L’EUROPA TRA LE DUE GUERRE E LA RELIGIONE DELLA LIBERTÀ

di Benedetto Croce –

Anche questo mese proponiamo uno scritto di Benedetto Croce, filosofo, storico e pensatore liberale tra i più importanti del XX secolo. Si tratta dell”Epilogo della Storia d’Europa nel secolo decimonono, forse il più significativo saggio storico elaborato dal filosofo nel periodo tra le due guerre (e pubblicato nel 1932). Cessato il primo conflitto mondiale con un iniquo trattato di pace che ha dato adito al risorgere di nuovi nazionalismi, Croce individua, contro il pericolo comunista, ma anche a difesa dagli eccessi del libertarismo e di un attivismo spesso irrazionale, la necessità di una costruzione europea ispirata ai principi della “religione della libertà”.

Chi mette a confronto la geografia politica di prima e di dopo la guerra, e vede la Repubblica tedesca al luogo della Germania degli Hohenzollern, l’impero austriaco disgregato e al suo luogo i nuovi o ampliati stati nazionali con l’Austria tedesca e l’Ungheria magiara ristrette in brevi confini, e la Francia reintegrata delle provincie perdute nel ’70, e l’Italia che ha unito a sé le terre irredente e stende i suoi termini fino al Brennero, e la Polonia ricostituita, e la Russia non più czaristica ma sovietica, e gli Stati Uniti d’America assunti tra i maggiori fattori della politica europea, e così via per tutte le altre grandi mutazioni accadute nei territori e nei rapporti di potenza; e chi, per un altro verso, è portato a ripensare all’Europa ordinata, ricca, fiorente di traffici, abbondante di comodi, di facile vita, balda e sicura di sé qual era prima, e a guardare dolorosamente quella di poi, impoverita, agitata, triste, tutta spartita da alte barriere doganali, dispersa la vivace società internazionale che si accoglieva nelle sue capitali, occupato ciascun popolo dai suoi propri affanni e dalla paura del peggio, e perciò distratto dalle cose spirituali, e spenta, o quasi spenta, la comune vita del pensiero, dell’arte, della civiltà; è portato a porre tra le due Europe una profonda diversità e a segnare il distacco con la linea, o piuttosto la voragine, della guerra del 1914-18. Ma quegli, invece, che dall’esterno e dal secondario passa all’intrinseco, e ricerca le passioni ed azioni dell’anima europea, ristabilisce presto mentalmente la continuità e omogeneità tra le due Europe, in apparenza diverse, e, bene affisando, senza lasciarsi sviare da quelle superficiali impressioni, ritrova nei due aspetti i medesimi tratti, se anche, dopo la guerra e quel che le ha tenuto dietro, esasperati; tra le mutate condizioni politiche, le medesime disposizioni e i medesimi contrasti spirituali, se anche aggravati da quella pesantezza ed ottusità che la guerra, uccidendo milioni di vite, abituando alla violenza e disabituando dall’alacre lavoro critico e costruttivo della mente, e dall’esercizio dell’attenzione e della finezza, non poteva mancar di produrre insieme con gli effetti severi della sua alta tragedia.

