LA LUNGA RICONQUISTA DELLA LIBIA, 1914-1932

di Emilio Bonaiti -

Bisognava portare la bandiera ai confini dell’Algeria, che non erano definiti con certezza, evitare che nel Fezzan si formasse una base di ribelli che avrebbe potuto dare ai francesi l’opportunità di un’occupazione. Così, la riconquista della Libia – definita eufemisticamente un’“operazione di polizia” – si trascinò, a fasi alterne, dal 1914 fino al 1932.

Naviga, o corazzata, benigno è il vento e dolce la stagion, Tripoli, terra
incantata, sarà italiana al rombo del cannon.
Sai dove si annida più florido il suol?
Sai dove sorrida più magico il sol?
Sul mare che ci lega coll’Africa d’or,
La stella d’Italia ci addita un tesor.
Tripoli, bel suol d’amore.

Le uniche operazioni belliche nelle quali un’esigua parte delle forze armate fu impegnata nel corso degli anni Venti, furono quelle per la riconquista della Libia definite eufemisticamente operazioni di polizia.
Lo “scatolone di sabbia”, la cui estensione territoriale è sei volte quell’italiana e di cui solo il 6% si presta al popolamento, si divideva in tre parti, le regioni Tripolitania e Cirenaica che si affacciavano sul Mediterraneo e l’immenso, desertico Fezzan al Sud.
La Tripolitania era geograficamente divisa nella Gefara, pianura costiera che arrivava alla catena montuosa del Gebel oltre la quale si stendeva la Ghibla, regione deserta del sud.
In Cirenaica la costa era sabbiosa sino a Bengasi, dopo l’altipiano interno arrivava al mare sino al golfo di Bomba e poi le coste erano nuovamente basse sino a Tobruch, mentre fino al confine egiziano le coste diventavano alte e rocciose. La parte interna era formata da un altipiano con un’altezza massima di 800 metri che precipitava ripidamente verso la costa e più dolcemente verso l’interno. Alle spalle delle due regioni si trovava il Fezzan privo d’ogni forma di vita, ad eccezione delle rarissime oasi, nel quale si susseguivano pianure pietrose e sabbiose e catene montuose in un paesaggio lunare. Ancora nel 1929 in una monografia del Comando Regio Corpo Truppe Coloniali della Tripolitania Sezione studi e informazioni intitolata Il Fezzan si legge: “[…] non è stato possibile avere più dettagliate notizie sui particolari topografici del terreno lontano dalle carovaniere e dalle vie più battute”.

La guerra italo-turca

La guerra con l’Impero ottomano per la conquista della Libia, iniziata il 27 settembre 1911, terminò il 18 ottobre 1912 con la pace di Losanna.
Il Giornale d’Italia aveva sentenziato: “La spada è stata tratta dal fodero. Ma non è una guerra che incomincia; è un rapido e immenso fatto d’armi con poche migliaia di turchi dei quali avremo ragione in pochi giorni, e con poche perdite […] I nostri soldati non vanno a morire; vanno a compiere una passeggiata trionfale, una conquista senza sangue, in una terra nella quale noi ritorniamo dopo diciassette secoli, e dove gli arabi ci attendono come liberatori”.
Dopo la sanguinosa battaglia di Sciara Sciat, nella quale civili arabi attaccarono alle spalle i bersaglieri, la musica cambiò.
Enrico Corradini, teorico del movimento nazionalista, fremente di sdegno scriveva: “La bestia selvaggia che noi dobbiamo stanare, e mordere a suon di frustate, e non fucilare mai ma impiccare, la bestia selvaggia si chiama arabo”.
Nel successivo 1913, reparti al comando del tenente colonnello Antonio Miani, formati da un battaglione eritreo, tre compagnie libiche, due batterie da montagna per un totale di 1.100 uomini di cui 108 nazionali, partiti da Sirte il dieci agosto, entrarono in Socna il successivo 26 e nel marzo 1914 arrivarono a Murzuk nel Fezzan, spingendosi sino a Ghat raggiunta il dodici agosto. Antonio Miani, bersagliere, per la sua impresa ebbe la promozione a colonnello per merito di guerra oltre alla Croce dell’Ordine Militare di Savoia. Era un ufficiale esperto d’operazioni coloniali avendo combattuto in Eritrea ove aveva meritato tre medaglie d’argento.
Osservava il generalissimo Cadorna: “Giammai io credo, nella storia coloniale di tutti i paesi, si riscontra una impresa così temeraria e intempestiva” (1).
Ma non mancavano esigenze dettate da considerazioni politiche che rendevano necessaria l’operazione. Bisognava portare la bandiera ai confini dell’Algeria che non erano definiti con certezza, bisognava evitare che nel Fezzan si formasse una base di ribelli, con future proiezioni verso la costa, base che avrebbe potuto dare ai francesi l’opportunità di un’occupazione per evitare riflessi negativi sulla stabilità della confinante Algeria.

