LA FORD MOTOR COMPANY AL SERVIZIO DELLA GERMANIA NAZISTA

di Simone Barcelli -

 

Il costruttore automobilistico Henry Ford, come diversi altri americani dell’epoca, non nascose mai la sua ammirazione per Adolf Hitler. Un sentimento evidentemente contraccambiato, poiché il Führer gli concesse nel 1938 la massima onorificenza del Reich riservata ai cittadini stranieri: la Gran Croce del Supremo Ordine dell’Aquila Tedesca. L’azienda di Ford, con stabilimenti e concessionarie anche in Germania, divenne infine parte integrante della macchina da guerra tedesca

 

Henry Ford nel 1921

Henry Ford nel 1921

L’industriale di Detroit Henry Ford, fondatore nel 1902 della Ford Motor Company, l’azienda di automobili che introdusse per prima lo standard della catena di montaggio e che lo rese milionario, alla metà degli anni Venti del secolo scorso cominciò a esportare autovetture e trattori agricoli in Germania, tramite una concessionaria di Berlino, ma già nel 1926 aveva realizzato nella capitale una fabbrica in cui procedeva all’assemblaggio degli elementi per produrre sul posto gli autoveicoli.
Nel 1930, per fronteggiare la concorrenza della General Motors che aveva acquistato buona parte del pacchetto azionario di Opel, Ford costruì un nuovo stabilimento a Colonia, per incrementare la produzione.
Mentre Hitler saliva al potere, la Ford Motor Company realizzava a Colonia la prima utilitaria destinata al mercato tedesco. Allo scoppio del conflitto, la società assunse la denominazione di Ford-Werke e si dedicò principalmente alla produzione di veicoli militari, motori e pezzi di ricambio per la Wehrmacht, comprese le turbine dei razzi V-2.
Ancor prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra, fu modificata la composizione societaria e la Ford-Werke si separò dalla sede americana della Ford Motor Company, ma anche dopo Pearl Harbor, la Ford mantenne il 52% delle azioni della Ford-Werke.[i]
Fu proprio in quel frangente che lo stabilimento cominciò a occupare centinaia di ebrei, prelevati dai campi di concentramento, come schiavi per la produzione illegale di munizioni.

Il giornalista investigativo Edwin Black ha ricostruito la vicenda: «La società ha pubblicato il suo rapporto del 2001, compilato dallo storico Simon Reich, oltre alla documentazione originale, che è stata messa a disposizione del pubblico senza restrizioni… Il rapporto sul Reich concluse, tra le altre cose, che Ford-Werke, la consociata tedesca della società, usò il lavoro schiavo nel campo di concentramento di Buchenwald nel 1944 e nel 1945 e funzionò come parte integrante della macchina da guerra tedesca. I funzionari della Ford a Detroit hanno commentato pubblicamente il loro passato nazista, sono rimasti disponibili per un commento, si sono scusati e hanno generalmente aiutato tutti coloro che cercano risposte sul suo coinvolgimento con il regime di Hitler».[ii]
D’altronde, la stessa cosa succedeva anche all’Auto Union, l’antenata di Audi, dove il presidente Richard Karl Wilhelm Bruhn, in carica dal 1932 al 1945, utilizzava nel processo produttivo almeno ventimila prigionieri provenienti da sette campi di concentramento diversi, anche grazie agli ottimi rapporti con il regime.[iii]
Gli interessi economici che legavano la casa automobilistica di Henry Ford al mercato tedesco durante il Nazismo, con lo sviluppo di un’appropriata rete di contatti, sono stati sviscerati dal giornalista investigativo Max Wallace, che ha ricordato come Ford fosse un acerrimo sostenitore del non interventismo degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, almeno fino all’attacco giapponese a Pearl Harbour.[iv]
Secondo l’autore, che ha avuto accesso a documenti governativi declassificati, la Ford Motor Company ha consapevolmente permesso il lavoro degli schiavi nella sua filiale tedesca durante la seconda guerra mondiale e ha sostenuto le sue divisioni europee producendo attrezzature per l’esercito nazista.