L’attivismo si dispiega irruente come prima, e anzi con maggiore veemenza; gl’impeti nazionalistici e imperialistici scuotono i popoli vincitori perché vincitori e i vinti perché vinti; i nuovi stati, che sono sorti, aggiungono nuovi nazionalismi e imperialismi; l’impazienza per gli ordini liberi ha dato luogo a dittature aperte o larvate, e, per ogni dove, a desideri di dittature. La libertà, che prima della guerra era una fede statica o una pratica con iscarsa fede, è caduta dagli animi anche dove non è caduta dalle istituzioni, sostituita dal libertarismo attivistico, che sogna più di prima guerre e rivoluzioni e distruzioni, e irrompe in moti incomposti e mira ad opere vistose e aride, incurante o dispregiatore di quelle che si edificano nel raccoglimento, con l’amore, col pio sentimento del passato e con la forza ardita che schiude l’avvenire: delle azioni che vengono dal cuore e vanno ai cuori, delle meditazioni che dicono parole di verità, delle storie che danno la coscienza di tutto quanto l’uomo ha creato faticosamente lavorando e lottando, della poesia che è poesia e, come tale, bella. Il comunismo, che era stato, sotto nome di socialismo, immesso nella vita della politica e dello stato e nel corso della storia, è ricomparso nella sua scissione e crudezza, nemico acerrimo anch’esso del liberalismo, che irride dicendolo ingenuamente moralistico; e, al pari dell’attivismo, col quale spesso si fonde, quel comunismo è sterile o soffocatore di pensiero, di religione, di arte, di tutte queste e altre cose che vorrebbe asservire a sé e non può se non distruggere. E sono ricomparsi nei giudizi e nelle teorie, quasi idee pur mo’ nate e fresche di giovane verità, tutte le storture e i decrepiti sofismi del materialismo storico, dei quali ogni uomo alquanto esperto nella critica e nella storia delle idee sa quel che sia da pensare, ma che, nondimeno, hanno ripreso un’aria di nuovo e di moderno per ciò solo che, trasportati di Europa in Russia, sono tornati ora di colà più semplicistici e grossolani che non fossero prima, e ritrovano fortuna in tempi di grossezza, di semplicismo e di credulità. D’altra parte, il cattolicesimo, che già aveva tentato di ripigliare forza attraverso l’irrazionalismo e il misticismo, ha accolto e viene accogliendo, in gran numero, anime deboli o indebolite e torbidi e malfidi avventurieri dello spirito. Finanche il pessimismo e le voci di decadenza, che si udivano nella letteratura di prima della guerra, si riodono ora, e vanno predicando la decadenza dell’Occidente o addirittura del genere umano, che, dopo aver tentato di assorgere dalla bestia all’uomo, starebbe per ricadere (secondo i nuovi filosofi e profeti) nella vita ferina.

Tutto ciò è un fatto, e non vale negarlo e neppure rimpicciolirlo in poche persone e in questo e quel paese e popolo, perché, come il fatto del quale è continuazione, appartiene all’Europa e al mondo tutto. E, poiché è un fatto, deve adempiere un ufficio nello svolgimento dello spirito, nel progresso sociale e umano, se non come diretto creatore di nuovi valori, per lo meno come materia e stimolo al rinvigorimento, approfondimento e ampliamento degli antichi valori. Solo che questo suo qualsiasi ufficio sarà conosciuto e descritto dallo storico futuro, il quale avrà innanzi, pervenuto al termine suo, il movimento nel quale noi siamo presi e ciò a cui avrà messo capo; ma non può essere conosciuto e descritto da noi appunto perché siamo presi nel movimento, e, stando e movendoci in mezzo ad esso, molte cose possiamo bensì osservare e comprendere, e nel fatto osserviamo e comprendiamo, ma non quell’una che non è ancora avvenuta e della quale pertanto non è dato pensare la storia.

E che cosa importa, praticamente, per ciascuno di noi, che non se ne possa pensare la storia? Importa questo: che vi si debba partecipare non con la contemplazione del non contemplabile, ma con l’azione secondo la parte che a ciascuno spetta e che la coscienza assegna e il dovere comanda. Coloro che, contrariamente all’antico monito di Solone, si sforzano di comprendere e giudicare una vita «prima che si concluda», e che si perdono in congetture e previsioni, debbono star vigili che quel divagamento in ciò che è impossibile conoscere non sia in effetto il suggerimento di un cattivo demone, il quale, cullandoli nella pigrizia, li distrae dall’opera.
Non la «storia del futuro» (come i vecchi trattatisti definivano la profezia), ma quella del passato che si ricapitola nel presente, è necessaria all’opera e all’azione, che non sarebbe veramente tale se non fosse rischiarata da luce di verità; e da tale necessità è nata anche questa rimeditazione che abbiamo voluto fare, e invitare a fare, della storia del secolo decimonono. E, rispetto al presente e all’attuale, è necessario l’esame, e in ogni caso il riesame, degli ideali che sono oggi accettati, o proposti o tentati, per vedere se abbiano virtù di dissolvere o superare o correggere quello ch’è il nostro, e, insieme, per cangiare o modificare il nostro in conseguenza della critica attraverso cui esso è passato, e, in ogni caso, per ripossederlo in modo più saldo.