La rivolta

Accampamento italiano a Tripoli

Accampamento italiano a Tripoli

Con lo scoppio della Grande Guerra iniziò la ribellione che, con alterne vicende, interessò la colonia sino al 1932. Ai primi di dicembre, fattasi insostenibile la situazione anche per la ribellione delle truppe fezzanesi, Miani si ritirò dal Fezzan concentrando le truppe prima a Brak, poi a Socna e infine a Ben Ulid, ove arrivò nel febbraio 1915. L’occupazione si era ridotta a un semicerchio dalla regione degli Orfella fino al confine tunisino lungo il Gebel oltre a Gadames. Aveva come capisaldi Misurata, Beni Ulid, Mista, Nalut.
Il problema che si poneva al governatore della Tripolitania e al ministro delle Colonie era di tenere tutto il vastissimo territorio con le truppe a disposizione, mentre Cadorna aveva reiteratamente proposto di proporzionare l’occupazione territoriale alle forze disponibili, lasciandone la valutazione ai comandi in loco. Il generale Giulio Cesare Tassoni, già sottosegretario alla Guerra, nuovo governatore della Tripolitania, stabilì che nessuna ritirata era ammessa senza l’ordine del comando in quanto il territorio andava tenuto a ogni costo e invitò i comandanti a una maggiore audacia ritenendo ”pernicioso” attaccare solo in superiorità numerica. Furono in conseguenza organizzate due grandi operazioni di rastrellamento del territorio.
L’offensiva nella Ghibla per la riconquista di Ghermita si trasformò in una rotta. A Uadi Arsi la colonna agli ordini del tenente colonnello Gianninazzi, composta dal primo battaglione libico, una sezione mitragliatrici, una batteria e alcune bande per un totale di 800 fucili venne messa in rotta dopo un brevissimo combattimento. La sconfitta fu attribuita alla scarsa solidità delle bande. Da Misurata il 5 aprile 1915 agli ordini del colonnello Miani partiva una colonna composta da cinque bande con 300 uomini a piedi e 220 a cavallo, un battaglione del secondo bersaglieri, il XV battaglione eritreo, il secondo battaglione libico, due compagnie del quarto battaglione libico, una batteria nazionale, una batteria indigena, uno squadrone di savari e un plotone di meharisti. Il giorno nove a Sir el Mezza s’incontrò con la colonna Rosso composta di due compagnie del 63° Fanteria, da tre compagnie libiche, una batteria indigena, un plotone meharisti. In totale Miani aveva a disposizione 2700 regolari, 3000 uomini delle bande e una carovana di 3000 cammelli. Obiettivo dell’operazione era il rastrellamento della zona intorno a Misurata.
A Kars ben Hadi il 29 aprile avvenne lo scontro con i ribelli. Il combattimento iniziato alle ore 10,30 durò pochissimo. Le bande e i cammellieri si diedero alla fuga, il panico si diffuse tra i reparti e la colonna si dissolse. Le perdite tra i regolari furono di circa il 50%, tutti gli ufficiali dell’artiglieria caddero a eccezione di uno, i cannoni furono perduti, dei cinque comandanti di battaglione due furono uccisi e due feriti. Andarono perduti 5.000 fucili di riserva, milioni di cartucce, la cassa del comando, il convoglio dei rifornimenti. La carriera del colonnello Miani ebbe termine, l’ufficiale venne collocato in PAS l’anno successivo.
I due disastri fecero divampare la rivolta, nessuna località fu più sicura, Tassoni imperturbabile rifiutò di ordinare l’abbandono delle località più lontane dalla costa.
Tra i presidi assediati Tarhuna era tra i più importanti. Il dodici maggio la colonna Rossotti, composta dal primo battaglione eritreo, dal quinto bersaglieri, due compagnie del primo libico, un plotone meharisti e la carovana dei rifornimenti partì in soccorso da Azizia. Attaccata dai ribelli indietreggiò nell’Uadi Menegin dopo due ore di fuoco. La colonna, raggiunta dal XV eritreo, due compagnie del 48° fanteria e dalla 41° batteria da montagna, marciò su Tarhuna dove arrivò la sera del sedici. La carovana dei rifornimenti era stata però rimandata indietro ad Azizia perciò i problemi di vettovagliamento del presidio divennero insostenibili e, dopo che rinforzi e rifornimenti furono messi in fuga dai ribelli, iniziò il 18 giugno la ritirata alla costa avendo al seguito donne e bambini. Dopo una marcia di sei ore, la colonna attaccata si sfasciò completamente e nuclei superstiti fuggirono in tutte le direzioni, stessa sorte ebbe una colonna di soccorso partita da Azizia.
Il presidio di Beni Ulid al comando del maggiore Brighenti, la cui moglie era stata uccisa nella ritirata da Tarhuna, si difese valorosamente dal sei maggio al cinque luglio. Il maggiore propose la sortita, ma il consiglio di difesa fu per la resa. Un anno dopo Brighenti, decorato di medaglia d’oro, si suicidò in prigionia.
Finalmente il 21 giugno Tassoni, resosi conto della situazione ormai disperata, ordinò la ritirata generale alla costa: “[…] un’ora di ritardo potrebbe essere fatale”, scriveva nel suo dispaccio. Il presidio di Garan si ritirò ordinatamente, quello di Yeffren, senza essere attaccato, abbandonò per strada armi, munizioni, vestiario, ebbe dispersi 36 nazionali e, dopo una marcia penosissima di cinque giorni, soccorso lungo la via, arrivò a Zavia. Lo stesso avvenne per i presidi di Giosc e Fessato. Dei 2235 uomini della colonna ne arrivarono a Zuara 250. La colonna senza essere attaccata si disintegrò, lotte furibonde avvennero ai pozzi, i soldati gettarono le armi, vi furono casi di suicidio. A Zintan il presidio si difese dal due al dieci luglio, tentò una sortita, sopraffatto si arrese. Su 180 soldati ne sopravvissero una cinquantina.
Da Nalut la colonna Galiani, composta da 835 uomini, si ritirò su Zuara. Galiani assunse il comando della retroguardia, che, attaccata dai ribelli, pur impacciata dalla carovana, si difese con ordine marciando in quadrato. Il resto della colonna si sfasciò, il suo comandante trattò la resa, ma alcuni reparti combattendo sconfinarono in Tunisia, seguiti da Galiani. Il dieci luglio anche il presidio di Gadames, ai confini con l’Algeria, si pose in salvo nella colonia francese. Nella Gefara il quattro luglio fu disposto lo sgombero del ridotto di Fonduk ben Caschir, raggiunto da una colonna partita da Tripoli dopo duri combattimenti. Il 15 luglio fu nominato governatore della Tripolitania il generale Giovanni Ameglio che conservò la reggenza del governatorato della Cirenaica.
La ritirata continuò. Sliten fu abbandonata il nove luglio, Sirte il 16, Zuara Marina e Zavia nello stesso mese, nel successivo agosto Misurata per via mare. Le perdite furono gravissime: 30 cannoni, 30.000 fucili, grandi quantità di munizioni. Ad esse si aggiungeva il rifiuto dei soldati libici di continuare a combattere.
I reparti francesi che con capi capaci tennero saldamente in pugno per tutta la durata del conflitto le colonie dell’Africa del Nord, videro sconfinare per porsi in salvo le colonne italiane, inseguite dai guerriglieri.
Vengono alla mente le parole con le quali Lawrence d’Arabia descrive il comportamento dei reparti tedeschi che, unitamente a quelli turchi, si ritiravano dalla Palestina, inseguiti dall’esercito inglese e tormentate dai guerriglieri arabi: “Facevano eccezione i distaccamenti tedeschi, e per la prima volta mi sentii orgoglioso del nemico che aveva ucciso i miei fratelli. Erano a circa duemila miglia da casa, senza speranza e senza guida, in condizioni abbastanza terribili da spezzare i nervi più saldi. Tuttavia le loro sezioni si tennero unite in ferme linee, dirigendosi tra arabi e turchi come navi blindate tra le alghe, a faccia alta e silenziosi. Quando erano attaccati si fermavano, prendevano posizione, sparavano secondo gli ordini. Non vi era fretta, né grida, né esitazione, Essi furono magnifici” (2).
Alla sconfitta di Adua, che aveva avuto una vastissima risonanza in tutta l’Europa, si aggiunse la precipitosa ritirata dal Fezzan e da quasi tutta la Tripolitania. Nell’immaginario collettivo arabo la vittoria ebbe una grande risonanza che continuò nel tempo. Ancora nel 1927 quando le sorti della rivolta erano ormai decise Mohammed ben Hag Hassen, Mudir dei Misciascia, così rispondeva al generale Graziani: “Voi dite che nessuno può impedire al governo di avanzare nella Ghibla, quando lo vorrà […] Io so solamente che, nel passato, parecchie volte il governo ha avanzato nella Ghibla, ma ogni volta è stato costretto a ritirarsi”. Si sconosce se, quando in fuga dovette abbandonare la regione, abbia meditato sulle sue parole.
Nel 1921 l’occupazione era ridotta a poche località costiere della Tripolitania e della Cirenaica, circondate da estesi campi di filo spinato.
In Tripolitania l’esercito teneva una striscia di costa intorno a Tripoli che andava da Tagiura a Gurci, Homs e la posizione avanzata di Azizia a 50 chilometri dalla costa a sud di Tripoli alla quale era unita da una linea ferroviaria.
In Cirenaica una fascia costiera da Ghemines a Bardia. Sulla politica coloniale nei confronti delle popolazioni si scrisse: “La nostra condotta troppo violenta o troppo blanda, spesso capricciosa, larga con alcune tribù, dura con le altre, non ci aveva assicurato la fede delle popolazioni, che non avevano ancora capito che cosa volessimo.” (3) La situazione era complicata dai conflitti esistenti tra autorità civili e militari.

La riconquista della Tripolitania

La riconquista iniziò nel luglio 1921 con l’arrivo del nuovo governatore, il banchiere veneziano Giuseppe Volpi, il quale. supportato dal ministro delle Colonie il liberale Giovanni Amendola, impresse subito una sterzata alle demoralizzate guarnigioni ormai abituate a vivere alla giornata. Tra l’altro rilevò che su 12.000 uomini che costituivano la forza a difesa di Tripoli solo 2500 facevano parte delle colonne mobili. Fu all’alba del 26 gennaio 1922 che, realizzando una sorpresa tattica, carabinieri, zaptié e eritrei sbarcarono a Misurata Marittima, occupando la località. Era l’inizio del riflusso, l’inizio della svolta che si concluse con l’occupazione di tutta la Tripolitania.
Le operazioni si susseguirono con rapidità. Il primo giugno con una manovra convergente quattro colonne, una delle quali comandata dallo sconosciuto colonnello Graziani, piombarono su Nalut sorprendendo i ribelli. La Gefara fu rastrellata, il Garian occupato. Nel 1923 è la volta di Tarhuna il sei febbraio e di Misurata il 20 dello stesso mese. Nell’anno successivo a febbraio reparti del Regio Corpo Truppe Coloniali entrarono in Sinauen, Derg, Ghadames al confine algerino, a maggio in Midza e a novembre la colonna Mezzetti occupò Sirte. All’occupazione di Beni Ulid nella regione degli Orfella parteciparono per la prima volta reparti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Nei successivi tre anni si susseguirono i rastrellamenti delle colonne mobili per parare le rapidissime puntate dei ribelli.
In totale, la rioccupazione riguardò 135.000 chilometri quadrati di territorio e fu portata a termine con un contingente di circa 10.000 uomini nelle zone più vicine al mare e di 4000 nell’interno. Le perdite furono di 620 uomini, 1924 feriti e 38 dispersi, quelle arabe di circa 6000 morti.

