LA GRANDE ARMÉE NELLA TRAPPOLA DI SARAGOZZA

di Massimo Iacopi -

I soldati di Napoleone, vincitori ovunque in Europa, conoscono le prime dure sconfitte in Spagna. Nel febbraio 1809 si impadroniscono, al secondo tentativo, della capitale aragonese, ma ciò avverrà al prezzo di immense perdite, in entrambi i campi.

Sessanta giorni, due mesi interi, di combattimenti furiosi condotti contro una popolazione accanita e fanatizzata che resiste colpo su colpo, casa per casa, barricata dopo barricata e si batte persino nei conventi e nelle chiese: mai prima i veterani avevano affrontato una resistenza simile. “Maestà questa guerra provoca orrore”, scrive il maresciallo Jean Lannes, che pure ne ha viste ben altre, a Napoleone quando conquista Saragozza il 21 febbraio 1809.
Dei 100 mila tra soldati e abitanti che difendono Saragozza ne muoiono la metà, una vera carneficina. “La città era poco più di uno stretto cimitero. Dappertutto i morti ingombrano le strade”, testimonia il barone Louis François Lejeune. Ben 3 mila soldati sono morti per conquistarla, esattamente il doppio delle perdite della Grande Armée ad Austerlitz. Nel labirinto di viuzze strette, i corpi si ammucchiano a migliaia, vittime dei combattimenti o dell’epidemia di tifo, che devasta la città. Qualche impiccato, o piuttosto quello che rimane, penzola ancora dalla forca, dove sono finiti i combattenti spagnoli che hanno mancato di ardore in combattimento, oppure sospettati di tradimento. “Infernale Saragozza! – scrive alla sorella il tenente Thomas Robert Bugeaud, futuro maresciallo di Francia e pacificatore dell’Algeria – Sono già due mesi che ci troviamo fra la vita e la morte, i cadaveri e le rovine; tutti i vantaggi che speravamo dover raccogliere da questa guerra ce li siamo conquistati a caro prezzo”.

Ed è proprio in un inferno che sono penetrati i soldati francesi, a partire dalla insurrezione del dos de mayo, ovvero la rivolta di Madrid del 2 maggio 1808. In tutta la penisola si verifica la mobilitazione generale. Se gli Spagnoli hanno appoggiato l’invasione del Portogallo, nell’ottobre 1807, quindi la conquista di Lisbona da parte del generale Andoche Jean Andoche Junot, i 100 mila francesi presenti sul suolo iberico sono diventati rapidamente un alleato “scomodo”. Allorché, poi, Napoleone Bonaparte, approfittando della decadenza della famiglia reale spagnola, la convoca a Bayona, nell’aprile 1808, spogliandola della corona per consegnarla a suo fratello Giuseppe, già re di Napoli, il paese si infiamma.
Se i Francesi riescono a sbarazzarsi rapidamente e con una certa facilità dell’esercito regolare spagnolo, la cosiddetta “piccola guerra”, o guerra degli insorti, provoca, invece, devastazioni nei ranghi dell’esercito transalpino: imboscate, prigionieri torturati, massacri condotti da bande di civili. A queste azioni degli insorti rispondono inevitabilmente le rappresaglie francesi: borgate e città saccheggiate, distrutte o bruciate. La rivolta del popolo spagnolo è tale che il parola “guerrilla” (guerriglia, traduzione castigliana di “piccola guerra”) diventerà da quel momento un termine da vocabolario, noto universalmente. Ma a Saragozza, i Francesi, nei due assedi ivi condotti, apprenderanno un’altra lezione. La guerriglia può essere anche urbana. Gli “snipers” (cecchini), nascosti nelle decine di campanili della città, sono costituiti dai contrabbandieri della regione, temibili tiratori, ai quali vengono affidati dei fucili speciali usati per la difesa dei bastioni; i “bunker” sono invece tutte quelle case dai muri traforati di feritoie; gli avversari sono gli Aragonesi “così ostinati e ‘duri’ che usano persino la testa per battere i chiodi”.