Che l’ideale di un ordine trascendente di verità, di regola morale e pratica, e di congiunto governo dall’alto e dal cielo, esercitato in terra da un pastore e rappresentato da una chiesa, non si sia neppur oggi integrato di quell’intrinseca giustificazione mentale, della quale, nel corso dei secoli, si era scoperta in esso la mancanza, è ovvio, e quasi spiace insistervi come in tutte le polemiche che si muovono nell’ovvio e che c’è rischio che sembrino ingenerose. Tuttavia, questo è il punto sostanziale; e la rinnovata baldanza clericale negli anni dopo la guerra, per effetto delle difficoltà in cui si sono trovati i governi e delle concessioni che per ciò sono stati portati a fare, se suscita sdegno, non ha per sé vera importanza ed è una vicenda ben nota e cosa transitoria. Giova qui riferire quel che un cattolico tedesco ha scritto di recente: che «solo in apparenza, e solo nella superficie della sua esistenza naturale, il cattolicesimo ha fatto guadagno negli ultimi tempi, ma che la grande idea, che gli dava unità, non è più vivente, e non mai esso è stato così malsicuro, instabile e avvolto in cose materiali e accidentali»; e veramente, rispetto a quest’ultima parte, è da dubitare della forza che possa fornire alla Chiesa la qualità di gente che è entrata in folla nei suo seno. Comunque, il motivo spirituale che ha spinto i migliori di costoro a rifugiarsi o a tornare al cattolicesimo (o ad altri rifugi consimili di meno veneranda e meno costante autorità) è stato non altro che il bisogno, nel tumulto delle idee e dei sentimenti cozzanti e cangevoli, di una verità fissa e di una regola imposta: ossia una sfiducia e una rinunzia, una debolezza e un puerile spavento innanzi al concetto dell’assolutezza e relatività insieme di ogni verità e all’esigenza della continua critica e autocritica onde la verità a ogni istante si accresce e si rinnova insieme con la vita che cresce e si rinnova. Ma un ideale morale non può conformarsi alle occorrenze dei deboli, degli sfiduciati e dei paurosi. Del pari, non può conformarsi ad uso di quelli che s’inebriano dell’azione per l’azione, la quale, a questo modo sentita, concepita e perseguita, lascia dietro di sé nausea e indifferenza verso ogni cosa che abbia appassionato o possa appassionare l’uomo, e inettezza a ogni lavoro oggettivo. Il genere umano ha fatto ormai esperienza di nazionalismi e d’imperialismi, e altrettali sforzi e conquiste, e già dice: inveni amariorem felle. L’attivismo imperversa ancora largamente; ma dov’è in esso la serenità dell’animo, la fiducia, la gioia del vivere? La tristezza è impressa sulla fronte di quegli uomini, dei più degni tra loro, perché dove neppur quella si vede, c’è di peggio, c’è rozzezza e stupidità. E forse gli eccessi medesimi ai quali l’attivismo si lascia andare, la passione in cui si dibatte, gli scotimenti che minaccia, danno segno di una non lontana guarigione della febbre in cui l’Europa e il mondo sono stati e sono ammalati: febbre e non ideale, se pur non si voglia sublimare a ideale la febbre.

Il comunismo, che si suol dire essere oramai disceso nei fatti e attuatosi in Russia, non si è punto attuato in quanto comunismo, ma nel modo che gli segnavano i suoi critici, e che era consentaneo alla sua interna contradizione, cioè come una forma di autocratismo, che ha tolto al popolo russo anche quel non molto respiro mentale e di libertà, che pur possedeva o si procacciava sotto il precedente automatismo czaristico. L’abolizione dello stato, il «trapasso dal regno della necessità a quello della libertà», che il Marx teorizzava, non solo non è accaduto e il comunismo non ha abolito (e non poteva, né alcuno potrà mai) lo stato, ma, per ironia delle cose, ha foggiato il più pesante degli stati che sia possibile mai concepire. Con che non si vuol detrarre nulla né alla necessità nella quale i rivoluzionari russi si sono trovati di seguire quella via e non altra; né alla grandiosità del lavoro che, in quelle condizioni, hanno intrapreso e condotto innanzi, procurando di rendere fruttifere le ricche forze produttive di quella terra, e al vario insegnamento che dalla loro varia opera si può trarre; né all’entusiasmo mistico, e sia pure di un misticismo materialistico, che li anima e che solo può farli reggere all’immane pondo che si sono messo sulle braccia e dar loro il coraggio di calpestare, come fanno, religione e pensiero e poesia, tutto quanto riveriamo come sacro, tutto quanto amiamo come gentile. Ma si vuol ribadire con ciò che essi, per ora, hanno bensì assertoriamente negato con le parole e con atti di violenza e metodi di compressione, ma non hanno risoluto, né in quel modo potranno mai risolvere, il problema fondamentale dell’umana convivenza che è quello della libertà, nella quale solamente l’umana società fiorisce e dà frutti, la sola ragione della vita dell’uomo sulla terra, e senza la quale la vita non meriterebbe di esser vissuta: un problema che sta lì, ineliminabile, che nasce dalle viscere delle cose, e che essi debbono sentir fremere nella stessa materia umana che maneggiano e che vogliono plasmare secondo i loro concetti. E, se mai in futuro lo affronteranno o altri lo affronterà per loro, rovinerà il fondamento materialistico della loro costruzione, e questa costruzione dovrà essere diversamente sorretta e grandemente modificata; e, come ora il puro comunismo non si è attuato, così non si attuerà nemmeno allora. Fuori della Russia, quello pseudocomunismo, sebbene incomba sugli spiriti con raggiunta forza espressa nell’antico detto del «maior e longinquo reverentia», col fascino di quel che è lontano nel tempo e nello spazio e che perciò prende contorni fantasticamente attraenti, non si è finora esteso o è stato soppresso appena si è affacciato, e, in verità, nell’Europa occidentale e media mancano le due condizioni che erano nella Russia: la tradizione czaristica e il misticismo; sicché par che non dicesse male il Miljukov quando, or son dodici anni, giudicava che il Lenin «in Russia stava fabbricando sul saldo suolo della buona antica tradizione autocratica, ma che per quel che riguardava altri paesi, disegnava castelli in aria». E se anche esperimenti di questa sorta si faranno in altre parti d’Europa, accadrà o che quello pseudocomunismo, trasferito in paesi diversi per religione, civiltà, cultura, costume, tradizione, e insomma di diversa storia, diventerà, sotto nome e parvenze simili, tutt’altra cosa, o che si avrà un tempo più o meno lungo di oscuro travaglio, dal seno del quale rigermoglierà, presto o tardi, la libertà ossia l’umanità.

