’URSS a seguito del patto germano-sovietico del 23 agosto 1939, rivestiranno il ruolo di pioniere nel processo di disintegrazione dell’URSS. Con l’elevato livello di vita e la maggiore apertura sul mondo le repubbliche baltiche vedono fiorire, a partire dal 1986-1987, numerosi “gruppi informali” che in passato si erano mobilitati per le cause ecologiche o per la difesa della lingua nazionale. Questi gruppi si uniscono in “Fronti nazionali”, veri e propri embrioni di partiti politici la cui prima azione è la manifestazione per l’anniversario della firma del patto germano-sovietico del 1939. Il 23 agosto 1989 due milioni di persone si tengono per mano creando una impressionate “catena umana” che dalla Lituania arriva all’Estonia. Qualche mese prima, a marzo, i “Fronti popolari” delle repubbliche baltiche avevano riportato una netta vittoria nelle prime elezioni libere per il Congresso dei Deputati del Popolo dell’URSS, nuova assemblea costituente inaugurata da Mikhail Gorbacev per votare le riforme costituzionali, politiche, economiche e sociali e per eleggere un “presidente dell’URSS” dotato di ampi poteri.
Dei tre paesi baltici è la Lituania che scandisce il ritmo al movimento di emancipazione nei confronti di Mosca. La Lituania è molto più omogenea etnicamente e linguisticamente (i Russi rappresentano appena il 10% della popolazione) rispetto alla Lettonia e all’Estonia (che vedono al loro interno, rispettivamente, una presenza russofona del 45% e del 35%). Alla fine della primavera del 1989, sotto l’egida del Sajudis (Movimento di Rinascita della Lettonia), presieduto dal musicologo Vytautas Landsbergis, il paese proclama la propria sovranità e l’abolizione dell’articolo 6 della Costituzione dell’URSS sul “ruolo dirigente” del Partito comunista. Nel marzo 1990, dopo la schiacciante vittoria dei suoi candidati locali, Vytautas Landsbergis viene eletto alla testa del Soviet Supremo della Lituania, che proclama immediatamente l’indipendenza del paese, dichiarando illegale l’annessione sovietica del 1940. Questa decisione apre una crisi fra Vilnius e Mosca, che provoca il blocco economico della Lituania.
L’Estonia e la Lettonia seguono le orme della Lituania, ma a un ritmo più prudente. Dopo aver ristabilito la bandiera estone della prima indipendenza del 1918, il Soviet Supremo estone conferisce alla lingua estone lo statuto di lingua ufficiale. Successivamente allinea il suo fuso orario con quello della Finlandia e, alla fine del 1989, proclama la sovranità della nazione. Nel marzo 1990 annuncia l’apertura di un “periodo di transizione verso l’indipendenza”. In Lettonia, dove la rilevante presenza della comunità russofona si raggruppa intorno a un Interfront, ostile a qualsiasi secessione, la marcia verso la proclamazione dell’indipendenza è un po’ più lenta. Nel maggio 1990 il Soviet Supremo della Lettonia, proclama, a sua volta, l’apertura di un “periodo di transizione verso l’indipendenza”.

