L’EUROPA ALLA CONQUISTA DEL MONDO

di Massimo Iacopi –

 

Nel XIX secolo le nazioni europee si lanciano alla conquista dell’Asia e dell’Africa. Nel giro di qualche decennio, in nome della libertà e del libero scambio, una parte del mondo passa sotto il dominio dell’Occidente.

 

 

La colonizzazione è un fenomeno vecchio quanto la storia dell’uomo, ma il grande movimento lanciato dall’Europa nel XIX secolo presenta aspetti nuovi. In effetti il termine “colonia” incarna, nella storia, realtà molto diverse. Esso evoca inizialmente uno spostamento di popolazione, di pionieri che partono per fondare, in genere sulle coste di un’altra regione, città e agglomerazioni che conservano legami con la metropoli d’origine.
Dal XVI secolo il termine “colonizzazione” ha significato la prima ondata dei grandi imperi coloniali occidentali, spagnoli e portoghesi, essenzialmente verso l’America, ma anche in India e in Africa sotto forma di empori commerciali. Questi imperi erano caratterizzati da un’economia fondata, come nell’antichità, in parte sulla schiavitù e sulla tratta degli schiavi e in parte sullo sfruttamento delle miniere e delle piantagioni agricole, secondo la logica del mercantilismo. Per quanto concerne il termine “impero” esso ha a lungo designato lo stato – questo è ancora il caso all’inizio del XIX secolo – dell’Impero napoleonico. E’ alla fine del secolo che appare un termine nuovo per designare questa epoca: “imperialismo”, vale a dire il sistema economico e politico che accompagna l’espansione oltremare delle potenze industriali occidentali nei secoli XIX e XX.
Nel XVI-XVIII secolo le imprese coloniali consistono in conquiste lontane che si accompagnano spesso all’evangelizzazione, attuata a volte con metodi brutali, senza però pretese di assimilazione. Sul piano delle capacità tecnologiche non ci sono differenze considerevoli fra colonizzatori e colonizzati. Per quanto riguarda l’imperialismo del XIX secolo, di contro, la situazione è da considerarsi completamente nuova: entra in scena, infatti, un’enorme disparità in termini tecnologici, economici, militari e di potenza. Un immenso fossato separa la civiltà industriale dalle civiltà che sono rimaste rurali e artigianali.

Il paradosso sta nel fatto che l’Europa ha rilanciato una avventura imperiale in un contesto che rifiutava tale genere di progetti. L’Europa liberale della prima metà del XIX secolo ritiene che regnare direttamente su territori lontani sia obsoleto e costoso. L’indipendenza dell’America latina e quella degli Stati Uniti sono passate anche attraverso questi ragionamenti europei. Quello che occorre incoraggiare è l’espansione economica, marittima e commerciale. Il modello liberale sostiene l’idea che il progresso dell’industria è fondato sugli scambi con il resto del mondo, il più libero possibile, e non sul protezionismo, cioè sul sistema dell’esclusività coloniale che predominava fino al quel momento.
Esiste anche un argomento morale contro la colonizzazione: l’epoca della schiavitù e della tratta degli schiavi è terminata. La tratta viene bandita in linea di principio dal Congresso di Vienna nel 1815, in conseguenza del quale l’Inghilterra si assume il compito di gendarme dei mari per fare rispettare questa decisione. La schiavitù viene abolita progressivamente: in Inghilterra nel 1834, in Francia definitivamente nel 1848, negli Stati Uniti nel 1865 a seguito della Guerra di Secessione. Orbene, saranno proprio queste stesse società, nelle quali domina il discorso liberale, che nella seconda metà del XIX secolo si lanceranno nella costruzione dei grandi imperi coloniali. Esiste in definitiva una contraddizione interna in questo discorso liberale che sul piano economico propugna l’apertura dei mercati e al contempo, sul piano morale, sostiene la fine della schiavitù. Si vedrà così – in nome della libertà, del progresso e dei diritti dell’uomo – giustificare, in virtù degli stessi valori, interventi politico-militari in terre destinate a diventare colonie.
Occorre altresì accostare questo movimento alle correnti scientifiche, all’idea che il mondo deve essere interamente conosciuto nei suoi molteplici aspetti: la flora, la fauna, le popolazioni.