Il primo assedio di Saragozza ha inizio il 21 giugno 1808 con 12 mila Francesi condotti dai generali Charles Lefebvre-Desnouettes e Jean Antoine Verdier. Sebbene siano esperti professionisti, comandano per la grande maggioranza contingenti composti da giovani reclute. La città conta circa 40 mila abitanti e si trova alla confluenza dell’Ebro, a cui è addossata, con il rio Huerva, a carattere torrentizio. La città è circondata da mura che però non rappresentano un baluardo insormontabile. La sua difesa naturale è rappresentata dalle solide mura dei forti e dei conventi che la circondano e dall’esistenza di un solo ponte sull’Ebro, che conduce verso il nord a un piccolo sobborgo solidamente protetto. Da ultimo, la città è composta da case con spessi muri di pietra e robuste cantine a volta, servite da stradine tortuose che formano un inestricabile intreccio che sbocca su una grande strada, intorno alla quale si ergono dei grandi edifici, chiese, università e conventi. La resistenza della città è affidata al ventottenne don José Palafox y Melci e a una giunta composta da preti e semplici commercianti inquadrati da qualche militare, tutti determinati a non arrendersi, e con una popolazione unanimemente e completamente mobilitata per il rinforzo delle fortificazioni.
Il 2 luglio, dopo un intenso bombardamento durato diverse ore, Verdier lancia il primo assalto con 10 mila uomini su tre colonne, di cui una sola riesce a penetrare nella città, dalla porta del Portillo. Il fuoco nemico è spaventoso e gli Spagnoli oppongono una straordinaria resistenza, facendosi massacrare sul posto piuttosto che cedere terreno di un solo centimetro. In questi combattimenti si mette in evidenza l’eroina Augustina Raimonda Saragossa y Domenech, anima della difesa, che contribuirà a ribaltare la situazione ricacciando l’attacco francese, che lascia sul terreno 500 uomini fra morti, feriti e impiccati.
Il secondo assalto viene tentato tre settimane più tardi il 1° agosto. Dopo un terribile bombardamento sul Convento di Engrazia, a sud est della città, vengono aperte due larghe brecce nelle quali si lanciano due colonne francesi guidate dai generali Pierre Joseph Habert e Charles Louis Dieudonné Grandjean. Una delle due colonne riesce ad arrivare al gran boulevard attraverso una stradina abbastanza larga, dopo aver conquistato alla baionetta tre barricate, ma non riesce a mantenersi sulle posizioni, in quanto è costretta a tornare indietro per ripulire una ad una tutte le case dalle quali gli assedianti assillano in tutti modi gli attaccanti (acqua, olio bollente, fuoco, pietre, travi, ecc.). Quando ormai l’azione sembra tendere in favore dei Francesi, giunge sul campo imperiale la ferale notizia della capitolazione francese nella battaglia del 19 luglio a Baylen, in Andalusia, dove sono stati fatti prigionieri ben 18 mila transalpini. I Francesi, presi dal panico, abbandonano Madrid e Verdier decide di togliere l’assedio.

Assalto al monastero di Santa Engracia, di Louis-François Lejeune.

Assalto al monastero di Santa Engracia, di Louis-François Lejeune.

Il secondo assedio di Saragozza ha inizio il 21 dicembre 1808 e in tutta la Spagna la resistenza della città, anche se si concluderà con una sconfitta, diventerà altrettanto celebre della vittoria di Baylen. Con questa azione gli Spagnoli – per usare le parole di uno scrittore transalpino – “cancellavano a Saragozza tutte le umiliazioni inflitte al loro esercito, opponendo ai nostri soldati la più gloriosa difesa che una città abbia mai opposto ad un invasione straniera”. Dall’estate 1808 la popolazione della città è raddoppiata. I contadini della regione vi si sono rifugiati, insieme a circa 40 mila soldati delle varie armi. I Britannici hanno abbondantemente rifornito di viveri la città e l’hanno provvista con eccellenti fucili e una grande quantità di munizioni. Tutta Saragozza è stata fortificata e sono state costruite, all’esterno, alcune opere dotate di artiglierie. Vengono murate le case, erette numerose barricate e preti e monaci contribuiscono a motivare una popolazione convinta che la Madonna del Pilar, la patrona della città, impedirà la conquista.
All’esterno si trovano 18 mila Francesi, comandati inizialmente da Junot e quindi da Lannes. Il comandante del genio, generale André Bruno de Frevol, conte Lacoste, ha fatto arrivare 60 cannoni di grosso calibro, 100 mila sacchi di terra e ha preparato migliaia di gabbioni e di fascine. Altre due divisioni, comandate dal maresciallo Edouard Joseph Mortier e dal generale Honoré Maxime Gazan de la Peyriere, bloccano la riva destra della città, isolandola da ogni possibile rinforzo o soccorso dall’esterno.
Dopo aver effettuato la conquista delle ridotte che circondano la città, vengono iniziati i lavori d’assedio con lo scavo delle parallele sotto il fuoco delle artiglierie avversarie: in questa operazione muoiono dai 40 ai 50 Francesi al giorno.
L’11 gennaio viene lanciato l’attacco da sud su tre colonne. Viene conquistato il convento di San Giuseppe, ma occorrerà attendere l’arrivo del maresciallo Lannes, il 21 gennaio, perché la morsa si chiuda sulla città. Lannes ordina alla divisione “Gazan” di occupare i sobborghi, mentre Mortier viene inviato a respingere i rinforzi che sono stati organizzati per venire in soccorso di Saragozza. Il 26 gennaio una pioggia di fuoco si abbatte nuovamente sul convento di Santa Engrazia. Inizia l’assalto, ma appena superata la breccia, l’artiglieria spagnola schierata dietro le barricate forza gli attaccanti a rifluire verso le mura. Vengono conquistate una decina di case e a partire da questa “testa di ponte”, ha inizio la conquista vera e propria.
Scrive il tenente Bugeaud: “passare per le strade è una cosa impossibile: l’attaccante vi perirebbe nel giro di due ore”. Viene, in effetti, scelta la soluzione di passare da una casa all’altra, facendo saltare i muri contigui. Così racconta il generale Marcellin Marbot, ferito durante l’assalto al convento di Santa Engrazia: “Poco dopo che si produce l’esplosione, i nostri soldati si slanciano rapidamente sulle macerie, uccidendo tutti quelli che incontrano sulla loro strada, andandosi a stabilire sul muro opposto della casa, erigendo delle trincee con dei mobili e delle travi e creano nel mezzo di queste rovine dei passaggi per gli zappatori incaricati di minare la casa vicina”.