Tensioni nel Caucaso

Nelle repubbliche sovietiche del Caucaso (Armenia, Georgia ed Azerbaigian), il verificarsi di aspirazioni nazionali è altrettanto precoce che nei paesi baltici, ma si rileva molto più doloroso e caotico a causa di forti tensioni intercomunitarie. Queste esplodono in Armenia, quando, nel febbraio 1988, le autorità dell’Alto Karabak votano l’annessione della regione autonoma all’Armenia. Di fatto, quest’area è abitata per l’80% da Armeni che Stalin aveva assegnato all’Azerbaigian. Il voto viene sostenuto da immense manifestazioni a Erevan, la capitale armena. Una settimana più tardi, il 27 e il 28 febbraio 1988, la città di Sumgait, non lontana da Baku, capitale dell’Azerbaigian, dove risiede una importante comunità armena, si trasforma nel teatro di un terribile pogrom anti armeno, con centinaia di vittime.
Questi drammatici eventi, coniugati con l’inazione di Mosca, spingono gli Armeni ad organizzarsi per mezzo di “collettivi”, come il “Comitato Karabak”. Presieduto da Levon Ter Petrossian, questo comitato riesce a cristallizzare le aspirazioni alla democrazia e all’indipendenza. Alla stregua dei paesi baltici, il Fronte popolare armeno, che raggruppa una miriade di comitati e gruppi politici, vince, nel marzo 1989, le elezioni al Congresso dei Deputati del Popolo dell’URSS, quindi, un anno più tardi, si afferma anche nelle elezioni locali. Il nuovo Soviet Supremo d’Armenia adotta immediatamente i simboli della prima (effimera) indipendenza del 1918-20: bandiera, inno nazionale e ritorno ai toponimi pre-sovietici. Esso proclama il primato delle leggi armene su quelle federali, decisione che equivale a una dichiarazione di sovranità.
In Georgia, considerata da tempo come la repubblica del Caucaso più “frondista” nei confronti di Mosca, le tensioni intercomunitarie fra Georgiani ed Abkhazi, duramente represse dalle truppe speciali sovietiche nell’aprile 1989, stimolano in questo caso la crescita del movimento nazionalista georgiano. Quest’ultimo viene rapidamente controllato da un discusso dissidente, Zviad Gamsakhourdia, criticato per le sue precedenti compromissioni con il KGB. Questo personaggio, con tendenze populiste, riesce a federare intorno a sé un blocco nazionalista (Tavola Rotonda Georgia libera), stigmatizzando le minoranze abkhaze e ossete, accusate di “minacciare l’equilibrio etno-demografico” della Georgia. Il blocco vince le elezioni locali del 1990 e proclama la “sovranità” della Georgia, “prima tappa verso l’indipendenza”.
Di fronte alle frizioni con l’Armenia, il Partito Comunista Azero riesce, durante il periodo della Perestroika, a mantenere il controllo della situazione e a emarginare movimenti nazionalisti d’opposizione, presentandosi come il miglior bastione contro la “minaccia armena”. Tuttavia, sarà proprio a Baku che avrà luogo l’intervento più sanguinoso delle truppe federali sovietiche di questi anni: dopo nuovi pogrom anti armeni (13-14 gennaio 1990), l’esercito federale interviene nella capitale azera per ristabilire l’ordine, con un bilancio di 170 morti e 300 feriti.
Alla fine del 1990, la situazione nel Caucaso è variegata e complessa a causa delle tensioni interne nel seno delle repubbliche e del conflitto armeno-azero.

Asia centrale e Ucraina

Le repubbliche musulmane dell’Asia centrale, considerate da molti osservatori occidentali come le più suscettibili nel fare “saltare l’impero” (Héléne Carrère d’Encausse, Esplosione di un impero?, 1979), a causa della loro “demografia galoppante”, risultano, alla prova dei fatti, le meno pronte ad emanciparsi. Queste repubbliche, creazione artificiale dell’epoca staliniana, sono state disegnate senza tenere pienamente in conto le realtà etniche o geografiche. Nessuna repubblica risulta omogenea etnicamente (proprio quello che voleva Stalin): il Kazakhistan è popolato per metà da discendenti dei coloni slavi, russi e ucraini e anche dai discendenti di un milione di cittadini sovietici di origine tedesca, deportati nel Kazakhistan sotto Stalin; l’Uzbekistan conta al suo interno importanti minoranze tagike e kirghize; il Kirghizistan ospita minoranze uzbeke. Qui, come nel Caucaso, le tensioni intercomunitarie si risvegliano col favore della Perestroika. Diversi incidenti scoppiano a Samarcanda, fra Uzbeki e Tagichi, a Och, fra Uzbeki e Kirghizi. Tuttavia, complessivamente, la nomenclatura comunista dell’Asia centrale riesce a regolare i conflitti e a mantenere le redini del potere. Sia alle elezioni del marzo 1989 (indette per designare i deputati del Congresso del Popolo dell’URSS), sia a quelle del marzo 1990 (elezioni locali), i rappresentanti dei partiti comunisti ottengono una larga maggioranza.
L’apparato sovietico resiste, allo stesso modo, anche ai cambiamenti, fino alla fine del 1989, anche in Ucraina, di fronte al Roukh (Movimento Democratico Ucraino), costituito tardivamente per iniziativa di vecchi dissidenti (Sergej Vasilievich Lukianenko, Vyacheslav Maximovich Tchornovil, Ivan Fedorovich Dratch), ai quali si associano membri dei movimenti di difesa della lingua ucraina e di associazioni ecologiste, particolarmente attive da dopo la catastrofe nucleare di Chernobyl, nell’aprile 1986. Questo evento impone una riflessione sulle responsabilità del potere centrale e sulla posizione dell’Ucraina – la seconda repubblica sovietica per popolazione – nell’ambito dell’URSS: ospitando la metà dei reattori nucleari del paese l’Ucraina è destinata, dopo essere stato il “granaio dell’URSS” super sfruttato, a diventare lo “scarico degli scarti nucleari” dell’URSS?
Ben più efficace dell’attivismo di Roukh, è stato il grande sciopero dei minatori del Donbass nell’estate del 1989, che fa piegare la resistenza della direzione del PC ucraino, diretto da ben 15 anni da Volodymyr Vasyliovich Shcherbitski, rimpiazzato poi dalla fine del 1989 da Leonid Makarovych Kravtchuk. Quest’ultimo gioca abilmente la carta nazionale ucraina, per non farsi sopravanzare dal Roukh. A seguito delle elezioni locali del marzo 1990, favorevoli ai comunisti, Kravtchouk viene eletto alla guida del Soviet Supremo dell’Ucraina.
“Uomo del serraglio”, Leonid Kravtchuk ha allacciato, da molto tempo, legami stretti con Boris Eltsin, la figura rampante del partito a Mosca. Alla testa delle due principali repubbliche sovietiche, questi due uomini giocheranno un ruolo decisivo nella crisi finale dell’URSS.