Le motivazioni economiche sono ugualmente decisive, specialmente per ciò che concerne gli sbocchi commerciali per l’industria tessile e metallurgica, ma anche per la preoccupazione di controllare le materie prime tratte dall’agricoltura tropicale o dalle miniere. L’India diventa rapidamente un elemento fondamentale nell’equilibrio politico-economico britannico. Questo paese fornisce il cotone necessario all’industria tessile inglese, le cui esportazioni hanno rovinato la sua stessa produzione. Parallelamente, in Estremo Oriente, le potenze europee forzano le porte della Cina. Gli olandesi, che hanno recuperato, dopo l’epoca napoleonica, le loro colonie dell’Insulindia (Giava, Sumatra, Borneo…) hanno sviluppato a Giava, all’inizio del XIX secolo, un sistema di colture obbligatorie estremamente efficace, destinato a divenire un esempio per altri imperi coloniali. Quanto al continente africano, gli Europei vi conducono – dal Maghreb al Capo di Buona Speranza – una colonizzazione di conquista e di popolamento, a dispetto di qualsiasi teoria liberale.
Resta il fatto che la nuova colonizzazione prende il via in nome della libertà e del libero scambio, anche se quest’ultimo non avrà vita lunga. Ciò è dovuto al fatto che l’Europa subisce una crisi economica a partire dalla metà degli anni Settanta dell’800, che determina un ritorno al protezionismo e alla ricerca di mercati chiusi. Questa congiuntura si coniuga con una nuova situazione continentale, segnata dalla crescita dei nazionalismi a seguito dell’unificazione tedesca e della guerra franco-prussiana del 1870. Tutto il mondo entra allora in risonanza per effetto delle rivalità interne europee. E’ in questa nuova situazione che, alla fine degli anni Ottanta dell’800, si verifica la spartizione dell’Africa. Questa situazione porterà a una accesa rivalità fra le potenze, di cui l’episodio di Fashoda in Sudan si rivela paradigmatico. Esso consistette in una crisi diplomatica di estrema gravità fra Inghilterra e Francia nel 1898, di cui furono protagoniste la missione francese di Jean Baptiste Marchand e la spedizione inglese di Lord Horacio Herbert Kitchener, entrambe tendenti a stabilire una base strategica nel quadro della conquista coloniale dell’Africa.

La conquista del mondo da parte degli Europei si sviluppa, sulle prime, in buona fede. Si tratta dell’alleanza e della combinazione tra filantropia e conquista, diritti dell’uomo e indubbie rivalità di potenza, spirito missionario e interessi commerciali.
Questa buona fede, però, avrà delle conseguenze sulle teorie delle disuguaglianze dei popoli. In effetti, tale aspetto porterà a una svolta. In precedenza i teorici dell’emancipazione degli schiavi – sia che si tratti dei filosofi formati alle idee dell’Illuminismo, sia che si tratti dei metodisti che hanno contribuito alla formazione di pastori neri nelle loro missioni della Costa d’Oro (l’attuale Ghana) a partire dalla metà del XIX secolo – erano guidati da un’idea universale dell’uomo.
Beninteso, questa concezione universale non scompare dalla scena di fine secolo XIX. Essa però viene contrastata, se non rinnegata, dai discorsi “scientifici” sulla classificazione delle popolazioni e sulla disuguaglianza delle razze. Queste teorie non sono nate con la colonizzazione, ciò nonostante si sono sviluppate con essa. Anche se si evidenzia un obiettivo “civilizzatore”, si ritiene che queste popolazioni siano arretrate come bambini e siano destinate a restarlo per lungo tempo: una versione del discorso biologico, questa, che si potrebbe qualificare come paternalista. Tale tendenza è sottintesa dall’idea che l’evoluzione dell’Africa e dell’Asia potrà avvenire solo grazie all’influenza dei colonizzatori, per di più in tempi lunghi per i quali non è prevedibile né una durata né il successo assicurato. Fino agli anni Cinquanta, questa sarà la convinzione generale.
In certi casi gli occidentali hanno veramente cercato di “civilizzare” le colonie. Esistono, in effetti, trasformazioni ben conosciute: la fondazione di ospedali, la costruzione di ferrovie, di porti marittimi, l’introduzione del camion, la creazione di nuove città, come Dakar o Nairobi. Sono stati soprattutto i settori dei trasporti e della salute che hanno avuto un significativo impulso. Ciò nonostante occorre dire che tali trasformazioni interessavano direttamente i colonizzatori, poiché avevano a che fare con lo sviluppo del commercio e la difesa della loro salute. Le indagini sulle epidemie, le scoperte che sono state fatte nella lotta contro il paludismo, gli studi sulla malattia del sonno, erano in qualche modo un pretesto per legittimare la colonizzazione.