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Un panzer dell’Afrikakorps

In sostanza Wallace ritiene che i legami con la compagnia di Detroit andassero ben oltre Henry Ford.
I documenti indicano che suo figlio Edsel, presidente della compagnia dal 1919 al 1943, avrebbe dovuto essere processato per intesa col nemico, considerando la corrispondenza intrattenuta con il responsabile della divisione francese della Ford nel 1942, che suggerisce come la società madre fosse a conoscenza e approvava gli sforzi di produzione intrapresi per conto dell’esercito tedesco.[v]
Il giornalista Flavio Pompetti riassume bene la faccenda: «Wallace sostiene che la Ford ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione dell’arsenale bellico tedesco (un terzo dei 350.000 camion dell’esercito nazista nel 1942 era prodotto da lei, così come le turbine di alcuni reattori). La fabbrica di Colonia godette fino all’ultimo di un regime di relativa autonomia del tutto atipico, e la filiale di Parigi, trasferita poi in Algeria continuò a mantenere rapporti vietati dalla legge americana con la fabbrica Ford in territorio occupato dai tedeschi a Poissy. Ford fu un uomo di affari che non cedette mai alle lusinghe della politica e il suo operato obbediva al solo imperativo del profitto. Ma questo non può esentarlo da un giudizio critico da parte della storia».[vi]
La filiale Ford di Parigi, cui accenna Pompetti, si trovava a Poissy e iniziò la produzione di automezzi espressamente destinati all’esercito tedesco nel giugno 1940, sotto la direzione di Maurice Dollfus, che già dal 1930 collaborava con la Ford Motor Company. Nel marzo del 1942 questo stabilimento fu bombardato dalla Royal Air Force: per i danni subiti, il governo di Vichy risarcì Ford Motor Company con trentotto milioni di franchi.
La fabbrica costruita nel 1941 in Algeria dalla filiale francese della Ford, si trovava a Orano e produsse i carri armati per l’Afrikakorps di Rommel. Nel 1943 la Ford-Werke stabilì anche una fonderia non lontano da Colonia, appena oltre il confine belga vicino a Liegi, per produrre pezzi di ricambio.[vii]

Fra l’altro lo stabilimento della Ford, costruito alla periferia di Colonia, durante la guerra non fu mai colpito dai bombardamenti. Il giornalista Nicola Loda ricordava anche «l’intervista a Claudio Sommalunga, al tempo ufficiale italiano prigioniero dei tedeschi e costretto al lavoro forzato nello stabilimento della Glanzstoff & Courtaulds. Sommalunga afferma che lo stabilimento dove lavorava “fu l’unica fabbrica di Colonia a non essere bombardata. Anzi, ci fu un altro caso. Anche la Ford non fu mai bombardata. Caso strano: la Glanzstoff che era mezza inglese e la Ford che era mezza americana. Io poi sono riuscito ad avere le foto aeree dei bombardamenti di Colonia e c’è un cerchio di 800 metri di diametro senza bombe che è quello della fabbrica. Idem la Ford”. In mezzo a questo mare di distruzione, bombe senzienti erano riuscite a evitare con chirurgica precisione questi due obiettivi, e grazie alla loro pietà Sommalunga e molti altri suoi colleghi forzati riuscirono a salvarsi. Anche lo scrittore Michael Parenti ricorda che “Colonia fu quasi rasa al suolo dai bombardamenti alleati, ma lo stabilimento della Ford, che forniva equipaggiamento militare per l’esercito nazista, non venne toccato; infatti i civili tedeschi cominciarono a utilizzare lo stabilimento come rifugio antiaereo”. Quindi, quale logica di intelligenza spingeva quelle bombe a evitare accuratamente i due stabilimenti? La Glaznstoff produceva fibre sintetiche per i paracadute mentre lo stabilimento Ford autocarri per l’esercito. Erano obiettivi strategici, ma non vennero mai colpiti».[viii]
In realtà anche Glanzstoff & Courtaulds all’epoca dei fatti aveva parte del capitale che proveniva dagli Stati Uniti, poiché American Enka Company, fondata nel 1928 con uno stabilimento ad Asheville in Carolina del Nord, pur avendo il 56% del pacchetto azionario in mano all’azienda olandese Nederlandse Kunstzijdefabriek, (che apparteneva comunque alla holding Algemene Kunstzijde Unie – AKU, di cui faceva parte anche la tedesca Vereinigte Glanzstoff-Fabriken – VGF), di fatto era gestita da americani. L’inglese Courtaulds non c’entrava per niente, anzi, rifiutò di partecipare all’investimento negli Stati Uniti. In più, negli anni Trenta VGF era addirittura indebitata con American Enka Company e nel 1937 le obbligazioni VGF emesse e vendute negli Stati Uniti furono acquistate dagli olandesi, poiché era necessario che AKU figurasse come società con proprietà principalmente olandese, per proteggere le sue attività americane.[ix] [x]

Lo storico Jacques R. Pauwels fornisce altri dettagli sulle attività di Ford in favore della Germania nazista: «Quella società non solo produceva per i nazisti nella stessa Germania, ma esportava anche camion parzialmente assemblati direttamente dagli Stati Uniti in Germania. Questi veicoli furono assemblati nella Ford-Werke a Colonia e furono pronti appena in tempo per essere usati nella primavera del 1939, nell’occupazione di Hitler della parte della Cecoslovacchia che non gli era stata ceduta nel famigerato Accordo di Monaco dell’anno precedente. Inoltre, alla fine degli anni ‘30, Ford spedì materie prime strategiche in Germania, a volte tramite filiali in paesi terzi; solo all’inizio del 1937, queste spedizioni includevano quasi 2 milioni di libbre di gomma e 130.000 libbre di rame. Nella Ford-Werke, Robert Schmidt, presumibilmente un fervente nazista, prestò servizio come direttore generale durante la guerra, e la sua esibizione soddisfaceva notevolmente sia le autorità di Berlino che i dirigenti della Ford in America. Messaggi di approvazione e persino congratulazioni – firmati da Edsel Bryant Ford – venivano regolarmente inviati dalla sede centrale della Ford a Dearborn… Per quanto riguarda la Ford-Werke, nel 1939 questa azienda sviluppò anche un camion all’avanguardia – il Maultier (‘mulo’) con ruote sul davanti e una carreggiata sul retro. La Ford-Werke creò anche una società di copertura, la Arendt GmbH, per produrre equipaggiamenti di guerra diversi dai veicoli, in particolare parti di lavorazione per aerei. Ma Ford afferma che ciò è stato fatto senza la conoscenza o l’approvazione di Dearborn…».[xi]