La Cirenaica

Omar al-Mukhtar

Omar el Muktar

In Cirenaica la situazione politica nel 1921 era sostanzialmente diversa. Le truppe italiane non avevano subito i sanguinosi rovesci che avevano caratterizzato le operazioni in Tripolitania e nel Fezzan. Con gli accordi di Acroma dell’aprile 1917, di Regima dell’ottobre 1920 e di Bu Mariam del novembre 1921 si era stabilito un modus vivendi con il Senusso capo di una confraternita sufi fondata nel 1843, che estendeva la sua influenza su tutte le tribù della Cirenaica. Al Senusso fu conferito il titolo di emiro, trasmettibile agli eredi.
Nell’aprile 1940 Badoglio, presiedendo una riunione dello stato maggiore generale, così commentò questi accordi: “Durante la guerra ci siamo ridotti alla costa in Tripolitania e non è avvenuto altrettanto in Cirenaica perché ci siamo venduti alla Senussia”. Lo spirito delle popolazioni nei confronti dell’Italia poteva essere riassunto nelle supponenti dichiarazioni dei capi cirenaici riuniti ad Agedabia nel gennaio 1919: “Le popolazioni, con o senza statuto, avrebbero tollerato gli Italiani solo alla costa e con un mandato commerciale” (4).
Con la costituzione di un “governo forte” che non doveva rendere conto all’opinione pubblica e al parlamento, la situazione cambiò radicalmente.
Il nuovo governatore generale Bongiovanni denunciò gli accordi raggiunti negli anni precedenti e nell’aprile 1923 fu occupata Agedabia, sede dell’emiro, ma l’occupazione durò poco. Il dieci giugno una colonna di rifornimenti scortata da autoblindo fu improvvisamente attaccata in prossimità dei pozzi di Bir Balai e distrutta, stessa sorte la mattina successiva per due compagnie del VII eritreo spintesi sino a Marsa Brega e richiamate a Agedabia. A seguito dei rovesci fu nominato il generale Pizzarri nuovo comandante e le truppe avanzarono fino al 32° parallelo, ma dovettero assestarsi a Cirene avendo come posti avanzati Gerdes, Cerrari e Gaulan.
I risultati delle operazioni non furono soddisfacenti. I ribelli capeggiati dal carismatico Omar el Muktar tennero testa alle truppe regolari evitando gli scontri diretti, disperdendosi e riunendosi per colpire rapidamente. Nel febbraio 1926 una colonna motorizzata composta da 822 nazionali e 1645 eritrei occupò l’oasi di Giarabub, ceduta all’Italia con gli accordi italo-egiziani dell’anno precedente, senza nessuna opposizione; fu una operazione dal particolare valore psicologico e propagandistico perché l’oasi era un luogo santo e centro della scuola religiosa della Senussia. Risaliva al 1861 il permesso concesso dal sultano ottomano al fondatore della confraternita di fondare una zauia nella località. Alle operazioni parteciparono il IX e il X Battaglione eritreo, uno squadrone di meharisti, una squadriglia di autoblindomitragliatrici, una batteria autoportata 65 da montagna, una sezione carri d’assalto e 350 autocarri. Nell’occasione si appurò che i carri Fiat 3000 mod. 21 avevano provocato per la lentezza e i continui guasti notevoli ritardi nella marcia.
Le operazioni continuarono senza incisivi risultati, non si riusciva ad agganciare i ribelli che accettavano il combattimento solo nelle migliori condizioni. A seguito del rovescio subito dal 7° battaglione libico ad Er Raheiba, fu nominato comandante delle truppe il generale Mezzetti il quale rilevò che il morale dei quadri era molto basso, non vi erano state le grandi vittorie che avevano caratterizzato la campagna in Tripolitania e le successive promozioni sul campo, la situazione logistica pessima, la burocrazia militare cristallizzata in situazioni di comodo.
Dopo tre settimane, completata la riorganizzazione, iniziò una classica operazione coloniale. Due colonne al suo comando attaccarono il campo fortificato di Halugh el Gir, attese a piè fermo dai ribelli i quali, galvanizzati dalla vittoria di Er Raheiba, commisero il più classico degli errori per truppe irregolari, l’accettare uno scontro campale con truppe regolari in posizioni predisposte a difesa. L’esito fu una pesante sconfitta. Sarà un errore tipico delle formazioni partigiane nella seconda guerra mondiale in Jugoslavia, Francia e Italia.
In piena estate il successivo obiettivo fu il grosso dei ribelli rintanati nel massiccio montuoso Gebel Achdar, una zona accidentata nella quale i movimenti erano difficili anche per il caldo atroce che provocò la morte per insolazione di due ascari eritrei. Alle operazioni parteciparono dieci battaglioni eritrei e libici, quattro squadroni e tre bande a cavallo, cinque sezioni d’artiglieria, reparti autoportati, autoblindo e meharisti. Quando le truppe divise in sei colonne si misero in movimento avevano in dotazione una sezione radiotelegrafica per colonna, cinque giornate d’acqua e sette di viveri. L’acqua era fornita nella misura di tre litri per uomo e di venti per quadrupede.
Con una serie di manovre imperniate su velocità e sorpresa le colonne piombarono sui ribelli che furono sconfitti nei combattimenti di Bir Zeitun, Ras Giuliaz e nelle oasi di Scebrica e del Guf. Il supporto dell’aviazione fu essenziale, i movimenti dei ribelli venivano di volta in volta segnalati alle colonne. Le operazioni continuarono nel successivo mese d’agosto in condizioni climatiche sempre più proibitive, si ebbero perdite per insolazione anche tra le truppe libiche, e terminarono nel successivo settembre. I reparti si mossero con straordinaria velocità, il gruppo comandato da Canevari, che diventò nel tempo un accreditato scrittore militare, percorse in due tappe 120 chilometri. I successivi rastrellamenti dell’altopiano furono sospesi dovendosi procedere all’occupazione della Sirtica, che costituiva la sutura tra le due colonie. Nelle operazioni iniziate nel gennaio 1928 si distinse il tenente colonnello Maletti che morì nel dicembre 1940 nella difesa del campo trincerato di Nibeiwa a sud di Sidi Barrani. Alla guida di un gruppo mobile formato da autoblindomitragliatrici, autoblindo, truppe eritree, savari, cacciatori e camicie nere arrivando al limite del raggio d’azione delle autoblindo, tramutò la ritirata dei ribelli in rotta tagliando loro la strada.
L’occupazione si estese poi al Fezzan, il deserto senza fine, portata a termine in tre mesi. Il 28 aprile 1930 una pattuglia di sahariani al comando del tenente Predieri arrivava a Bir el Uaar (il passo difficile) fra i monti di Tummi al confine con l’Africa Occidentale francese a 1.500 chilometri dalla costa. L’impresa fu così commentata dalla Revue Militaire Francaise del 1931: “eseguita con modesti effettivi, 2500 uomini e con un minimo di perdite. L’importanza dell’organizzazione messa in opera, la rapidità della concezione ed esecuzione hanno impedito che il nemico opponesse una resistenza seria”.
Il problema della Cirenaica rimaneva però irrisolto. La riconquista della Tripolitania era stata facilitata dall’odio e dalle rivalità che dividevano i capi arabi e berberi, incapaci di programmare un comune piano d’azione. Il contesto socioculturale della Cirenaica era profondamente diverso. La popolazione era compattamente fedele alla Senussia che aveva creato con le zawiye un’organizzazione capillarmente diffusa in tutto il territorio, con scuole, centri religiosi, basi militari e commerciali e i cui capi amministravano la giustizia e prelevavano le imposte.
Capo carismatico era il vecchio, indomabile Omar el Muktar al quale, secondo Graziani, non restavano che 600 uomini con i quali teneva in scacco l’apparato militare italiano. Tattico finissimo, applicando razionalmente le leggi della guerriglia, disperdeva i suoi uomini che trovavano rifugio presso le popolazioni, quando la pressione delle colonne italiane si faceva insostenibile accettando lo scontro solo in condizioni favorevoli, riservandosi il “governo della notte”. Il duce, alla costante ricerca di prestigio, ritenendo improcrastinabile la risoluzione del problema alla luce dei riflessi internazionali, affidò a Badoglio il 21 gennaio 1929 la carica di governatore della Tripolitania e della Cirenaica.
Il capo di stato maggiore generale sbarcato a Tripoli dichiarò nel suo primo proclama: “Se mi obbligate alla guerra la farò con criteri e con mezzi potenti di cui rimarrà il ricordo. Nessun ribelle avrà pace: non lui, né la sua famiglia, né i suoi arredi, né i suoi armenti. Distruggerò tutto, uomini e cose. Questa è la mia prima parola, ma è anche l’ultima”.
Nominato il fedelissimo Siciliani vicegovernatore della Cirenaica tentò infruttuosamente di indurre i ribelli alla resa, l’accordo non riuscì, il governo italiano non poteva accettare che la Senussia mantenesse il suo potere di fatto nell’interno della Cirenaica. Siciliani fu sostituito da Graziani che arrivò a Bengasi il 27 marzo 1931. Acutissima fu l’analisi del problema tattico. Scriveva il generale: “Gli è che avevamo contro di noi tutte le popolazioni della Cirenaica che partecipavano alla ribellione, da una parte allo stato potenziale: i cosiddetti sottomessi dall’altra apertamente in campo: gli armati”.
La parola tornò alle armi.
Il 16 giugno Graziani iniziò i rastrellamenti con gli stessi metodi usati in Tripolitania. I guerriglieri continuarono a rifiutare lo scontro, il terreno era loro favorevole, le colonne non agganciavano il nemico, i risultati furono insoddisfacenti.
Badoglio in una lettera del 19 dello stesso mese così commentava l’insuccesso: “Noto però che obiettivo principale attuare movimenti concentrici da nord e da sud era di riuscire a dare severa lezione ai ribelli […] non certamente di occupare qualche località”. Il capo di stato maggiore generale ritenne opportuno dare una sferzata all’ambiente militare bengasino: “Vi è stata sinora diffusa l’opinione che da uno stato di ribellione fosse possibile ritrarne vantaggi di carriera. Di qui la tendenza a non portare a fondo le azioni, di qui le esagerazioni su ogni scontro anche insignificante e le valanghe di proposte, [di medaglie e promozioni] di qui anche la frase che era di moda – Sarà buono per un’altra volta – tutte le volte che il nemico senza grave sforzo riusciva a sottrarsi al combattimento”.