Non si possono inoltre negare gli sconvolgimenti connessi all’introduzione di nuove attività economiche. Nell’Africa tropicale, l’agricoltura di sussistenza degli indigeni viene marginalizzata da piantagioni di caffè, di thé, di cotone, di palme da olio. In Asia, il thé dell’India o l’hevea dell’Indocina generano i medesimi meccanismi di sfruttamento. Vengono aperte miniere, specialmente nell’Africa del Sud (diamanti, oro), in Rhodesia (la cintura del rame) e nel Congo (con l’Unione Mineraria dell’Alto Katanga).
Per tutto questo occorre manodopera. Gli europei inizieranno a reclutarla massicciamente, secondo uno schema di lavori forzati. Le persone vengono strappate al lavoro dei campi, allontanate dal ritmo delle stagioni e dalla gestione abituale dei villaggi. Scompaiono in breve tempo attività artigianali, specialmente il lavoro dei fabbri, rovinate dalle importazioni di utensili a buon mercato nell’agricoltura (non necessariamente di qualità superiore).
A tutto ciò va aggiunta un’operazione culturale che consiste nel far comprendere alla gente che il loro lavoro non è di buona qualità e che è storicamente superato. Secondo i dettami dell’agronomia coloniale gli indigeni non sanno coltivare, anche se i contadini dell’Africa, nel corso dei secoli, hanno saputo mettere a punto sistemi agricoli efficaci dimostrando una notevole capacità di adattamento. In realtà, i colonizzatori vi vedono la lentezza di qualsiasi società rurale, che diventa ben presto definita come “l’apatia” degli Africani. Ne deriva una profonda ferita nel subcosciente collettivo, che rende qualsiasi cosa venga dall’esterno preferibile a ciò che viene prodotto in Africa.
In ogni caso una parte delle società locali viene catturata dal sistema coloniale. L’Africa si muove. Gli europei formano le nuove leve – a un livello modesto – attraverso le scuole primarie, attraverso le missioni cristiane. Si circondano di ausiliari “indigeni”, ma, allo stesso tempo, ne diffidano. Alla fine dei conti, il “buon africano” evocato nella letteratura coloniale è colui che resta nel suo villaggio con il suo capo tradizionale. Gli altri, specialmente quelli che si evolvono, vengono considerati come sradicati, mentitori e suscitatori di agitazioni.

In qualche modo, la società coloniale diventa una società segregata. Il “confinamento” si manifesta fisicamente nelle città, anche se occorre fare delle distinzioni. Dar es Salaam non è Nairobi e Dakar non è Leopoldville. Ogni città ha la sua storia concernente il suo popolamento e la sua gestione urbana: nelle più antiche, la rottura coloniale risulta meno brutale, mentre in quelle create più di recente essa si fa sentire di più.
Di fatto, le città sono largamente segnate negli spazi dalla segregazione, anche se ciò non avviene in modo ufficiale (fatto che spesso accade anche nelle nostre metropoli). Il centro è nettamente distinto dai quartieri indigeni, questi ultimi separati da una no man’s land, in nome della sicurezza e dell’igiene. Spesso l’ospedale per gli indigeni è allocato in quest’area, nella quale si incontrano i medici e i malati. La società è anche marcata profondamente da statuti. Da una parte ci sono i cittadini (britannici, francesi, ecc.), dall’altro gli “indigeni”, che hanno uno statuto particolare sul piano giuridico. Giuridicamente, gli indigeni rispondono a una giustizia gestita dall’amministrazione coloniale, o nei casi di minore importanza dai loro capi abituali ma sempre sotto il controllo del colonizzatore (che a volte non è un fatto negativo). In definitiva, esiste un adattamento fra lo statuto giuridico, le funzioni economiche e la “razza”. Lo stato coloniale è dirigista sul piano economico e gerarchico sul piano sociale: ciascuno deve stare al posto stabilito.
Da qui deriva il problema dei meticci. Essi sono una minoranza non disprezzabile, specie nelle antiche colonie, come nel Senegal o nella Colonia del Capo (dove rappresentano fino al 10% della popolazione). Si presentano, però, come un problema. In effetti, in relazione al discorso razziale, ci si domanda secondo quale norma bisogna educarli: se come gente bianca o di colore. Occorre, in alcuni casi, persino predisporre la creazione di istituti speciali per inquadrarli.

