LEXINGTON HIGH SECURITY UNIT, PRIGIONE SPERIMENTALE USA

di Renzo Paternoster -

 

 

Dal 1986 al 1988 gli Stati Uniti attivarono un’“unità di controllo” per sole prigioniere politiche. Sulla quale Amnesty International e altre organizzazioni puntarono subito l’attenzione. L’esistenza di questa procedura carceraria era infatti gravemente lesiva dei diritti umani.

 

Il corridoio dell'unità.

Il corridoio dell’unità.

Negli anni Ottanta del Novecento, il Federal Bureau of Prisons degli Stati Uniti d’America (una divisione del Dipartimento di Giustizia) aveva avuto esperienza solo con prigionieri politici maschi. Alla fine degli anni Settanta il numero delle donne detenute nelle prigioni federali per crimini ritenuti di natura politica (legati ai movimenti antimperialisti, anticoloniali e così via) era però aumentato. Quando si cominciò a comprendere che anche le donne potevano rappresentare un pericolo per la democrazia, si impose una drastica decisione: rinchiudere le carcerate politiche più pericolose in una unità speciale appositamente costruita all’interno di una prigione. In definitiva, una prigione nella prigione. Così, nel 1986, il Bureau of Prisons annunciò il completamento della prima unità carceraria di controllo specificamente per donne “rivoluzionarie”: la Lexington High Security Unit.
Si trattava di una struttura situata nel seminterrato del Federal Correctional Institution (oggi Federal Medical Center) di Lexington, nel Kentucky, una prigione federale sotto la giurisdizione della Federal Bureau of Prisons per detenuti di entrambi i sessi bisognosi di cure mediche, specialmente psichiatriche. Designato come una struttura amministrativa, essa conteneva detenuti di tutte le classificazioni di sicurezza.
Costruita in un seminterrato, la nuova unità di controllo era autonoma dal resto della prigione principale e forniva solo sedici posti letto. Al suo interno solo luci fluorescenti ventiquattr’ore al giorno. Pareti e soffitti tinteggiati di un bianco accecante, griglie metalliche con pochissime finestre a bloccare di fatto ogni luce naturale e oscurare la vista verso l’esterno.
La straordinaria sicurezza dell’unità era garantita da un capillare e ininterrotto sistema di monitoraggio, con videocamere operative ovunque, persino nelle docce. Nessun rumore dall’esterno, tutto ovattato. Le continue perquisizioni personali, compiute dal personale maschile erano umilianti. Al centro dell’estremo isolamento delle detenute nell’unità di controllo, assenza di contatti esterni: era concesso fare due telefonate personali di quindici minuti alla settimana, alla presenza di un secondino; era permesso un visitatore esterno alla volta, solo parente stretto (genitori, fratelli e sorelle) per un totale di sedici ore al mese. La visita di svolgeva durante l’orario del pranzo, così la detenuta doveva decidere se pranzare o incontrare un suo caro. Solo una prigioniera alla volta poteva avere un visitatore esterno lo stesso giorno, così pianificare la visita diventava difficile. Spesso accadeva che l’amministratore dell’unità speciale programmava una visita a una detenuta per lo stesso orario di un’altra, per poi annullarle una volta che i propri cari arrivavano al penitenziario, magari ​​dopo aver percorso lunghe distanze.

