LA STORIA DEGLI USI CIVICI E DELLE PROPRIETÀ COLLETTIVE

di Alfredo Incollingo –

 

Il libero utilizzo comunitario di boschi, prati e pascoli risale a concessioni di epoca medievale. Nel corso dei secoli la legislazione ha iniziato da un lato a liquidare parte di questi assetti fondiari, dall’altro a regolamentarne l’esistenza dopo le proteste delle comunità. Dal 1952 il nostro Paese ha provveduto a rivalutare gli usi civici con apposite leggi.

Miniatura da Les Très Riches Heures du duc de Berry, XV secolo.

Miniatura da Les Très Riches Heures du duc de Berry, XV secolo.

Le origini degli usi civici e, in generale, delle forme collettive di gestione della terra risalgono ai primi secoli medievali. In territori ostili e selvaggi le comunità rurali, soggette alla podestà dei signori feudali, risposero alle primarie esigenze di sopravvivenza mettendo in comune le principali risorse naturali. Boschi, laghi o prati montani, pur essendo di proprietà dell’aristocrazia feudale o del sovrano, erano aperte al libero pascolo o alla raccolta della legna. In alcuni casi è possibile rintracciare atti notarili con i quali i vassalli concedevano questi diritti ai loro sudditi, mentre in altri si trattava di abitudini tollerate e sopravvissute fino a noi.
Per tutto il Medioevo, fino alla fine del Settecento, gli usi civici e gli altri assetti fondiari collettivi sussistettero su buona parte del territorio italiano, nonostante le prime leggi liquidatorie preunitarie nel Granducato di Toscano o nel Regno di Napoli.

Due date in particolare segnano la lunga e controversa storia degli usi civici: il 12 marzo 1804 e il 2 agosto 1806. In quei giorni si definirono le basi giuridiche che giustificarono la soppressione, violenta o meno, delle terre comuni. Nel 1804, in Francia, con la promulgazione del Codice Civile di Napoleone Bonaparte, si cristallizzò la moderna concezione possessoria. Recita infatti l’articolo 544: “La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera la più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”. Tutti gli istituti possessori collettivi dovevano essere aboliti a favore della proprietà privata.
Giuseppe Bonaparte, re di Napoli e fratello di Napoleone, emanò il 2 agosto 1806 la legge sull’eversione del feudalesimo nel suo reame. Con questi atti legislativi si dispose l’accertamento di ogni forma di promiscuità sui demani comunali (ex feudali o ex ecclesiastici) affinché si stabilisse la natura e l’entità degli usi civici. L’incarico fu affidato alla Commissione Feudale istituita da Gioacchino Murat e agli Intendenti del regno, che iniziarono a valutare e a liquidare le forme incerte e controverse di promiscuità.
I dissidi tra le istituzioni pubbliche e le popolazioni locali sulla salvaguardia delle terre comuni si trascinarono per tutto l’Ottocento. Si tentò di sistemare i demani civici varando alcune leggi regionali, come la n. 397 del 4 agosto 1894 per gli ex territori pontifici o la n. 698 del 2 aprile 1882 per il Lombardo-Veneto.

Negli anni Venti del Novecento il governo fascista approvò una prima legge atta a sistemare definitivamente i territori civici italiani, la n. 1766 del 16 giugno 1927. La normativa mirava a fornire gli strumenti utili per rintracciare e classificare gli usi civici nei catasti comunali. Si prescrisse che, mediante prove documentarie o con “qualunque altro mezzo legale di prova”, si dimostrasse la persistenza delle promiscuità dopo il 1800. Solo così le terre comuni sarebbero state riconosciute legalmente e protette da usucapioni e altre illegalità. In caso di riscontro negativo, era previsto l’affrancamento dei terreni. Se da un lato la legge n. 1766/1927 rappresenta a tutti gli effetti una normativa liquidatoria, dall’altro ha per la prima volta offerto una classificazione dettagliata delle promiscuità secondo le finalità d’uso: pascolatico, legnatico, seminatico…
Una prima rivalutazione degli usi civici e delle proprietà collettive ci fu con le leggi sulla montagna, la n. 991 del 25 luglio 1952 e con le successive (1102/1971 e 97/1994). Si riconobbe la loro utilità nella salvaguardia ambientale, soprattutto nei territori montani, maggiormente interessati dagli assetti fondiari collettivi. Questi, infatti, offrono un modello di sviluppo ecosostenibile, che ha come fine la fertilità e la salute dell’ambiente.
Ciò è stato ribadito dalla Legge Galasso (l.n. 431 dell’8 agosto 1985), che li annovera tra i vincoli ambientali e paesaggistici, e dal Codice Urbani o Codice dei beni culturali e del paesaggio (Dlgs n. 42 del 22 gennaio 2004). Il 20 novembre 2017 è stata promulgata la legge n. 168 sulla gestione e sulla tutela del demanio civico italiano. La novità consistente del testo legislativo è il richiamo all’articolo 2 della Costituzione in riferimento agli assetti fondiari collettivi, poiché questi, riconosciuti come ordinamenti primari delle nostre comunità, sono stati posti sotto la tutela della Repubblica italiana.

Per saperne di più
Grossi Paolo, Un altro modo di possedere: l’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, Milano, 2017.
Marinelli Fabrizio, Un’altra proprietà. Usi civici, assetti fondiari collettivi, beni comuni, Pacini Editori, Pisa, 2016.