Lo scontro Eltsin-Gorbacev

Alto responsabile del Partito (primo segretario del partito comunista della regione di Sverdlovsk dal 1978 al 1985), Boris Eltsin viene promosso da Mikhail Gorbacev nel dicembre 1985 alla guida della più importante organizzazione regionale del PC, quella di Mosca. Egli vi si impone immediatamente come fautore delle riforme. Stimando che queste avanzano troppo lentamente, comincia a criticare lo stesso Gorbacev per la sua “mancanza di audacia”, in occasione della riunione del Comitato Centrale, convocata in occasione del LXX anniversario della rivoluzione d’ottobre. Dimissionato dalle sue funzioni dal PC, Boris Eltsin viene eletto trionfalmente, con il 90% dei suffragi, deputato di Mosca alle elezioni del Congresso del Popolo nel marzo 1989, prime elezioni libere in URSS, con la scelta su candidature multiple. Con ben 300 deputati che desiderano accelerare le riforme, Boris Eltsin crea un “gruppo interregionale”, al quale aderiscono figure importanti della dissidenza come Andrej Sakharov, quindi, in vista delle elezioni locali del marzo 1990, crea il “blocco Russia democratica”, che vince le elezioni nelle più importanti città della Russia, fra cui Mosca e Stalingrado.
Il 29 maggio 1990 Boris Eltsin viene eletto, al secondo scrutinio, Presidente della Federazione della Russia dai deputati del Consiglio del Popolo della Russia. Due settimane più tardi, il 12 giugno 1990, presenta a Mikhail Gorbacev, eletto qualche mese prima Presidente dell’URSS, un documento “rivoluzionario”, che giocherà un ruolo capitale nell’implosione dell’URSS: la “dichiarazione di sovranità” della Russia. Per la prima volta, si affrontano a Mosca due poteri, Mikhail Gorbacev, Presidente dell’URSS, sempre membro del PCUS e Boris Eltsin, Presidente della Russia, che lascia, con fragore, il PCUS, in occasione del suo ultimo Congresso, nel luglio 1990.
L’ultimo anno di esistenza dell’URSS è marcato dal conflitto crescente fra questi due uomini. Le loro dispute si basano inizialmente sul piano da adottare per le riforme economiche: Boris Eltsin propone un passaggio risoluto all’economia di mercato (il Piano dei 500 giorni), mentre Gorbacev desidera gestire una lunga transizione dall’economia statale all’economia di mercato. Il loro secondo disaccordo riguarda il progetto di un nuovo Trattato d’Unione. Il 23 novembre 1990 viene presentato un testo alle repubbliche, che partecipano tutte alle consultazioni, meno quelle baltiche e la Georgia. Se questo documento accorda nuovi diritti alle repubbliche e se scompare ogni riferimento al socialismo (L’Unione delle Repubbliche Sovietiche sostituisce la vecchia URSS), le prerogative federali rimangono molto forti. Ma, nei fatti, questo testo risulta già superato: il 20 novembre 1990 Boris Eltsin firma con Kravtvhuck un trattato bilaterale, attraverso il quale la Russia e l’Ucraina riconoscono mutualmente la loro sovranità e si impegnano a cooperare economicamente “sulla base di uguaglianza e reciproco vantaggio […] senza passare per il centro (federazione)”. Due giorni più tardi viene siglato un trattato similare fra la Russia e il Kazakhistan. “Questi accordi – dichiara Eltsin – debbono costituire un modello e una svolta intorno alla quale si organizzerà la nuova Unione”.
Tali iniziative vengono giustamente considerate da Gorbacev come una nuova minaccia alla sua autorità. Egli decide, quindi, di fornire alcuni pegni al campo conservatore, guidato dal ministro della Difesa, maresciallo Dimitri Timofeevic Jazov, e dal ministro degli Interni Vladimir Aleksandrovic Kriuckov, entrambi decisi a bloccare la disgregazione dell’URSS. Il 13 febbraio 1991 le truppe speciali del Ministero degli Interni sovietico prendono d’assalto il Parlamento e la televisione di Vilnius per tentare di bloccare il processo di indipendenza che aveva avuto luogo dieci mesi prima. Boris Eltsin condanna fermamente il ricorso alla forza e gli eventi di Vilnius contribuiscono ad accelerare il movimento verso l’indipendenza nelle altre due repubbliche baltiche che, nel marzo 1991, organizzano un referendum i cui risultati sono senza appello: 78% dei cittadini votano per l‘indipendenza in Estonia; il 73% in Lettonia. A sua volta, la Georgia si dichiara indipendente qualche settimana più tardi.