Giornali e corrispondenza erano permessi ma sottoposti a rigida censura, spesso non erano neppure consegnati perché ritenuti “politici”. Erano permessi solo cinque libri per volta e non di natura politica. Le celle erano piccole, con un arredo minimale: una branda, un lavabo con water, una piccola scrivania con un ceppo come sedile. Non era permesso affiggere alcunché al muro, eccettuato un piccolo televisore a colori che poteva essere acceso a orari prestabiliti.
A ogni detenuta era concessa una sola ora d’aria al giorno in un angusto cortile circondato da alti muri, privo di attrezzature ricreative. Una telecamera di sorveglianza e una guardia vigilavano la “ricreazione”, che avveniva per una sola detenuta alla volta. All’uscita della cella e al rientro, ogni detenuta era sottoposta a perquisizione personale, spesso effettuata anche da personale carcerario maschile. Nel tragitto dalla cella al cortile, e viceversa, ciascuna di loro veniva ammanettata ai polsi e alle caviglie.
La sorveglianza era così asfissiante, che a volte succedeva che le guardie entravano nelle celle delle donne per un’ispezione a sorpresa senza preavviso, trovandole sedute sulla toilette o svestite.
Le detenute si incontravano tra di loro solo a pranzo e cena, ma qualsiasi contatto fisico – un abbraccio o una stretta di mano – era proibito. Ovviamente ogni singola parola detta tra di loro veniva puntualmente registrata.
All’interno dell’unità, le donne dipendevano completamente dalle guardie per ogni loro necessità, perfino il dover chiedere gli assorbenti (consegnati uno o due alla volta).
Le detenute erano costrette a svolgere un lavoro usurante: piegare i pantaloncini dell’esercito per sei ore e mezza al giorno in una stanza piccola e poco ventilata un tempo adibita a ripostiglio.
Nel saggio Reflections on Being Buried Alive, Susan Rosenberg descrive la sua prima volta che è entrata nell’Unità di alta sicurezza femminile di Lexington: «Eravamo [Rosenberg e Torres] in piedi al cancello di metallo controllato elettronicamente sotto l’occhio di una delle undici telecamere di sicurezza, circondati da uomini non identificati in abiti da lavoro. Indossavamo camicie beige a maniche corte, pantaloncini corti che sembrano una gonna, e pantofole di plastica. Eravamo in manette. Un uomo non identificato ci aveva ordinato di metterci in catene mentre camminavamo da un capo all’altro della base. Le luci erano neon fluorescenti, e tutto era bianco come la neve: pareti, pavimenti, soffitti. Non c’era alcun suono tranne il ronzio delle luci, e niente si muoveva nell’aria. Stare lì, a quel cancello, a guardare il blocco di celle, mi faceva fischiare le orecchie e mi accelerava il respiro».

Ufficialmente la Lexington High Security Unit fu un’unità speciale di controllo e sorveglianza nata con lo scopo di trattenere in massima sicurezza sia i soggetti che potrebbero essere legati a tentativi di salvataggio da parte di gruppi esterni, sia donne che hanno storie serie di aggressioni rivoluzionarie, sia ancora detenute ritenute inclini alla fuga o ad attività violente, o facenti parte di organizzazioni sovversive.
La Lexington High Security Unit incarnava un nuovo tipo di razionalità penale con un programma di alta sicurezza, per cui il comportamento poteva essere controllato solo attraverso la separazione, il movimento limitato e l’annullamento di qualsiasi contatto con altri detenuti. In pratica l’unità era progettata per provocare il crollo psicologico e ideologico dei prigionieri. Dunque, non per gestire una detenuta che si fosse macchiata di delitti o crimini efferati o avesse compiuto una reale azione “sediziosa”, ma per prevenire e governare l’idea rivoluzionaria che questa potesse avere. Pertanto attraverso questa nuova forma di tortura psicologica si mirava a “rieducare” le detenute. Gli effetti della detenzione, infatti, conducevano al disorientamento temporale e spaziale, alla perdita di memoria, all’insonnia, al calo di peso corporeo, all’incapacità mentale e fisica, all’abbassamento della vista e altre forme di debolezza, perfino ad allucinazioni ininterrotte, attacchi di panico, pensieri ossessivi sulla morte.
Questa reclusione–modello non era solo rivolta alle stesse detenute, ma fungeva da monito anche per gli attivisti di organizzazioni anticapitaliste e antimperialiste.