Perché è questo l’unico ideale che abbia la saldezza che ebbe un tempo il cattolicesimo e la flessibilità che questo non poté avere, l’unico che affronti sempre l’avvenire e non pretenda di concluderlo in una forma particolare e contingente, l’unico che resista alla critica e rappresenti per la società umana il punto intorno al quale, nei frequenti squilibri, nelle continue oscillazioni, si ristabilisce in perpetuo l’equilibrio. Quando, dunque, si ode domandare se alla libertà sia per toccare quel che si chiama l’avvenire, bisogna rispondere che essa ha di meglio: ha l’eterno. E anche oggi, nonostante la freddezza e lo spregio e lo scherno che la libertà incontra, sta pure in tante delle nostre istituzioni e dei nostri costumi e dei nostri abiti spirituali, e vi opera beneficamente. Quel che val più, sta in molti nobili intelletti di ogni parte del mondo, che, dispersi e isolati, ridotti quasi a una aristocratica ma piccola respublica literaria, pur le tengono fede e la circondano di maggiore riverenza e la perseguono di più ardente amore che non nei tempi nei quali non c’era chi l’offendesse o ne revocasse in dubbio l’assoluta signoria, e intorno le si affollava il volgo conclamandone il nome, e con ciò stesso contaminandolo di volgarità, della quale ora si è deterso.

Ne solo la libertà vive in questi uomini, e non solo esiste e resiste nell’ordinamento di molti dei maggiori stati e negli istituti e nel costume, ma la sua virtù opera nelle cose stesse, si apre il varco con maggiore o minor lentezza tra le più aspre difficoltà: come si vede principalmente nel sentimento e nel pensiero che ora sollecitano gli animi, di una tregua e diminuzione nei sospettosi armamenti, di una pace e alleanza tra gli stati dell’Europa, di una concordia d’intendimenti e di sforzi tra i suoi popoli, che salvi nel mondo e pel bene del mondo, se non la loro supremazia economica c politica, la secolare loro supremazia di creatori e promotori di civiltà, le loro acquisite attitudini a quest’opera incessante. È questo il solo disegno politico, che, tra i molti formati dopo la guerra, non si sia sperduto e dissipato e anzi acquisti terreno di anno in anno e converta a sé gli spiriti che gli ripugnavano o si dimostravano increduli o avrebbero desiderato ma non osavano credergli; e giova sperare che non sarà lasciato cadere e che giungerà a compimento attraverso tutte le opposizioni, superando e girando tutti gli ostacoli, mercé le arti degli uomini di stato, mercé la volontà dei popoli. La guerra mondiale – che forse gli storici futuri considereranno riduzione all’assurdo di tutti i nazionalismi – se ha inasprito certi rapporti tra gli stati a causa dell’iniquo e stolto trattato di pace che l’ha chiusa, ha accomunato nell’intimo loro i popoli che si sono sentiti, e sempre meglio si riconosceranno, eguali nelle virtù e negli errori, nelle forze e nelle debolezze, sottoposti a un medesimo fato, sospirosi nei medesimi amori, travagliati dai medesimi dolori, orgogliosi del medesimo patrimonio ideale. Per intanto, già in ogni parte d’Europa si assiste al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità (perché, come si è già avvertito, le nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza e formazioni storiche); e a quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri s’innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate.