La deportazione delle popolazioni

Pietro Badoglio

Pietro Badoglio

A questo punto Badoglio prese in mano la situazione. Con l’assenso Mussolini e di De Bono ministro delle colonie, ordinò che la popolazione del Gebel, ammontante a 80.000 persone, fosse deportata in campi di concentramento siti tra le pendici del Gebel e la costa. Scrisse a Graziani nello stesso mese dopo il fallimento dell’ultima offensiva, che la deportazione avrebbe portato: “La rovina delle popolazioni cosiddette sottomesse”, ma che l’operazione doveva continuare: “anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”. Graziani aggiunse: “Il governo è freddamente disposto a ridurre le popolazioni alla più squallida fame se esse non si assoggetteranno definitivamente agli ordini”.
I metodi furono durissimi, non dissimili da quelli adoperati dai francesi, dai belgi e dagli inglesi, le perdite tra le popolazioni gravissime, per evitare fughe i campi furono circondati da filo spinato, i notabili internati ad Ustica. Le successive difficoltà in sede storica di quantificare le perdite furono ardue per la mancanza di censimenti e trattandosi di popolazioni non stanziali. Le cifre sono le più diverse e vanno da quelle fantapolitiche del governo libico a quelle degli storici italiani in cui la valenza politica ha un peso risolutivo. Scriveva Churchill nelle sue memorie giovanili: “Per far fronte a questa situazione [la guerriglia boera nell'Africa del Sud] le autorità militari britanniche dovettero sgombrare intere regioni, e talora chiuderne le popolazioni in campi di concentramento. Con le linee ferroviarie interrotte da frequenti sabotaggi era difficile tenere sempre quei campi riforniti. Scoppiarono epidemie e morirono migliaia di donne e bambini”.
Operazione successiva e complementare fu quella di bloccare i traffici sul confine egiziano. Dal contrabbando la ribellione traeva i mezzi per continuare la lotta, sovvenzionata anche dai capi cirenaici in esilio, l’Egitto costituiva un sicuro santuario per i ribelli.
Graziani, avuta l’undici gennaio 193l l’autorizzazione da De Bono, ministro delle Colonie e da Badoglio, iniziò nel successivo aprile la costruzione di quello che sarà definito “Reticolato Confinario”.
Fu creata in circa sei mesi una gigantesca barriera di reticolati alta un metro e sessanta e profonda dieci metri puntellata da tre ridotte (Amseat, Scegga, Giarabub) e sei opere minori (Ramia, Sidi Omar, Scefersen Sud, Uescechet, Gam el Grein, el-Aamra), collegate da una via automobilistica, che andava dai pozzi di Ramla nella baia di Sollum sino all’oasi di Giarabub per una lunghezza di 270 chilometri. Nella zona erano stati costruiti anche tre campi di atterraggio (Amseat, Scegga, Giarabub) per la sorveglianza aerea. Tutte le opere erano collegate telefonicamente.
Furono impiegati 20.000 quintali di cemento, 269.628.000 picchetti in ferro e 34.986 quintali di filo spinato, 60.000 quintali di acqua. Per la costruzione della barriera si ricorso a 2500 operai indigeni, 1200 militari e 200 camion che lavoravano in una situazione climatica mai inferiore ai 37 gradi. L’opera era sorvegliata da tre compagnie di fanteria, una sezione di mitragliatrici, un gruppo sahariano, uno squadrone di autoblindo, due postazioni di artiglieria.
Per i ribelli era un ostacolo insormontabile, per valicare il confine dovevano percorrere nel punto più breve del Gebel ove erano annidati 250 chilometri in un terreno semidesertico sistematicamente sorvolato dall’aviazione e pattugliato da mezzi motorizzati.
Il mare era stato prosciugato e i guerriglieri non potevano più nuotare.
Il 19 gennaio 1931 l’oasi di Cufra fu occupata da una colonna di 1200 meharisti supportata da 350 autocarri e 3500 cammelli che in trenta giorni superarono 850 chilometri di deserto, l’11 settembre dello stesso anno Omar el Muktar fu catturato e impiccato il successivo 16. Era stato sorpreso nell’uadi bu Taga da tre battaglioni eritrei e un gruppo di squadroni cirenaici.
Il 24 gennaio 1932 Badoglio comunicava al duce che: “La ribellione in Cirenaica è completamente e definitivamente stroncata”. Le “operazioni di polizia” erano concluse, la Libia completamente sottomessa dopo circa venti anni dalla dichiarazione di guerra alla Turchia.
Rochat definì le operazioni: “Forse le più brillanti del colonialismo italiano”, affrettandosi poi a precisare: “s’intende dal punto di vista tecnico-militare”, onde non sorgessero dubbi sulla sua fede repubblicana, democratica e antifascista. Passeranno altri undici anni e l’ultimo soldato italiano lascerà per sempre la “Quarta Sponda”.

La dottrina

Le esperienze belliche maturate durante la “pacificazione” della Libia furono il supporto alla formazione di una dottrina coloniale della quale Graziani scrisse in Pace romana in Libia: “L’arte coloniale costituisce una specialità come quella della montagna”.
Osservava il maresciallo francese Bugeaud (1784-1849), che aveva combattuto in Algeria e in Marocco, nell’Enciclopedia Militare: “Gli arabi non sono impressionati dalle fortezze che non intendono attaccare. Essi dicono: A voi la costa, le città, a noi l’interno del paese e lo spazio. E realmente lo spazio è loro finché non l’avrete occupato con il vostro esercito”.
Lo scontro era tra apparati militari tradizionalmente organizzati e strutture caratterizzate da elevata flessibilità, in scenari bellici non identificabili in dimensioni e grado di pericolosità. Dalle analisi delle prime operazioni si accertò l’assoluta impossibilità dei reparti nazionali di operare all’interno della colonia. Già il colonnello Giacchi (5) nel 1925 osservava che le truppe bianche non erano in grado di percorrere più di dodici chilometri al giorno e andavano escluse dalle marce forzate.
L’allora tenente colonnello Nasi era ancora più categorico: “Sono una palla al piede per comandanti di colonne” e insisteva “La presenza di truppe bianche è stata qualche volta causa di uno scacco e sempre di un ritardo considerevole nello sviluppo delle operazioni. Le truppe nazionali furono in conseguenza destinate al presidio delle località più importanti, come riserva generale, o, nei gruppi mobili, per i servizi tecnici rappresentando logisticamente il peso di dieci soldati indigeni” (6).
I ribelli erano in grado di sviluppare tattiche di combattimento contro le quali le truppe italiane, specialmente nei primi tempi, reagivano con gravi ritardi e pesanti difficoltà. Avevano la capacità di riunirsi nell’attacco e di disperdersi subito dopo con straordinaria rapidità. La mobilità, potenziata dalla mancanza di un sistema logistico e d’artiglierie, il rifiuto d’attacchi frontali, l’ordine sparso, la maestria nello sfruttamento del terreno, l’eccellenza negli avvolgimenti e negli accerchiamenti, la perfetta conoscenza dei movimenti dell’avversario e del terreno li rendeva particolarmente temibili. Non erano abituati a difendere punti fortificati né ad operazioni metodiche ma erano coraggiosi, frugali e sicuri di se. Questa tattica andava controbattuta applicando le parole del maresciallo Bugeaud: “Mobilité costante des nos forces, et leur concentration sur des points choisis”.

I gruppi di combattimento mobili

La risposta a questo problema tattico fu la creazione dei gruppi di combattimento mobili con i quali il terreno andava tenuto battendolo incessantemente in ogni direzione, controllando le sorgenti, gli accampamenti e le carovane. I gruppi dovevano, partendo da varie località, convergere con la massima velocità e con percorsi diversi sulla zona ove erano segnalate formazioni di guerriglieri, circondandole, impedendo loro la fuga e annientandole, applicando il primo principio dell’arte bellica, la sorpresa. Nei combattimenti d’incontro si tendeva all’occupazione di località elevate sistemandosi in quadrato, così come in terreno piatto. Al centro si sistemavano gli animali, dando allo schieramento il massimo spazio per una loro migliore incolumità. Nell’attacco a una carovana, che in terreno piano si avvistava anche a 12-15 chilometri, reagendo alla tattica dei guerriglieri di frazionarla in più gruppi, si doveva puntare su quello più importante, disinteressandosi degli altri. Nell’investimento di un accampamento era preferibile operare alle prime luci dell’alba, circondandolo completamente e lasciando gruppi montati per l’inseguimento dei ribelli che tentavano la fuga.
I gruppi di combattimento mobili erano formati da truppe coloniali eritree, da reparti meharisti e, in misura minore, da truppe libiche che operavano agli ordini di eccellenti ufficiali nazionali selezionati dalle operazioni. Avevano una composizione variabile determinata dalle condizioni del terreno da percorrere, dalle distanze e dalla presumibile entità delle forze che si andavano ad affrontare. Generalmente non superavano i quattro battaglioni eritrei o libici e un reparto di meharisti, supportati da piccoli reparti d’altre armi e servizi montati o autocarrati. Un plotone di mitraglieri e una sezione d’artiglieria completavano la formazione. La cavalleria era in linea di massima composta da uno squadrone riservato per l’attacco o l’inseguimento, affidandosi l’esplorazione, la sicurezza e i collegamenti ai meharisti. I reparti erano fiancheggiati da bande irregolari, guidate da ufficiali italiani, alle quali spettava il bottino conquistato. La velocità di movimento dei gruppi mobili, l’affiatamento tra i reparti, capi sempre più capaci costituirono le basi del successo, successo che era sempre determinato più dal movimento che dal fuoco.
Il generale Mezzetti, uno dei migliori ufficiali coloniali, sosteneva che tre battaglioni al comando dello stesso ufficiale da sei mesi valevano più di quattro battaglioni costituiti in gruppo all’inizio dell’operazione.
Con questa tattica si raggiungevano risultati eccellenti, mentre le operazioni a largo raggio compiute con grandi schieramenti di forze si erano dimostrate inutili. Graziani osservava: “L’operazione coloniale a largo raggio si riduceva ad una azione di scorta al proprio convoglio, ossia alla tutela della propria organizzazione”. Dello stesso avviso Bugeaud: “Je suis d’avis de supprimer absolument les fortes colonnes et de nous dèbaraser de ces bagages encombrants qui entravent nos marches, alourdissent nos colonnes, et qui empechènt de poursuivre ou de surprendre l’ennemi”.
Era infatti il convoglio, la carovana di rifornimenti che accompagnava il gruppo e che da questo dipendeva, un’autentica palla al piede, limitando la celerità del movimento. I cammelli, carichi ognuno di 150-200 chilogrammi, avanzavano in ordine sparso, percorrendo ogni giorno 30-35 chilometri ad una media di 3-4 chilometri all’ora per 10-12 ore. La difesa del convoglio presentava particolari difficoltà. Nel corso del combattimento era necessario sistemarlo con la scorta in una posizione difensiva fortemente protetta perché la sua perdita significava quasi certamente la distruzione della colonna “[…] dans un pays où la grand art consiste à ne pas mourir de soif” osservava il generale Laperrine.
La formazione di marcia del convoglio fu fino al 1929 a losanga o in quadrato. Tale formazione permetteva la difesa da tutti i lati presentando però lo svantaggio di ripartire la potenza di fuoco sui quattro lati. In seguito venne, in linea di massima, diviso in due scaglioni, il primo formato dalle truppe combattenti e il secondo da quelle addette alla difesa del convoglio dei rifornimenti. Una volta fissato l’obiettivo, sosteneva il generale Bugeau, compito prioritario del gruppo era quello di raggiungerlo senza esitazioni e senza lasciarsi distrarre dagli attacchi laterali ai quali era sottoposto per permettere la fuga ai reparti attaccati.
Se attaccato, il gruppo doveva resistere sul posto evitando di retrocedere; ove la ritirata si fosse resa necessaria, ed era una operazione particolarmente delicata, andava effettuata a scaglioni che si scavalcavano assicurando la continuità del fuoco. La prudenza nei ripiegamenti era dettata dalle caratteristiche delle truppe indigene: “fenomenali divoratori di munizioni”, più portate all’offensiva che alla difensiva, mentre le bande irregolari erano sempre le prime a darsi alla fuga in caso di difficoltà. Di norma forti perdite, secondo il generale Mezzetti, erano la conseguenza di combattimenti impegnati in condizioni sfavorevoli e male diretti, così come mal diretti erano i combattimenti che si concludevano con la semplice “messa in fuga” dei ribelli.
L’artiglieria dei gruppi mobili era costituita da pezzi da 70 da montagna, 65/17 da montagna e più raramente da 75 da campagna, generalmente autoportati. Ad ogni battaglione era assegnata mezza batteria ossia due cannoni. I serventi erano militari indigeni al quale spettava un soprassoldo, italiani erano i graduati e gli ufficiali. La sabbia, specie quando si apriva il fuoco, creava grandi difficoltà, acuite dal problema di fissare il pezzo nel terreno sabbioso con conseguente maggiore imprecisione nel tiro. I risultati del fuoco, che doveva essere violento e concentrato nel tempo e nello spazio, erano solo di ordine morale ed estremamente relativi perché gli arabi avanzavano in ordine sparso e quasi mai si arroccavano in posizioni fortificate. La valutazione era identica per le mitragliatrici che raramente trovavano bersagli redditizi.