Torres, Rosenberg e Baraldini

Torres, Rosenberg e Baraldini

Nel 1986 il Federal Bureau of Prisons sceglie Silvia Baraldini, Susan Rosenberg e Alejandrina Torres come prime donne per sperimentare la nuova forma di regime carcerario.
Silvia Baraldini è una cittadina italiana appartenente al gruppo “19 maggio”, un’organizzazione legalmente riconosciuta dal governo statunitense, che però fiancheggia il movimento Black Liberation Army (Esercito di liberazione nero), una formazione politica marxista orientata al “nazionalismo nero”.
Baraldini non aveva mai ucciso nessuno, eppure fu condannata a un totale di quarant’anni di carcere, a cui si aggiungono 50mila dollari di multa. I reati contestati, per la quale poi sarebbe stata condannata, furono: “cospirazione” in base alla legge “Rico” (sigla di “Racketeering Influenced and Corrupt Organization Act”, la legge promulgata per perseguire la mafia e la criminalità organizzata, poi estesa anche ai movimenti terroristici); partecipazione all’evasione dal penitenziario federale correzionale femminile di Clinton nel New Jersey di Assata Olugbala Shakur (pseudonimo di JoAnne Chesimard), una rivoluzionaria nera poi scappata a Cuba; tentativo di rapina (che non è mai successa); “oltraggio contro la Corte” per essersi rifiutata di deporre davanti al Grand Jury che le chiedeva i nomi dei membri del “Movimento 19 maggio”. In realtà l’unica vera accusa contro Baraldini era quella di aver scoperto e rivelato pubblicamente il programma COINTELPRO (acronimo di Counter Intelligence Program), un progetto dell’FBI – in parte illegale – di controspionaggio, infiltrazione e sorveglianza di organizzazioni politiche operanti negli Stati Uniti, attivo formalmente dal 1956 al 1971. Al momento del suo arresto, Baraldini si era dichiarata prigioniera politica.
Susan Rosenberg era un’ebrea statunitense, attivista e sostenitrice della giustizia sociale e dei diritti dei prigionieri, poi anche scrittrice. Come Silvia Baraldini aveva aderito alle attività dell’organizzazione “19 maggio”, fornendo anche supporto al Black Liberation Army. Per la sua ipotizzata partecipazione all’azione armata del Black Liberation Army, che aveva liberato dal carcere correzionale femminile di Clinton Assata Olugbala Shakur (accusata di un ruolo negli attentati che tra il 1983 e il 1985 colpirono il Campidoglio degli Stati Uniti, il National War College di Washington e l’edificio della Benevolent Association di New York, fu scagionata dai membri dell’Armed Resistance, gruppo che rivendicava l’azione armata) e per una presunta complicità alla sanguinosa rapina a un furgone portavalori della Brink’s Company nel 1981 (furto che aveva fruttato 1,6 milioni di dollari e aveva provocato la morte di due agenti di polizia e una guardia) e ricercata dall’FBI. Dopo anni di latitanza era stata arrestata nel 1984 in un covo in cui erano stati ritrovati circa trecentocinquanta chilogrammi di esplosivo, oltre ad armi da fuoco. All’inizio del processo si era dichiarata prigioniera politica. Alla fine, fu condannata a 58 anni di reclusione, una pena a detta del suo avvocato che per un normale cittadino, a parità di incriminazioni, sarebbe stata di 5 anni.
Alejandrina Torres era cittadina portoricana, dirigente del Comitato per la liberazione dei prigionieri di guerra portoricani e membro delle Fuerzas Armadas de Liberación Nacional (FALN), un’organizzazione clandestina impegnata nell’indipendenza politica di Porto Rico dagli Stati Uniti, responsabile di diversi attentati contro le istituzioni statunitensi (edifici governativi, militari, finanziari di Chicago, New York e Washington). Torres fu condannata a 35 anni di carcere per “cospirazione sediziosa”. Durante il processo Torres si dichiarò prigioniera di guerra.

Attraverso il racconto delle tre detenute l’opinione pubblica apprese dell’esistenza di questa unità speciale. Iniziarono così campagne internazionali per far chiudere questa sezione carceraria.
Un team del National Prison Project, nel Report on the High Security Unit for Women, Federal Correctional Institution di Lexington, produsse una serie di giustificazioni per interrompere la procedura di internamento in questa unità, considerata crudele: motivazioni insufficienti per l’assegnazione a questa procedura carceraria; ambiente e condizioni di vita disumane e, soprattutto, incapacità da parte dell’autorità carceraria di fornire un meccanismo significativo che determini il tempo esatto della reclusione. Infatti, riguardo a quest’ultima segnalazione da parte National Prison Project, chiarificatrice è la testimonianza di Susan Rosenberg: «Quando abbiamo chiesto se c’era un modo per noi di uscire dalla High Security Unit, siamo state informate che se avessimo cambiato le nostre idee politiche e le affiliazioni un cambiamento sarebbe stato preso in considerazione: si otteneva un ‘biglietto di sola andata’ per l’HSU di Lexington». Dunque, solo la rinuncia formale alle loro idee politiche avrebbe permesso il trasferimento in un carcere femminile “classico”.
Anche Amnesty International intervenne, denunciando pubblicamente nel rapporto The High Security Unit del 1988 “le condizioni e il regime come deliberatamente e gratuitamente oppressivi”, elencando una serie di irregolarità, tra cui l’uso costante e ingiustificato delle catene di sicurezza, le ripetute perquisizioni, la quasi totale mancanza di privacy, la claustrofobica mancanza di stimoli sensoriali, la scarsa libertà di movimento, il pericolo da parte delle detenute di ricorrere al suicidio. Nel rapporto si dichiara che “le condizioni e la destinazione nell’unità di controllo di Lexington delle donne sulla base delle loro idee politiche è servito per costituire un trattamento crudele, inumano e degradante in violazione della Dichiarazione universale dei diritti umani”.
Alla denuncia del National Prison Project e di Amnesty International, si affiancano anche quelle dell’American Civil Liberties Union, del Center for Constitutional Rights e di gruppi religiosi.