È inoltre probabile che una parte del denaro accumulato in Germania dalle società americane sia stato trasferito negli Stati Uniti attraverso sedi dislocate in paesi neutrali o col tramite di personale diplomatico, come sostiene Edwin Black.[xii]
Il pieno coinvolgimento del figlio di Henry Ford, Edsel, tirato in ballo da Wallace, emerge anche dal lavoro di Antony Cyril Sutton, già professore di economia alla California State University di Los Angeles e ricercatore presso l’Hoover Institute della Stanford University.
Sutton sottolineava che tra i dirigenti della filiale americana della I.G. Farben (Interessengemeinschaft Farbenindustrie AG), un polo industriale chimico-farmaceutico sorto in Germania nel 1925 grazie ai prestiti americani forniti nell’ambito del Piano Dawes, c’era anche Edsel Bryant Ford della Ford Motor Company.
Fra gli altri c’erano anche il presidente della National City Bank Charles Edwin Mitchell, il direttore della Bank of Manhattan Herman August Metz e il presidente della Standard Oil Company del New Jersey Walter Clark Teagle.Teagle, oltre a essere membro degli organi direttivi della Federal Reserve di New York (Consiglio consultivo commerciale nazionale e direttore del Consiglio nazionale del commercio estero), fu nominato dal presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt nelle agenzie governative National Labor Board (Consiglio Nazionale del Lavoro) nel biennio 1933-1934 e National War Labor Board (Consiglio Nazionale di Guerra del Lavoro): quest’ultima operò dal 1942 al 1945 per definire le controversie di lavoro che potevano ostacolare lo sforzo bellico durante la Seconda Guerra Mondiale.[xiii]
Per quel che concerne invece Robert Hans Schmidt, il direttore dello stabilimento Ford di Colonia, ma anche importante membro del partito nazista, è certo un suo incontro nel 1943, in Portogallo, con i dirigenti della casa madre, a conferma che questi conoscevano bene le vicende che interessavano le sue filiali in Germania. Schmidt al termine della guerra fu arrestato, ma rimase in carcere solo due mesi e nel 1950 fu riassunto come dirigente.[xiv]

Note
[i] Jacques R. Pauwels, Big Business and Hitler, James Lorimer & Co, 2018.
[ii] Edwin Black, IBM and the Holocaust: The Strategic Alliance Between Nazi Germany and America’s Most Powerful Corporation, Crown Publishers, 2001.
[iii] Ivan Francese, L’Audi e quei lavoratori schiavi nei lager nazisti, Il Giornale, 26 maggio 2014.
[iv] Max Wallace, The American Axis: Henry Ford, Charles Lindbergh, And The Rise Of The Third Reich, St. Martin’s Press, 2004.
[v] Simon English, Ford ‘used slave labour’ in Nazi German plants, The Telegraph, 3 novembre 2003.
[vi] Flavio Pompetti, Quell’asse Hitler Ford solo in nome del profitto?, La Repubblica, 21 dicembre 2004.
[vii] Jacques R. Pauwels, op. cit.
[viii] Nicola Loda, Bombe intelligenti, Paginauno n. 3, giugno – settembre 2007.
[ix] Harold James, The Nazi Dictatorship and the Deutsche Bank, Cambridge University Press, 2004.
[x] Mira Wilkins, The History of Foreign Investment in the United States, 1914-1945, Harvard University Press, 2009.
[xi] Jacques R. Pauwels, op. cit.
[xii] Edwin Black, IBM and the Holocaust: The Strategic Alliance Between Nazi Germany and America’s Most Powerful Corporation, Crown Publishers, 2001.
[xiii] Antony Cyril Sutton, Wall Street and the Rise of Hitler, Press, Seal Beach, 1976; Joseph Borkin, The Crime and Punishment of I. G. Farben, Free Pr, 1978; Peter H. Coy, Walter Teagle’s Nazi Connection, The Cornell Daily Sun, Volume 95 Number 20, 27 September 1978; The University of California, Santa Barbara, The American Presidency Project, 4.8.1933 – 5.8.1933 – 2.5.1935 – 6.9.1944 – 6.3.1963.
[xiv] Nicola Loda, Bombe intelligenti, Paginauno n. 3, giugno – settembre 2007.

Per saperne di più
Simone Barcelli, Le finanze occulte del Führer, Edizioni Aurora Boreale, 2023.