I corazzati

Il carro armato Fiat 2000

Il carro armato Fiat 2000

I giudizi non positivi sui corazzati impegnati in Libia vanno proporzionati allo sviluppo della motorizzazione fuori strada dell’epoca e alla diffidenza dei comandi verso il nuovo sistema d’arma. A posteriori se ne lamentò l’assenza nei combattimenti nelle oasi ove avrebbero evitato forti perdite. Nel febbraio 1919 fu inviata in Libia la Prima Batteria Autonoma Carri d’Assalto composta da due Renault, un Fiat 2000 modello 17 e uno Schneider. Di questi mezzi entrò in azione il Fiat 2000 spargendo il terrore tra gli indigeni, con la sua mole superiore a quella del gigantesco carro tedesco modello VI Tigre degli anni quaranta. In seguito fu assegnato un carro di nuova produzione, il Fiat 3000 il cui rendimento su terreno rotto fu mediocre. Sovente i carri ritardavano la marcia e per i difetti funzionali e per le condizioni del terreno. Le sfuriate di Graziani contro i carristi passarono alla storia.
Per la loro mobilità ai carri si preferirono le autoblindo, sul cui uso però il colonnello Guglielmo Nasi in una circolare del 25 ottobre 1931 così criticamente si esprimeva: “E’ stato ottenuto qualche risultato eccellente ma, è bene confessarlo francamente, spesso fu dovuto al caso. Di massima invece, (e talora per ordine mio) le squadriglie sono uscite senza un programma stabilito” (7). Dal 1919 furono usati anche autocarri Fiat 15 ter privi di corazzatura armati di tre mitragliatrici Schwarzlose, una nella parte anteriore e due sui lati, definiti impropriamente carri armati.
Nello stesso anno le autoblindo in dotazione erano divise in due squadriglie, una su Ansaldo IZM in dotazione al 3° Cacciatori, l’altra di dodici Fiat tipo Tripoli assegnate al 4° Cacciatori di Derna. Nel gennaio 1923 fu costituita un’altra squadriglia e tutte furono riunite a Bengasi.
Uno dei migliori comandanti di autoblindo, il capitano Orlando Lorenzini, che morirà a Cheren nel secondo conflitto mondiale, in un rapporto del 1925 sosteneva che lo sfruttamento della nuova arma era stato in un primo tempo rallentato dall’incapacità di valutarne l’efficienza operativa che armamento, velocità e protezione offrivano.
Eppure si era a conoscenza dell’operazione militare condotta dagli Inglesi contro i Senussi nel 1917 quando una colonna motorizzata con 53 automitragliatrici e cannoni montati su autocarri, dopo aver percorso in una giornata 200 chilometri, piombò sull’oasi di Siwa sconfiggendo definitivamente i ribelli.
Fino al 1923 l’impiego delle autoblindo fu estremamente limitato, erano distaccate a protezione d’accampamenti e pascoli e al servizio di scorta agli spostamenti delle truppe. In seguito furono assegnate ai gruppi mobili, ma venivano vincolate strettamente alla scorta del convoglio o al servizio di avanguardia. Lo scarso addestramento degli equipaggi, determinato anche da carenze di risorse, venne alla luce quando a Bir Bilal il 10 giugno 1923 una colonna di autoblindo e autocarri armati, accampata dopo una giornata di marcia senza nessun servizio di sicurezza e di guardia, venne improvvisamente attaccata e distrutta con la morte di sei ufficiali, 38 soldati nazionali e 32 indigeni e con la perdita di sei autoblindo e numerosi autocarri.
Nel successivo 1926 i corazzati furono riuniti nella Prima Squadriglia autoblindomitragliatrici e autocarri armati. L’organico era di due carri d’assalto Fiat 3000, nove autoblindomitragliatrici e autocarri armati Ansaldo, una autoblindo Lancaster, otto autoblindo Fiat modello Tripoli, 23 autocarri armati Fiat 15 ter, due autocarri armati Ford T. Nel successivo agosto si formò la Seconda Squadriglia prelevando nove autoblindo e la Lancaster dalla Prima. Gli autocarri armati Fiat 15 ter avevano una carrozzeria blindata con lamiere d’acciaio e tre mitragliatrici Schwarzlose con un equipaggio di quattro uomini, un sottufficiale mitragliere capocarro, un conduttore, due mitraglieri. In dotazione vi erano 15.000 colpi e sei casse di riserva, oltre a 54 caricatori per moschetto 91. Il ricorso agli autocarri andò via via aumentando con il progredire della motorizzazione. L’autocarro tipo fu il Fiat 15 ter sul quale poteva essere caricato un cannone 65/17 con i sei serventi. L’uso nel tempo migliorò, ma non si prese in considerazione la necessità di nuovi mezzi specificamente creati per i terreni libici: il prezzo sarà pagato nella seconda guerra mondiale.

L’aeronautica

Il bombardiere Caproni 450

Il bombardiere Caproni 450

Fu nella guerra italoturca che si ebbe il primo impiego bellico nel mondo di aeroplani e dirigibili, seguito dalla Grecia nella prima guerra balcanica.
Il 2° Reparto del Battaglione Specialisti del Genio approntò e schierò nove aerei che, anche con voli notturni, svolsero azioni di ricognizione fotografica e bombardamento, causando grande scompiglio nelle formazioni regolari e irregolari nemiche. Due aerei erano Bleriot XI in grado di sviluppare una velocità di 75 km., due Farman dotati di una buona stabilità e con una velocità di 60-80 km, tre Nieuport Macchi IV M che raggiungevano la ragguardevole velocità di 110 km e due Taube, da uno dei quali fu effettuato il primo novembre 1911 il primo bombardamento aereo della storia con il lancio di una bomba da due chilogrammi su Ain Zara.
I primi tre erano di costruzione francese, il quarto austriaca. Nella riconquista l’arma aerea fu l’occhio dei gruppi mobili di cui aumentò in misura crescente le potenzialità.
Dell’arma, il generale Lyautey dopo la sconfitta di Abd el Krim in Marocco nel 1925, sosteneva: “Siamo tutti in ginocchio davanti all’aviazione”. L’azione di bombardamento e di spezzonamento, i mitragliamenti, la minaccia incombente della continua presenza dall’alto, pur senza grandi effetti materiali, costituiva psicologicamente un deterrente costante per i ribelli che si muovevano avendo al seguito donne, bambini e gli armenti necessari al sostentamento.
L’aviazione del R.C.T.C. che aveva in dotazione gli aerei più antiquati della Regia Aeronautica – la stessa politica era seguita per gli armamenti dell’esercito – era in grado di esplorare una zona larga dieci chilometri e profonda 180 che veniva in precedenza determinata e tenendo conto dell’autonomia di cinque ore degli apparecchi e delle possibilità di agganciare gli obiettivi con i reparti dislocati in zona. Il cavallo di battaglia fu l’Ansaldo SVA monoposto dotato di grande autonomia impiegato per il mitragliamento e il bombardamento leggero; vi erano poi lo SVA biposto per la ricognizione, il Caproni 450 per il bombardamento pesante e preziosissimi servizi logistici come trasporto feriti, posta e altro.
Va osservato che anche in Francia la situazione non era diversa se nel 1936 il generale Armengaud scriveva su La Revue des Deux Mondes: “Notre aviation d’outre-mer est une aviation du passé, à la fois par une matériel et par une conception de son emploi qui limitent par trop les service à en attendre”.
Nel 1927 si ebbe un impulso nel potenziamento dell’aeronautica con l’invio dei bombardieri Ca. 73 e dei ricognitori Ro. 1, assegnati all’aviazione libica in contemporanea con quella metropolitana. I gruppi si avvalevano anche dei progressi delle radiotrasmissioni che rendevano possibili i collegamenti tra le varie colonne impegnate nella stessa operazione, sincronizzandone i movimenti, e i presidi distaccati nelle zone. Le colonne Mezzetti e Graziani, che avanzarono sul Gebel e nel Fezzan, avevano al seguito apparecchi radio mobili G.T.L.
La sistemazione degli accampamenti subì trasformazioni dettate dalle esperienze belliche. Nei primi tempi erano collocati presso i villaggi con il pericolo d’improvvisi attacchi, in seguito presso le sorgenti d’acqua. Le truppe si piazzavano sulle alture che circondavano le depressioni acquifere con ufficiali che si alternavano vegliando tutta la notte; per le bande irregolari e l’artiglieria indigena la vigilanza doveva essere costante per la facilità con la quale si apriva il fuoco senza necessità. La sorveglianza era aumentata prima dell’alba essendo i guerriglieri soliti avvicinarsi all’accampamento durante la notte e attaccarlo alle prime luci. Un errore, al quale con il tempo si pose rimedio, fu quello di accamparsi al termine dell’orario di marcia senza tenere conto della situazione dei luoghi. In tutti i contatti con gli abitanti nelle regioni dove erano in corso operazioni militari, si doveva usare la massima prudenza. I capi andavano interrogati a una certa distanza dagli accampamenti o dalle località e i soldati non si dovevano confondere con gli indigeni. La guardia non andava abbassata nemmeno quando si incontravano tribù sottomesse. Le bevande e il cibo andavano serviti in un’unica tenda nella quale si raccoglievano i soldati e gli ufficiali, mentre un gruppo restava sempre all’erta.