Questo processo di unione europea, che è direttamente opposto alle competizioni dei nazionalismi e sta contro di essi e un giorno potrà liberarne affatto l’Europa, tende a liberarla in pari tempo da tutta la psicologia che ai nazionalismi si congiunge e li sostiene e ingenera modi, abiti e azioni affini. E se tal cosa avverrà, o quando essa avverrà, l’ideale liberale sarà a pieno restaurato negli animi e ripiglierà il dominio. Ma non bisogna immaginare la restaurazione di quest’ideale come il ritorno alle condizioni di un tempo, come uno di quei ritorni al passato che il romanticismo sognò talora, riposandovisi in dolce idillio. Quanto è accaduto, quanto sarà per accadere nel mezzo non potrà essere accaduto invano; e taluni istituti dell’antico liberalismo saranno da modificare in maggiore o minor misura, o da sostituire con altri meglio adatti, e classi dirigenti e politiche, composte alquanto diversamente da quelle di prima, sorgeranno; e l ‘ esperienza del passato produrrà altri concetti, indirizzando diversamente le volontà. Con tali disposizioni mentali e morali saranno da riprendere i problemi che si dicono «sociali», che non sono certamente nati oggi, intorno ai quali pensatori e politici si affaticarono nei secoli, risolvendoli di volta in volta secondo i tempi, che nel corso del secolo decimonono formarono oggetto di più appassionata attenzione e di più fervida cura, e anche allora furono risoluti come di volta in volta si poteva e con effetti tali da cangiare grandemente le condizioni dei lavoratori, migliorare il loro tenore di vita e rialzare la loro figura giuridica e morale. L’economia, come si suole chiamarla, «razionalizzata», che è venuta ora al primo piano nei dibattiti, non è neppur essa intrinsecamente cosa nuova; né il dibattito può volgere sulla sostituzione che mercé essa si debba fare della economia individuale o della libera iniziativa, indispensabile alla vita umana e al progresso stesso economico, ma solamente sulla proporzione maggiore o minore da attribuire all’una rispetto all’altra, secondo materie, luoghi e tempi e altre circostanze: che è argomento da tecnici e da politici, ai quali spetta di risolverlo di volta in volta nel modo più vantaggioso al crescere della produzione e più equo per la distribuzione della ricchezza. Ma tecnici e politici non potranno adempiere al loro ufficio, né sperare l’attuazione non fittizia delle loro proposte, se la libertà non prepari e non mantenga l’ambiente intellettuale e morale che è necessario a tanta opera, e non garantisca gli ordinamenti giuridici, nei quali l’attuazione si dovrà compiere.

Queste, rapidamente qui accennate, non sono previsioni, a noi e a tutti vietate non per altro che per essere vane, ma indicazioni di vie che la coscienza morale e l’osservazione del presente tracciano a coloro i quali, nei concetti direttivi e nella interpretazione degli eventi del secolo decimonono, concordano con la narrazione datane in questa storia. Altri, con diversa mente, diversi concetti, diversa qualità di cultura e diverso temperamento, presceglieranno altre vie, e, se ciò faranno con animo puro, obbedendo al comando interiore, anch’essi bene prepareranno l’avvenire. Una storia informata al pensiero liberale non può, neppure nel suo corollario pratico e morale, terminare con la ripulsa e la condanna assoluta dei diversamente senzienti e pensanti. Essa dice soltanto a quelli che pensano con lei: – Lavorate secondo la linea che qui vi è segnata, con tutto voi stessi, ogni giorno, ogni ora, in ogni vostro atto; e lasciate fare alla divina provvidenza, che ne sa più di noi singoli e lavora con noi, dentro di noi e sopra di noi. – Parole come queste, che abbiamo apprese e pronunciate sovente nella nostra educazione e vita cristiana, hanno il loro luogo, come altre della stessa origine, nella «religione della libertà».

Dicembre 1931