Si è a lungo insistito sulle differenze fra l’amministrazione indiretta all’inglese – che si appoggia sulle dirigenze locali – e l’amministrazione diretta dei Francesi, anche se tutti più o meno fanno ricorso all’amministrazione indiretta, vale a dire attraverso l’utilizzo di intermediari africani, battezzati “capi”. Tuttavia, nella indirect rule britannica c’è forse un maggiore rispetto delle tradizioni storiche locali. Gli esempi più conosciuti sono quelli della Nigeria e dell’Uganda, dove antichi sovrani locali si vedono confermati nelle loro funzioni dirigenti, sotto il controllo coloniale.
In ogni caso si assiste a una serie di manipolazioni: i capi che non piacciono vengono cambiati e spesso anche l’amministrazione britannica pratica l’intervento diretto che, sul posto, inquadra gli “intermediari” secondo logiche europee.
E’ pur vero che francesi e belgi hanno la tendenza a rimuovere i vecchi poteri e questo rappresenta la principale differenza. Gli inglesi rispettano di norma le grandi entità storiche e, a differenza degli altri, sviluppano spesso meglio l’insegnamento di colonizzati, instaurando per primi l’insegnamento secondario ed anche superiore in Uganda.
L’apogeo del sistema coloniale si situa, per alcuni storici, dopo il 1914, più precisamente verso gli anni 1930. L’esposizione universale del 1931 a Parigi ne costituirebbe il culmine. Sono gli stessi anni dell’apogeo dell’Impero Britannico. In tale contesto la crisi economica del 1929, che rapidamente coinvolge il mondo intero, dal 1932 arriverà a colpire le colonie. Queste diventano meno redditizie e il crollo dei prezzi di un certo numero di prodotti di esportazione coinvolge nella stessa crisi produttori ed operai.
Per la maggioranza degli studiosi l’apogeo si pone di fatto negli anni Cinquanta, vale a dire alla vigilia del crollo del sistema, denominato “coloniale tardivo”. E’ l’epoca dei grandi investimenti: vengono decisi piani decennali per finanziare equipaggiamenti. Questi investimenti costituiscono una risposta alle sfide che si presentano alle potenze coloniali all’indomani della Seconda guerra mondiale, soprattutto dopo l’indipendenza dell’India nel 1947, nel momento in cui la contestazione dei sistemi coloniali si amplifica e nel quale l’Ufficio Internazionale del Lavoro diventa più incisivo nella critica delle condizioni sociali dell’indigeno.
Oggi la maggioranza delle popolazioni delle ex potenze coloniali sono attraversate da complessi di colpa e dai problemi morali legati al passato coloniale. In altri casi, alcune analisi cercano di dare una giustificazione alla storia coloniale, fra pentimenti e ripensamenti. Il primo consiglio sarebbe quello di mettere in guardia dalle confusioni che possono nascere fra storia e memoria. Occorre, in ogni caso, evitare l’anacronismo. I colonialisti del passato agivano effettivamente nell’ambivalenza della loro epoca: da un lato erano imperialisti e dall’altro difensori dei diritti dell’uomo. Lo storico non deve pertanto temere di identificare i crimini del passato, il cinismo che accompagnava la tratta degli schiavi, la violenza e il disprezzo che hanno marcato, in molti casi, il sistema coloniale. Ma non si tratta di evocare inutili pentimenti o, peggio, esercitare una giustizia retrospettiva e ancor meno di colpevolizzare gli europei in quanto discendenti dei colonizzatori. Il mestiere di storico, tanto per parafrasare una formula di Marc Bloch, “rimanda ogni generazione a fare i conti con il proprio tempo, piuttosto che con quello dei padri”.

Per saperne di più
Wolfgang Reinhard, Storia del colonialismo, Einaudi, 2002.
Daniel R. Headrick, Il predominio dell’Occidente. Tecnologia, ambiente e imperialismo, Il Mulino, 2018.
Rodney Stark, La vittoria dell’Occidente: la negletta storia del trionfo della modernità, Lindau, 2014.
Marc Ferro, Le Livre noir du colonialisme, Hachette, 2004.
Albertini, Rudolf von, European Colonial Rule, 1880–1940: The Impact of the West on India, Southeast Asia, and Africa, Greenwood Press, 1982.