I battaglioni eritrei

Il reclutamento era codificato da un regio decreto del 1892 e avveniva tra le “popolazioni delle colonie e le altre del continente africano”. In Eritrea si arruolavano due tipi di battaglioni, uno composto da indigeni dell’Eritrea, l’altro da “Eritrei Misti” formato da ascari eritrei e indigeni provenienti dal Sudan, Amen, Amara, Foggia Scià e Galla-Sidama. La ferma era di due anni al termine della quale esigevano di essere subito congedati, tanto che ad Azizia, assediata da forze ribelli, si dovette procedere con l’aviazione alla sostituzione del 10° battaglione eritreo con altro reparto. Per accertare l’idoneità fisica dei volontari compresi in età tra i 16 e i 24 anni che in massa si presentavano per l’arruolamento, erano organizzate marce di 60 chilometri da percorrere su terreno vario in dieci ore, seguite da visite mediche.
Gli Eritrei erano abituati a marciare scalzi, l’uso dei sandali era limitato a terreni estremamente difficili. La resistenza di questi reparti era eccezionale. Il XII battaglione, reduce da una durissima campagna, percorse gli 84 chilometri che separavano Taruna da Tripoli in 16 ore su un terreno impervio e un sole accecante, senza ritardatari, abbandonandosi a una “fantasia” all’atto dell’arrivo. Il primo battaglione eritreo che sbarcò in Libia fu il V nel gennaio 1912, seguito nel successivo marzo dal VI e dal VII.
I gradi erano Ascaro (soldato semplice), Uachil (soldato scelto), Muntaz (caporale), Buluc-Basci (sergente), Buluc-Basci capo (sergente maggiore) e Scium-Basci (maresciallo) tutti ambitissimi e preferiti alla medaglia d’argento, massima onorificenza delle truppe coloniali.
Il regolamento di disciplina delle truppe indigene prescriveva tassativamente che non vi doveva essere nessuna assimilazione fra i loro gradi e quelli delle truppe nazionali. Gli indigeni non avevano accesso a gradi di ufficiale, a differenza dell’esercito francese che li conferiva fino a quello di capitano dal 1830. Sovente le famiglie dei militari erano alloggiate in appositi campi a completo carico dell’amministrazione coloniale. I battaglioni, tra cui il IV fu il più decorato, non avevano la bandiera ma dal 1912 un gagliardetto. Fu solo nel 1921 che ebbero fucili e moschetti modello 91 e mitragliatrici Fiat 1914. Le ricompense erano la licenza premio, gli encomi, le promozioni, le medaglie di bronzo e d’argento e i titoli onorifici. Con decreto reale era possibile acquisire la naturalizzazione italiana a carattere personale e non trasmissibile agli eredi per particolari benemerenze o servizi resi. Le sanzioni consistevano nella fustigazione, nei ceppi e nella diminuzione della paga.
In un volumetto (8) edito nel 1934, il generale Nasi, comandante all’epoca il Regio Corpo Truppe Coloniali della Cirenaica e uno dei più autorevoli capi coloniali, dà una colorita descrizione delle qualità fisiche e morali degli ascari eritrei, nella quale i pregiudizi dell’epoca hanno forse avuto un certo peso.
Dotati di un udito “generalmente grossolano e imperfetto, avevano una pessima memoria, erano privi di iniziative ed estremamente distratti tanto da dimenticare nelle partenze improvvise non solo oggetti di equipaggiamento ma addirittura il fucile. Tiratori mediocri andavano tenuti strettamente in pugno durante le manovre di ritirata. Erano però guerrieri d’istinto, sanguinari e crudeli, avidi razziatori si lanciavano all’assalto con una furia inarrestabile. Rigidi osservatori della consegna ed estremamente attaccati al servizio e al loro comandante quando era uomo di primo ordine sotto l’aspetto fisico e morale, verso il quale erano adulatori abili e sottili”.
Gli ufficiali dovevano essere equanimi nei loro confronti cercando di capire la loro psicologia che li portava fino a una forma di rifiuto nell’obbedienza ai graduati se considerati di razza o condizioni sociali inferiori. Temevano fortemente la iettatura e il soldato tabib andava trasferito o congedato per evitare che fosse ferito o ucciso. Gli ascari si rivolgevano al loro comandante di reparto con la frase amarica “Colonnello, tu sei mio padre e mia madre”. Pensavano che i comandanti che s’irritavano e alzavano la voce “avevano il diavolo in testa” e che perdonare le infrazioni accertate era un segno di debolezza.
Anche il colonnello Maletti concordava nelle valutazioni: “È quant’altro mai ambizioso, presuntuoso, vanitoso, irrequieto, incostante, bugiardo […] Adulatore sfrontato, […] sprezza il pericolo sino alla temerarietà ed è desideroso di ricchezze, d’onori e di gloria […] guerriero di prim’ordine, nel quale l’impeto soverchia di gran lunga la sostanza […] dotato di vista incredibilmente acuta, ha invece un po’ ottuso l’udito e ha il sonno durissimo” (9).

I meharisti

Meharisti in Libia

Meharisti in Libia

Quando l’esercito francese iniziò le prime operazioni per la conquista dei paesi del Maghreb si evidenziarono subito le difficoltà di fronteggiare i guerriglieri che, montati su cammelli o dromedari, mettevano in crisi l’organizzazione militare con rapidissime puntate offensive seguite da pronti sganciamenti. Stranamente ci fu una sorda opposizione all’impiego del quadrupede da parte degli ambienti militari, legati al “nobile” cavallo, considerando indignitoso l’appollaiarsi sulla groppa dello strano e bizzarro animale.
Lo stesso avvenne in Palestina nel corso della Grande Guerra da parte degli ufficiali inglesi, come racconta Lawrence d’Arabia. I legionari della Legione Straniera preferirono per gli spostamenti i muletti sui quali montavano a turno la metà della truppa, raggiungendo un’apprezzabile velocità di spostamento, ma solo per le zone nelle quali vi era disponibilità d’acqua. Bisognerà arrivare al 1891, preceduti dagli Inglesi che dal 1884 avevano costituito il Camel Corps, per la costituzione di reparti cammellati e al 1903 per le prime “Compagnie delle Oasi Sahariane” con le quali si pattugliavano le immense distese desertiche. Napoleone invece li usò largamente nelle operazioni in Egitto, costituendo un reggimento di dromedari al comando del colonnello Cavalier e dotando altri reparti di animali da sella e da basto. L’impiego del cammello in operazioni belliche risaliva ai Romani che formarono, con reclutamento locale, squadroni in Egitto e in Palestina.
Il Regio Esercito costituì le prime compagnie di meharisti nel 1896 in Eritrea e nel 1911 in Somalia. Nel 1912 un reparto fu trasferito in Tripolitania e partecipò alla conquista del Fezzan. Nel corso della riconquista si formarono vari gruppi sahariani sotto il comando del Duca delle Puglie che parteciparono a tutte le operazioni apportando un validissimo contributo. Gli arruolamenti avvenivano in Eritrea, Somalia e, come per gli altri reparti coloniali, con elementi provenienti dal Sudan, dallo Yemen e dall’Egitto. Il reclutamento dei meharisti comportava difficoltà mentre i Francesi con gli Sciamba e i Tuareg disponevano di un locale materiale umano ottimo.
I reparti cammellati si dividevano in squadroni, gruppi sahariani e batterie. Gli squadroni avevano una consistenza variabile da 400 uomini, con 400 mehara e 60 dromedari da carico a 300 uomini, 300 mehara e 40 dromedari da carico.
L’armamento individuale era costituito dal moschetto mod. 91 T.S. e dalla pistola mod.1889. La sezione mitragliatrici era su due armi e ne aveva una di riserva. Ogni squadrone si divideva in 4 plotoni, ma spesso si frazionava in nuclei ancora più piccoli che operavano isolati. Negli scontri non agivano come la cavalleria mancando loro la forza d’urto tipica dei cavalieri. Il combattimento avveniva a piedi, i meharisti saltavano rapidamente dalle bestie senza farle inginocchiare affidandole ad un commilitone, ma non se ne allontanavano troppo, perché la perdita dei mehara comportava la perdita di tutto il reparto.
Compito principale era la ricognizione a lungo raggio, della quale il Duca d’Orléans sosteneva che andava fatta con pochi uomini o con moltissimi, dovendosi essere o molto veloci o molto forti e alla velocità si affidavano i meharisti. Nella scorta alle carovane si applicava il principio del generale Maillard: “On doit appliquer à la conduite d’un convoi tout ce qui se rapporte à une colonne et à son service de sureté, mais à une colonne qui ne veut pas combattre”. Altri compiti erano l’esplorazione, l’occupazione di punti per impedire la ritirata o per proteggerla, il servizio di polizia e di vigilanza, il rilievo di territori.
I meharisti non marciavano in formazioni regolari ma su un’ampia fronte scaglionati in profondità e durante le soste sistemavano gli animali, opportunamente legati al ginocchio, al centro con le selle all’esterno per formare una protezione.
Il maresciallo Bugeaud osservava che nelle guerre coloniali: “Il faut en Afrique, pour comander, des hommes vigoureusement trempés au moral comme au phisique; il faut des soldats robustes”. Queste doti erano assolutamente indispensabili per la formazione dei quadri dei reparti meharisti sui quali la solitudine pesava fortemente, lontani non solo dal consesso civile ma anche dai loro colleghi, impegnati in lunghi servizi di sorveglianza e d’esplorazione, muovendosi in paesaggi lunari, con forti sbalzi di temperatura, sottoposti ad una critica valutazione dei loro sottoposti.
Sul peso che gli ufficiali avevano nei reparti coloniali il maresciallo Lyautey notava: “Il est indispensable que les officiers se distinguent le moins possible de leurs hommes; il est constant que nos adversaires visent surtout aux officiers. […] Autant que possible rien ne devrait distinguer l’officier de la troupe […] leur vie est plus précieuse dans les operations coloniales, que partout ailleurs; une troupe indigène privée de son chef est désemparée et risqua les pires catastrophes”.
La riduzione dei bagagli all’indispensabile era una necessità, data la lentezza di movimenti delle bestie da soma che mal si accordava con la velocità, qualità primaria dei meharisti. Per gli ufficiali si riduceva a un barracano, mantello di lana tessuto alla maniera araba, due coperte di lana, un piccolo telone impermeabile, una scatola di cuoio per la biancheria, una per la cancelleria, la bussola, documenti e carte topografiche, una per gli oggetti di toilette, una posata, un bicchiere, un piatto, una borraccia da 2-3 litri.
Scrive il capitano Massimo Adolfo Vitale: “Deve perciò l’ufficiale accontentarsi solo dello indispensabile, abbandonando quanto è solitamente usato negli altri reparti anche nelle marce; rinunciare a tenda, a letto da campo, a cucina, ricorrendo per riposare, ad una coperta e al barracano, e per cibo a poche frugalissime cose, spesso senza fuoco e senza condimento. Nel bere deve egualmente adattarsi a superare la ripugnanza verso l’acqua giallastra o scura”. Dello stesso avviso era Lawrence: “Le difficoltà dei trasporti erano infatti così gravi, che noi ufficiali ci facevamo un vanto di viaggiare come i soldati i quali non potevano trasportare nulla di superfluo; pesava anche la mancanza di intimità. […] Ciò che dà noia nel deserto è di vivere in compagnia, di modo che ciascuno ode tutto ciò che gli altri dicono, e vede tutto ciò che gli altri fanno, giorno e notte”.