La vittoria di Boris Eltsin

Nello scontro al vertice fra i due uomini, Mikhail Gorbacev segna, nondimeno, un ultimo punto: in occasione di un referendum organizzato nel marzo 1991, in 9 delle 15 repubbliche che non hanno ancora pronunciato la secessione, viene approvato, con il 77% medio dei suffragi (71,3% in Russia; 98% nel Turkmenistan), il progetto di nuovo Trattato d’Unione. I Sovietici, nella loro maggioranza rimangono ancora legati alla costruzione federale e non desiderano la scomparsa dell’URSS. Tuttavia, questo referendum aggiunge altra confusione alla già ampia confusione istituzionale. In effetti, ogni repubblica lo ha organizzato alla sua maniera, aggiungendo quasi sempre una domanda di suo interesse, senza alcun rapporto alla questione dei legami federali: il presidente di tale repubblica sarebbe eletto a suffragio universale, ma con quali attribuzioni? Quali sarebbero le attribuzioni del Parlamento repubblicano? e così via…
Con grande abilità Boris Eltsin accetta di impegnarsi in una sorta di “tregua” con Mikhail Gorbacev, accettando di partecipare con i rappresentanti delle altre repubbliche a negoziati sul Trattato d’Unione. Le discussioni si impantanano rapidamente, i principali protagonisti non riescono a mettersi d’accordo nemmeno sul termine di “federazione” o di “confederazione”. Dopo tre mesi di discussioni sempre più confuse, Eltsin decide di accelerare il processo di disintegrazione dell’Unione e quello verso l’indipendenza della Russia. Il 12 giugno 1991 si fa eleggere, a suffragio universale e al primo turno, con il 57% dei voti, Presidente della Russia. In tal modo, di fronte a Mikhail Gorbacev eletto Presidente dell’URSS, a suffragio indiretto un anno prima, egli acquisisce una legittimità superiore.
Inquieti di fronte a questo sviluppo che giudicano “populista”, ostili alla strada intrapresa da Eltsin verso l’economia di mercato, gli elementi più conservatori fomentano, maldestramente, un colpo di stato, il 19 e il 21 agosto 1991, che fallisce di fronte alla risoluta resistenza di Eltsin, sostenuto dalla popolazione di Mosca e di Leningrado.
Il fallimento del putsch segna la vittoria del presidente eletto della Russia sul suo rivale, che ha assistito, impotente agli eventi, dal suo luogo di villeggiatura sul Mar Nero. Mikhail Gorbacev dà le dimissioni dalle sue funzioni di Segretario Generale del PCUS; Boris Eltsin sospende tutte le attività del PC. Il colpo di grazia viene assestato da Leonid Kravtchuk: il parlamento ucraino proclama l’indipendenza del paese, ratificata per referendum il 1° dicembre 1991 (90% di consensi).
Una settimana più tardi Boris Eltsin, Leonid Kravtchuk e il bielorusso Stanislav Kuscevic, riuniti a Belovej (sulla frontiera della Bielorussia con la Polonia), adottano un documento nel quale si afferma che “l’URSS cessa la sua esistenza, in quanto soggetto di diritto internazionale e realtà geopolitica”. Viene deciso di creare al suo posto una Comunità di Stati Indipendenti (CSI) “aperta a tutti gli Stati dell’ex URSS”. Il 21 dicembre seguente, 11 delle 15 ex repubbliche sovietiche (ad eccezione quindi dei Paesi baltici e della Georgia) firmano ad Alma Ata, dove Gorbacev non è invitato, il Trattato fondante della CSI, una associazione che lascia a ciascuno dei suoi membri ampi spazi di decisione.
Il 23 dicembre 1991 Gorbacev e Boris Eltsin si incontrano per mettere a punto la procedura che segna la fine dell’URSS e l’uscita di scena del suo presidente. Il 25 dicembre alle ore 19.00, Gorbacev legge alla televisione un breve discorso d’addio. Subito dopo, la bandiera rossa viene ammainata dalla torre del Kremlino e issato al suo posto il tricolore russo. L’anno 1991 entra nella storia, in maniera incredibilmente pacifica, come il termine di una esperienza iniziata 74 anni prima nella violenza rivoluzionaria.