Nel marzo del 1988 Silvia Baraldini e Susan Rosenberg intentarono una causa contro l’ufficio del procuratore generale degli Stati Uniti d’America e contro l’Ufficio federale delle prigioni di Washington presso il tribunale distrettuale degli Stati Uniti per il Distretto di Columbia, chiedendo un provvedimento dichiarativo e ingiuntivo per la violazione dei loro diritti e di alcuni emendamenti della Costituzione statunitense.
Il giudice distrettuale degli Stati Uniti Barrington D. Parker, nella sua sentenza, osservò che “sono state punite specificatamente per le loro convinzioni politiche radicali e per la loro presunta appartenenza a organizzazioni politiche rivoluzionarie”, poiché “non si può dedurre automaticamente che esse sottoscrivano senza riserve ogni aspetto della condotta di questi gruppi”. Il giudice successivamente evidenziò che la giustificazione di una loro supposta pericolosità alla fuga, sia di loro stesse sia di altre detenute politiche, era arbitraria poiché non solo «numerose donne con storie di fuga rimangono ospitate nella popolazione carceraria generale, Baraldini e Rosenberg sono state individuate per aver sostenuto idee sgradevoli per il governo», ma anche che “la prevenzione di una probabile evasione avrebbe potuto essere soddisfatta in modi meno restrittivi”. Dunque, dinanzi alla giustificazione della fuga, la modalità di incarcerazione costituiva una risposta esagerata.
Il giudice, confermando le criticità denunciate dal National Prison Project, da Amnesty International, dall’American Civil Liberties Union e dal Center for Constitutional Rights, il giudice Parker sostenne che «l’Unità di Alta Sicurezza Femminile è una risposta esagerata nei confronti delle imputate», stabilendo che “il trattamento delle querelanti ha aggirato gli standard elementari della decenza umana. La sicurezza esagerata, l’isolamento e le molestie del personale servono a minare costantemente il morale dei detenuti”. Per questo ordinò al Bureau of Prisons di riscrivere i regolamenti interni e, soprattutto, di trasferire le prigioniere in penitenziari “classici”.
La Lexington High Security Unit chiuse nel 1988.

 

Per saperne di più
Amnesty International, United States of America. The High Security Unit, Lexington Federal Prison, Kentucky, 1988, ora in «The Freedom Archive», https://freedomarchives.org/Documents/Finder/DOC510_scans/Lexington/510.amnesty.international.lexington.report.1988.pdf.
US District Court for the District of Columbia, Baraldini v. Meese, 1988, in «Justa US Law», https://law.justia.com/lawsearch?query=Baraldini%20v.%20Meese
J. Susler, The Women’s High Security Unit in Lexington, «Yale Journal of Law and Liberation», .n. 1, 1989, pp. 31-42, ora in «Yale Law School – Lillian Goldman Law Library», https://openyls.law.yale.edu/bitstream/handle/20.500.13051/7716/07_1YaleJL_Lib31_1989_.pdf?sequence=2.
S. Rosenberg, Reflections on Being Buried Alive, in W. Churchill, J.J. Vander Wall (eds), Cages of Steel. The Politics of Imprisonment in the United States, Maisonneuve Press, Washington 1992.
American Civil Liberties Union, Report on the High Security Unit for Women, Federal Correctional Institution, Lexington, Kentucky, National Prison Project of the ACLU Foundation.
Social Justice, vol. 15, n. 1 (31), «Struggles for Justice», spring 1988, pp. 1–7, ora in «JSTOR» https://www.jstor.org/stable/29766383.
M. Bosworth, Encyclopedia of Prisons and Correctional Facilities, vol. 1, Sage, Thousand Oaks (California) 2005.
S. Dillon, Nothing stirred in the air, «Places Journal», October 2020, https://doi.org/10.22269/201015.