Il cammello

Il cammello costituiva parte integrante della vita dei reparti, essendo l’unico animale in grado di sopravvivere nel deserto. L’animale, dall’aspetto imponente, con un’altezza al garrese da metri 1,80 a 2,10, dotato di un odorato, di un udito e di una vista finissimi, con una straordinaria memoria, era in grado di bere dai 120 ai 140 litri d’acqua. “Rustico”, di carattere solitario, non aveva bisogno delle innumerevoli cure e delle manifestazioni d’affetto che si usano per il cavallo. La conformazione dello stomaco, capace di 245 litri e la gobba che costituiva la sua riserva di grasso, gli permetteva di continuare nella marcia per un periodo di gran lunga superiore agli altri animali. Nel dicembre 1926 nelle operazioni a sud di Giarabub marciarono per 13 giorni senza acqua nutrendosi di razioni ridotte d’orzo. Era per gli arabi una delle poche fonti di ricchezza e veniva circondato da cure. La pioggia e il forte vento lo disturbavano ed era solito fermarsi e voltarsi per presentare la groppa alle intemperie, costringendo il cavaliere a portarlo per la cavezza. L’animale brontolava rumorosamente, quando lo si avvicinava, sapendo che doveva iniziare a lavorare, ma diventava aggressivo solo nella stagione degli amori. La sua guida presentava molte difficoltà e solo buoni cavalieri riuscivano ad ottenere dall’animale tutto quello che era in grado di dare senza rovinarlo. Costituiva una perfetta macchina di locomozione per i terreni libici.
Il mehara, varietà del dromedario, nato dall’accoppiamento di un purosangue e di una femmina ordinaria, d’aspetto bellissimo, docile, abituato alla vicinanza dell’uomo, non pauroso come il cavallo, restava calmo anche sotto il rombo della fucileria e dell’artiglieria. I migliori provenivano dall’Algeria, dall’Alto Egitto e dal Sudan e andavano soggetti a pesanti perdite per il cambiamento climatico e alimentare. Il mehara eccelleva per la sua capacità di marcia, al passo percorreva cinque chilometri l’ora per circa 10-12 ore, al trotto 12 chilometri e, con brevi soste, era in grado di sostenere l’andatura per circa 10-12 ore, arrivando con il trotto allungato a 15-18 chilometri. Se di giorno il passo dell’animale era regolare e il cavaliere poteva meglio bilanciarsi, di notte si muoveva silenziosamente ma con un passo irregolare, stancando in modo particolare il meharista.