La resa di Saragozza, di Maurice Orange.

La resa di Saragozza, di Maurice Orange.

Se durante la progressione diventa indispensabile attraversare una strada, viene preliminarmente costruita una barriera di protezione con sacchi di terra, di macerie, ma anche con libri, tratti dalle numerose biblioteche della città. “Diversi dei nostri – racconta Lejeune – hanno dovuto la vita allo spessore dei volumi di storia di questo o quel santo, dei quali non sognavano di certo di imitarne la pietà”. Lo scavo di gallerie di mina sarà l’altra soluzione impiegata dai Francesi per abbattere i muri delle costruzioni più solide e resistenti all’artiglieria. Un’altra guerra parallela si svolge in effetti sotto terra: vengono scavate dagli zappatori delle enormi gallerie sotto le opere più resistenti, dove mine da una tonnellata o una tonnellata e mezza di polvere, provvedono a far crollare la struttura sui suoi difensori.
Ma anche dal lato spagnolo si scava per deporre delle cariche sotto i piedi degli assalitori. Spesso gli zappatori delle due parti, costretti in stretti tunnel, arrivano nello stesso tempo sul fondo di una cantina dove si massacrano con le pale e le zappe. Di notte i difensori, silenziosi con le loro scarpe di corda, lanciano delle incursioni, sorprendendo i soldati francesi spossati, sgozzandoli prima di svignarsela attraverso le rovine. Quando una casa diventa indifendibile, provvedono a coprire il muro esterno di pece, prima di incendiarlo, scatenando un fumo nero spesso che impedisce all’avversario di progredire. I Francesi sono spossati, malnutriti e malati, ma dal lato spagnolo l’epidemia di tifo è devastante. La popolazione, affamata, resta avvelenata nel fondo delle cantine dai miasmi dei cadaveri che nessuno ha più il coraggio di sotterrare.
“Sebbene avessimo preso d’assalto i loro bastioni da 15 giorni e fossimo già padroni di una parte della città, – scrive Bugeard – gli abitanti, eccitati dall’odio nei nostri confronti, dall’azione dei preti e dal fanatismo, sembrano volersi seppellire nella loro città sull’esempio dell’antica Numanzia… ogni convento, ogni casa ci oppone la stessa resistenza di una cittadella e per ciascuno occorre un assedio specifico. Tutto si combatte metro per metro, dalla cantina al granaio, e solo quando sono stati tutti uccisi a colpi di baionette o tutti gettati dalle finestre, ci si può dire padroni della casa”. I comandanti del genio delle due fazioni vengono uccisi nello stesso giorno, ma ci si continua a battere con rinnovato accanimento.
In occasione dell’assalto di una chiesa, Lejeune vede i difensori asserragliarsi dietro l’altare, i confessionali, i banchi rovesciati e i preti stordire gli attaccanti a colpi di crocefisso, prima di essere passati a colpi di baionetta. Dopo l’esplosione del Convento di San Francesco, che seppellisce sotto le sue rovine decine di famiglie che vi erano rifugiate, insieme a circa 400 difensori, il generale percorre stravolto l’ammasso delle rovine: “Tutte le superfici dei dintorni e i tetti erano orribili da vedersi per la quantità di resti umani che vi erano appesi. Non si poteva fare un passo senza inciampare su dei resti umani dilaniati e palpitanti: un gran numero di mani e di frammenti di braccia separati dal tronco ci indicavano l’enormità della catastrofe”.
Il 18 febbraio, Lannes invia un ultimatum al generale spagnolo Palafox. Questi, malato da diversi giorni, sa bene che Saragozza non potrà essere soccorsa. Sfidando le minacce di quelli che vogliono ancora battersi, egli firma la capitolazione generosa che gli propone Lannes. Il 21 febbraio, all’alba, le colonne spagnole escono dalla città. Mai spettacolo fu più triste e toccante. 13 mila uomini malati… “tutti di una orrenda magrezza, con la barba lunga, nera e negletta, con appena le forze per sostenersi, si trascinano lentamente al suono del tamburo”. Ma gli Spagnoli vibrano di collera “e i loro sguardi feroci sembravano dirci che si rendevano conto delle nostre forze residue e che si dispiacevano vivamente di aver ceduto davanti a un così piccolo numero di nemici”. Ciò che gli Spagnoli hanno insegnato ai soldati francesi, durante questi sessanta terribili giorni, è il fatto che si può pur battere una nazione, ma raramente si ha ragione di un popolo.