Rodolfo Graziani

Rodolfo Graziani, al centro

Rodolfo Graziani, al centro

Gli ufficiali inferiori che operavano in Libia erano o di carriera o di complemento richiamati dal congedo per un periodo di due anni e spesso poco motivati perché rientrati in servizio per motivi economici.
Su questo giudizio espresso dal colonnello Maletti nel 1927 era concorde dodici anni dopo il maresciallo Balbo: “[…] quelli inferiori sembrano buoni, ma difettano di vivacità; in massima parte sono di complemento quasi tutti senza una sistemazione nella vita civile”.
Nel corso delle operazioni si selezionò un gruppo d’ufficiali, Graziani, Mezzetti, Nasi, Maletti, Lorenzini, Piatti, Pizzarri, la cui esperienza, maturata in lunghi anni di durissima guerriglia, ebbe poi ad esprimersi nella guerra d’Etiopia e nelle successive operazioni di polizia. Valevano le parole di Bugeaud: “[…] des officiers jeunes et énergiques […] chefs ardents et vigoreux” e l’osservazione del generale Carlo Rocca: “La convenienza che tutti gli ufficiali passano qualche anno in colonia” (10).
Tra loro primeggiò Rodolfo Graziani divenuto negli anni a venire protagonista della storia d’Italia. I giudizi sul suo conto furono diversi e contrastanti, quasi sempre con una valenza temporale. Badoglio lo valutò come: “il migliore nostro condottiero coloniale” e “buon comandante di truppe”, al giudizio si associava Grazioli, pur sempre poco tenero nei confronti dei colleghi: “Eccezionali qualità di uomo d’azione, insuperabile comandante di colonne mobili […] uno dei più illustri condottieri coloniali d’ogni tempo”. Il duce, nella sua prosa immaginifica lo definì “Guerriero d’istinto”, il quadrunviro De Bono: “Il giudizio su Rodolfo Graziani lo può dare soltanto la storia, quella con la ‘S’ maiuscola”, mentre Balbo lo considerò: “Meno valoroso di quanto si crede. Ho studiato le sue operazioni militari. Sono tutti piccoli fatti d’arme contro al massimo 800 o 1000 uomini e ai quali non ha mai partecipato ad esclusione di una volta”. Numerosissimi furono i suoi ammiratori del ventennio che saccheggiarono tutti gli aggettivi elogiativi. Mussolini, nei tristi giorni della repubblica di Salò, confidò a Dollmann, colonnello dell’esercito tedesco: “Dei due mali militari che mi è toccato subire nella mia vita, Badoglio e Graziani, mi è rimasto il minore” (11).
Nel dopoguerra la chiusura nei suoi confronti fu totale e non gli si riconobbe alcun merito. Solo Giorgio Rochat, apprezzato storico militare e allievo di Piero Pieri, scrisse: “Capace e fortunato, uomo di valore ed esperto organizzatore coloniale, ma privo di senso del limite e dotato di un’ambizione ed una suscettibilità che sconfinava nella mania di persecuzione”.
Si potrebbe osservare che l’ambizione è quasi sempre alla base di ogni attività. Graziani è una figura anomala nel panorama militare italiano. Fu, col maresciallo Messe che proveniva dai sottufficiali, uno dei pochissimi ufficiali che arrivò alle vette della gerarchia senza avere frequentato l’accademia militare e la scuola di guerra, senza appartenere alla lobby degli artiglieri piemontesi, senza provenire da una antica famiglia i cui figli avevano largo spazio negli alti gradi militari.
Nato nel 1882, ufficiale di complemento nel 1903, superò nel 1906 il concorso per transitare nel servizio permanente effettivo. A sua richiesta partì per l’Eritrea nel 1908, dopo quattro anni, ammalato, tornò in Italia e nel febbraio 1914, sempre su sua richiesta, s’imbarcò per la Libia. Promosso capitano combatté nella prima guerra mondiale e nel 1918, a seguito di promozioni per merito di guerra era il più giovane colonnello dell’esercito. Rendendosi conto che le possibilità di carriera erano estremamente limitate, lasciò il servizio per intraprendere una attività commerciale in Grecia e Turchia, ma nel 1921 ritornò alla vita militare e partì per la Tripolitania agli ordini del governatore Giuseppe Volpi, futuro conte di Misurata.
Nella “Quarta Sponda” Graziani trovò il suo elemento e si pose subito in luce per il suo acume tattico. Partecipò alla riconquista della Tripolitania e guadagnò la promozione a generale di brigata per meriti di guerra nel 1923, a generale di divisione nel 1928 e a generale di corpo d’armata per meriti speciali nel 1932 su proposta di Badoglio. Graziani applicò metodi durissimi ma “on ne colonise pas avec des pucelles” aveva scritto il maresciallo Lyautey, prestigioso capo coloniale francese, uomo acutissimo che valutò la prima guerra mondiale nell’estate 1914: “Une guerre civile entre blancs”.
I suoi limiti furono impietosamente messi in luce nel deserto libico nel dicembre 1940, quando dimostrerà una completa sconoscenza della guerra moderna, della guerra meccanizzata. Nella relazione della Commissione di inchiesta sulla condotta della campagna militare in Africa Settentrionale presieduta dal Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel (16 novembre 1941-6 marzo 1942) gli saranno rivolte accuse pesantissime: mancata azione personale di comando, incapacità di valutare i tentativi offensivi nemici, lontananza dalla prima linea, proposta di ritirarsi nel campo trincerato di Tripoli abbandonando l’intera Tripolitania dopo aver perso la Cirenaica.
A posteriori scriverà: “La dura esperienza di queste amarissime giornate ci porta a concludere che, su questo teatro di guerra, una sola divisione corazzata è più potente di una intera armata”. La “dura esperienza” non risaliva a tempi lontani. Quando i reparti ai suoi ordini avevano raggiunto marciando a piedi nel deserto la località di Sidi el Barrani sentenziò: “Gli Inglesi cominciarono a capire che hanno a che fare col più attrezzato esercito coloniale”. Come si vede gli eventi trovano sempre i loro profeti, commenterà Eddy Bauer, autore della pregevole La guerre des blindés.
Sugli ufficiali coloniali, di cui Graziani era la massima espressione, profetiche furono le parole del colonnello Barreca scritte in anni non sospetti (12): “La storia della guerra di Algeria è larga di insegnamenti, così come le guerre coloniali in cui furono impiegate truppe inglesi. Da questi eserciti coloniali non è mai sorto nessun capo che, divenuto meritatamente illustre nella condotta vittoriosa delle operazioni in colonia, salito rapidamente ai gradi più elevati della gerarchia per l’abilità dimostrata nelle operazioni militari contro gli indigeni, si sia rilevato anche eccellente condottiero nella guerra combattuta in Europa. Bazaine insegni. E non c’è da stupirsi se si vedono talora ottimi capi di truppe coloniali coloro (sic) che sono mediocri capi di truppe metropolitane”.
Graziani illustrò le sue campagne in diversi libri nei quali seppe mettere in luce le sue imprese. Racconta di avere ispezionato tutto il Gebel dopo l’occupazione di Nalut: “con soli 20 spahis e tre ufficiali”. Colpisce l’odio e il disprezzo che manifesta per i libici. Definisce i capi arabi “Crudeli, malvagi, avidi, immorali”; per quelli che collaboravano la fiducia non doveva essere assoluta: “Occorre guardarsi dalla loro mentalità incostante, pretenziosa e refrattaria”.
Graziani rappresenta l’archetipo dell’animosità dei quadri dell’esercito nei confronti dei ribelli, condizione psicologica maturata in lunghi anni di lotta durissima contro un nemico che non faceva prigionieri. È una mentalità diffusa nella ufficialità. Il colonnello Rodolfo Corselli, autore di Tattica moderna e altri elementi di arte militare, edito nel 1922, annota che i difetti principali dei “barbari” sono: “L’ignoranza, la superstizione, la slealtà, l’avidità di denaro e la crudeltà”.
Graziani arrivò addirittura ad infliggere dieci giorni di arresto di rigore al capitano Lontano, nominato difensore di Omar el Muktar, con la seguente motivazione: “Incaricato d’ufficio della difesa di un capo ribelle reo confesso di ogni capo di accusa, ne pronunziava la difesa con tono apologetico, in contrasto con la figura del reo e colle particolari condizioni di luogo e di ambiente in cui si svolgeva il dibattito”. Il capo ribelle fu impiccato a Soluch davanti a 20.000 cirenaici, Graziani annota: “L’impressione prodotta fu enorme”. Il governo francese invece, con ben altra esperienza di politica coloniale, non condannò a morte i due carismatici capi ribelli Abd el Krim e Abd el Kader, fatti prigionieri dopo anni di guerriglia.
Il futuro maresciallo d’Italia non perde occasione di proclamare la sua fede nel duce, la sua fiducia nella grandezza del regime e nella pax romana. Di un incontro col dittatore racconta: “Chi ha avuto la fortuna di incontrare qualche volta Mussolini nel salone di lavoro a Palazzo Venezia davanti al suo tavolo e poi si volge per andarsene, sa che per giungere alla porta di uscita è come se facesse un chilometro invece di cinquanta passi, che non finiscono mai. Sentite dietro di voi lo sguardo magnetico dell’Uomo che vi segue, vi misura. Quando finalmente giunto alla porta, vi voltate per salutarlo nuovamente, allora, dallo sguardo del Capo potete comprendere se siete stato giudicato bene, o meno. Quel giorno i suoi grandi occhi brillavano verso di me come fari lucenti. […] Uscii con la sensazione che l’anima del Grande mi sarebbe stata vicina” (13). È un generale che piace al regime.

Il generale Mezzetti

Ottorino Mezzetti

Ottorino Mezzetti

Il generale Ottorino Mezzetti è un uomo di diversa caratura.
Tra il 1903 e il 1906 fece le sue prime esperienze coloniali nell’organizzazione dell’esercito del Congo, si mise poi in luce nelle operazioni per la riconquista della Libia. Delle sue esperienze ha lasciato un piacevole libro scritto nel 1931 e pubblicato nel 1934, Guerra in Libia: esperienze e ricordi. I suoi giudizi sugli arabi che, scrive, combattevano per il loro paese, sono diametralmente opposti a quelli correnti: “In quindici anni di colonia non ho trovato arabi felloni, ma indigeni che difendevano il loro paese e si battevano con le armi e l’astuzia. […] mai sono stato ingannato o tradito per quanto, più di una volta abbia dovuto affidarmi alla loro lealtà”.
Mezzetti ha parole di stima per il valore del nemico. Nelle operazioni per la riconquista delle oasi del 29° parallelo racconta: “[…] una trentina di ribelli che dalla ricchezza delle vesti e dell’armamento si appalesavano notabili, i quali con grande intrepidezza disposti su largo spazio aprivano il fuoco contro le autoblindo […] venendo rapidamente uccisi”. Sul governo delle popolazioni il generale romano riteneva opportuno che venisse affidato a funzionari indigeni, migliori conoscitori della psicologia e degli usi locali, cui dare il massimo prestigio. Era contro ogni inutile durezza, si oppose agli abusi e alle violenze a cui le truppe di colore si abbandonavano, parla di una guerra spietata rivolta più a un popolo che a un esercito.
La sua indipendenza di giudizi non lo rendono popolare negli ambienti militari e del regime. Nei confronti del fascismo e del suo duce Mezzetti è più contenuto, più sfumato, pur elogiandone la politica coloniale. Nel suo proclama alle truppe del 6 settembre 1927, dopo le operazioni estive sul Gebel, inneggia al governo della colonia, all’esercito, al re e all’Italia, senza una parola per il duce a cui i riferimenti di Graziani sono costanti. Uomo di grandi capacità verrà relegato al governatorato dell’Asmara e non parteciperà alle operazioni belliche della seconda guerra mondiale. Graziani e Mezzetti son le due anime dell’ufficialità italiana, la cui adesione al regime non ha remore, ma con uno stile e una enfatizzazione del tutto diverse.
Nel dopoguerra questi uomini, che pure avevano combattuto per il loro paese, nel clima di rigetto totale e di criminalizzazione per gli accadimenti del ventennio, sono stati denigrati con lo stesso calore col quale furono esaltati. Molti, storici furono portati a giudicare la storia di un recente passato con una completa chiusura mentale, con un discorso storiografico fazioso, senza sfumature, sulla quale costruirono il loro successo partendo da premesse ideologiche fissate in modo aprioristico, con un conformismo “democratico” che ricorda quello, abominevole, del ventennio fascista.

Note

1) Cadorna Luigi, Altre pagine sulla Grande Guerra – Milano 1925.
2) Lawrence Thomas E. di Arabia, La rivolta araba – Milano 1991.
3) Pantano G, 23 anni di vita africana – Firenze 1932.
4) Ciasca Raffaele, Storia coloniale dell’Italia contemporanea – Milano 1940.
5) Giacchi Nicolò, Arte militare coloniale – Rassegna dell’Esercito Italiano 1925.
6) Nasi Guglielmo, Operazioni coloniali. Scuola di Guerra. 55° corso 3° anno. 1925-1928.
7) Nasi Guglielmo, Criteri impiego squadriglie autoblindate. Comando delle Truppe. Stato Maggiore 25.8.1931.
8) Nasi Guglielmo, Memoria per gli ufficiali dei reparti eritrei. Comando R.C.T.C. della Cirenaica 1934.
9) Maletti Pietro, Ascari abissini sotto insegne italiane – Rassegna italiana 1926.
10) Rocca Carlo, L’ufficiale delle forze armate nelle colonie. Echi e commenti 1932.
11) Dolmann Eugene, Roma nazista – Milano 1949.
12) Barreca Riccardo, Gli ufficiali delle colonie. Echi e commenti 1928.
13) Graziani Raimondo, Il fronte Sud – Milano 1938.